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Il vuoto nell’adolescenza – Intervista a Giuseppe Lorenzetti (2)

Giuseppe Lorenzetti

L’adolescenza è l’età della vita in cui l’individuo cerca un proprio posto nel mondo, affronta i primi scossoni e deve confrontarsi con il vuoto. Nell’epoca attuale, però, questo confronto è sempre più problematico e osteggiato. Giuseppe Lorenzetti, autore del saggio “Adolescenza” (EMI), ha risposto ad alcune nostre domande sul tema.


Martino Giannone: Esplorerei ulteriormente il tema del vuoto esistenziale. Recentemente ho scritto un articolo riguardo a social e algoritmi e al loro impatto sulla libertà di scelta. A tal proposito, è emblematica la dinamica delle filter bubble. Secondo questa teoria, in base a quanto cliccato in precedenza e consumato normalmente, vengono proposti sempre gli stessi contenuti e modalità di pensiero simili.

Ho letto qualche saggio del filosofo Byung Chul Han, che parla dell’illusione di trovare una collettività nella realtà virtuale. Mentre, sostanzialmente, ci si ritrova sempre nella propria individualità. In più, le scelte imposte dall’esterno non permettono di conoscersi interiormente e di capire cosa si voglia davvero. Il vuoto viene illusoriamente colmato ma rimane.

Nonostante questo, io credo che questa condizione possa essere un’opportunità di crescita e possa suggerire un approccio epistemologico per la scoperta della realtà e di se stessi. La vita e l’evoluzione degli adolescenti, con i loro traumi e i loro turbamenti, può essere d’ispirazione agli adulti che normalmente creano un castello illusorio di certezze attorno a loro. Condividi questa idea?

Giuseppe Lorenzetti: Ti rispondo con qualche riga del libro: “Adulti e adolescenti, riconoscendosi nei loro rispettivi ruoli e nelle loro differenze, hanno bisogno gli uni degli altri nella stessa misura. L’adolescente ha bisogno degli adulti affinché gli infondano forza, gli insegnino a non arrendersi, a non tradire se stessi, ad accogliere e a interrogare la propria sofferenza. Così come l’adulto ha bisogno degli adolescenti, della loro angoscia e del loro modo inquieto di essere depositari di verità per ricordare l’anelito e la felicità, per non dimenticare che c’è dell’altro”.

Questo passo si collega poi a una delle testimonianze scritte dai ragazzi:

Forse il problema che più affligge noi adolescenti, anche se facciamo fatica ad ammetterlo, è proprio quello di non essere sufficientemente considerati dagli adulti. È vero, gli adolescenti fanno fatica a farsi capire, questo perché ogni generazione ha i suoi problemi e le sue sfide. Tuttavia, con i più giovani ci dovrebbe essere innanzitutto rispetto e considerazione, poiché ammirano gli adulti e, pur con tante difficoltà, provano ad imparare da loro.

Giuseppe Lorenzetti, Adolescenza (p. 83).

Emerge un aspetto che è spesso sottovalutato: il desiderio di ricevere gli insegnamenti da parte dei giovani. Mentre nel passo appena citato c’è una richiesta esplicita, in molti casi questo desiderio non riesce a trovare espressione se non attraverso l’angoscia e il disagio che proviamo.

Nell’adolescenza si scopre infatti per la prima volta la sensazione del vuoto: le cure dei genitori improvvisamente non bastano più, manca qualcosa. Inizia così un percorso, che dapprima prova a fermare questo disagio, riempiendo il vuoto nei vari modi che ci offre la società: da un uso sconsiderato dei social, alle droghe, al consumismo. Tuttavia, la distrazione non basta mai e l’angoscia continua a ripresentarsi in diverse forme.

Finchè non si arriva alla crisi: qui servono gli insegnamenti e delle figure educative di riferimento ed inoltre si capisce che non si può scappare per sempre, che la sofferenza va attraversata per trovare un altro modo di vivere la vita. Così l’adolescente, con la sua sensibilità, può diventare un esempio per tutti coloro che cercano un cambiamento senza nemmeno saperlo. In questo incontro c’è dunque una reciprocità di apprendimento e di possibilità di crescita.

Vuoto Giuseppe Lorenzetti
Il vuoto nell’adolescenza. Foto: Gazzetta.

Tutto ciò non sarebbe però possibile senza la fiducia. Ai ragazzi va infatti trasmessa la capacità di guardare oltre, di credere che anche quel disagio ha un senso, anche se adesso non lo si può capire. C’è bisogno di tempo, bisogna imparare ad aspettare, a “stare” nella difficoltà per trovare le risposte che si cercano.

In questo modo si può superare la tendenza per cui si rinuncia a comprendere ciò che ci circonda. Se ci si rapporta in modo diverso alla realtà, pur vedendone le problematiche, si può dare un significato alla propria presenza nel mondo e si può andare oltre all’idea di una casualità incontrollata.

La cultura materialista, invece, passa l’idea della vita come una mera casualità, delle nostre azioni come un meccanico istinto di sopravvivenza. Tuttavia, presto ci si accorge che non è così perchè anche chi è riuscito ad ottenere tutto ciò di cui credeva di avere bisogno si sente irrimediabilmente mancante. Siamo abituati a guardare sempre fuori, ma spesso ciò che cerchiamo è dentro di noi ed è una ricerca di senso.


M.G.: Ora vorrei affrontare l’altro grande macro tema di questo saggio: i genitori. Per farlo partirei dal modello delle costellazioni familiari di Bert Hellinger. Secondo l’autore è di fondamentale importanza l’accettazione della figura del genitore e anche la capacità di perdonarlo. Qual è il motivo?

G.L.: Hellinger nella sua indagine ha utilizzato un approccio fenomenologico, quindi si è basato su quello che ha notato nella sua esperienza. A partire dal suo lavoro clinico, durato moltissimi anni, si è reso conto che laddove non riesce ed esserci accettazione da parte dei figli nei confronti dei propri genitori l’energia vitale è come se si bloccasse.

Senza accettare coloro che mi hanno dato il dono della vita, pur con i loro limiti, gli errori e le contraddizioni, non posso accettare nemmeno la vita stessa. L’accettazione, inoltre, si distingue dal perdono. Hellinger spiega infatti che quest’ultimo richiede l’assunzione di una posizione di superiorità rispetto all’altro. Ciò che è necessario è invece “semplicemente” accettare ciò che è stato.

Spesso succede infatti che, quando giudichiamo i nostri genitori, il senso di colpa inconscio ci porta a replicare proprio quei comportamenti che non siamo riusciti ad accettare. Questo tema ha un riscontro anche sul versante sociale, poichè senza accettazione, i figli non possono sentirsi pienamente adulti, non riescono ad assumersi fino in fondo la responsabilità della propria vita. Avviene così che molte persone cerchino inconsciamente una forma di autorità esterna, che spesso trovano nelle istituzioni, che gli dica che cosa fare e come pensare.

Per i ragazzi diviene quindi fondamentale comprendere che dal modo in cui affronteranno il legame con i genitori dipenderà moltissimo della propria esistenza. È importante sottolineare che, a prescindere dagli errori del padre e della madre, essi sono coloro che ci hanno dato il dono della vita. Proprio per questo si deve riuscire a trovare una gratitudine incondizionata.

Da parte loro, i genitori dovrebbero fare tutto ciò che è in loro potere per accompagnare il figlio ad aprirsi alla vita. Il più delle volte prevale oggi un approccio iperprotettivo che trattiene i ragazzi in una zona di comfort e che alimenta la loro paura. È necessario quindi trovare un equilibrio tra lo spronare i figli ad ‘uscire fuori’, a prendere in mano la propria vita, e allo stesso tempo l’esserci nel momento della ricaduta. I genitori devono riuscire in sintesi ad essere fermi, ma con dolcezza.

Nel libro collego questo tema alla parabola evangelica del figliol prodigo. Il padre è consapevole dei rischi che il figlio affronterà, delle prove a cui sarà chiamato. Sa persino che potrebbe non tornare mai più, ma non può sostituirsi a lui, non può vivere la sua vita. Sa che deve lasciarlo andare. Tutto ciò che può fare è dargli fiducia, è vedere l’uomo che c’è in lui. Nel racconto il figlio si perde ed incontra l’esperienza della depressione. A questa segue il cambiamento interiore ed il ritorno alla casa del padre: non più, però, come ragazzo ma come uomo, che ha vissuto e affrontato il dolore.

M.G.: Volevo infine prendere una delle testimonianze degli adolescenti alla fine del saggio, in particolare quella di ‘R’, 19 anni: “avrai sempre qualcosa in meno degli altri, ma almeno UNA cosa in più che ti rende unico”. L’unicità è il traguardo che gli adolescenti, al giorno d’oggi, hanno dimenticato?

G.L.:Il tema dell’unicità è sicuramente fondamentale e si collega agli altri che già abbiamo toccato. A dire il vero oggi è come se si giocasse sull’ambivalenza della parola unicità: da una parte si invitano i ragazzi a essere unici e dall’altra si forniscono gli standard di espressione di questa “unicità conformante”.

C’è infatti sia il desiderio di essere unici, che quello di voler apparire come unici, ma non sono la stessa cosa. In un caso, infatti, si agisce in funzione delle aspettative di qualcun altro. Nell’altro, invece, si è disposti a trovare la propria unicità attraverso un percorso di ricerca, che potrebbe anche portarci a non essere accettati dalle persone che avevamo vicine.

Si torna quindi al tema dell’essere o dell’apparire. Ciò di cui hanno bisogno realmente i ragazzi è sentire che la loro vita serve a qualcosa e in questo senso diventa unica. È unica perché legata a un modo unico di sentire il mondo e di interagire con esso. Prima viene la ricerca di noi stessi, anche attraverso le difficoltà, e poi arrivano le gratificazioni. Quando qualcosa è troppo comodo, infatti, dobbiamo insospettirci.

[Fine seconda parte]

Martino Giannone 


(Intervista a Giuseppe Lorenzetti realizzata da Martino Giannone, trascrizione di Benedetta Bellucci, editing di Alice La Morella; immagine di copertina: Lattes Magazine)

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