Candidato agli Oscar 2024 nella categoria Miglior film, “The Holdovers – Lezioni di vita” traccia una miniatura delicata di individui costretti a fare i conti con la propria solitudine. Da qui scaturiscono rapporti inaspettati ma travolgenti, sullo sfondo di un college americano degli anni ‘70.
Un mosaico di individualità
Letteralmente, i ‘residui’: questa è la traduzione del titolo della pellicola in italiano. Un termine schietto, efficace, che va dritto al punto: i residui non sono solo i protagonisti di questa storia di eccezionale normalità, sono anche i brandelli di vita che i personaggi cercano di rimettere insieme.
Ambientato in un college americano nel 1970, il film fa luce su tre esistenze inconciliabili ma, per certi aspetti, parallele. Quasi come se fossero a turno sotto un riflettore, seguiamo le vicende di Paul Hunham, un antipatico professore di storia odiato dai suoi alunni, Mary Lamb, una madre che ha perso il figlio in guerra, e Angus, uno studente ribelle ma intelligente, alle prese con una famiglia disfunzionale.
I tre, costretti chi per un motivo chi per un altro a una convivenza forzata nel college durante le vacanze di Natale, metteranno lentamente a nudo le proprie fragilità. Questo processo di scambio reciproco li porterà a scoprirsi più simili di quanto pensassero, in quanto tutti legati da una caratteristica fondamentale: l’essere stati dimenticati, lasciati indietro.
Tramite uno storytelling lento e dolce la pellicola prende per mano lo spettatore e lo accompagna all’interno dei sentimenti condivisi dell’animo umano, in risposta all’individualismo che contraddistingue l’epoca contemporanea.
Gli anni ‘70: una società di vinti
I moti del ‘68 hanno profondamente scosso la coscienza individuale e, soprattutto, collettiva delle società occidentali: lotte armate, occupazioni e manifestazioni hanno aperto la strada a un decennio caratterizzato da grandi speranze e ideali.
L’ampia gamma di possibilità offerte ai giovani ha creato un panorama frammentato di scelte e possibilità, spingendo molti a interrogarsi sui propri valori e sull’identità personale. Con un’esplosione di nuove idee e stili di vita alternativi, i giovani si sono trovati ad affrontare una vasta gamma di opzioni che richiedevano una profonda riflessione sulla propria posizione nel mondo.
Se da una parte è presente nell’immaginario comune l’idea di essere in cammino verso un futuro più giusto e, in generale, migliore, è anche vero che le immense opportunità offerte ai giovani intensificano il problema dell’identità, mettendo il singolo di fronte alla domanda: “Quali sono i miei valori? Ma soprattutto, chi sono io?”
Ma, vedi, il mondo non ha più senso. Voglio dire, è in fiamme. Ai ricchi non frega un accidenti.
Paul Hunham
In un mondo che procede inesorabilmente verso una complessità sempre maggiore, il singolo individuo è costretto a riflessioni costanti sulla propria interiorità, unica cosa in grado di garantire certezze.
In quest’ottica, la cultura hippie, la trasgressione e la ribellione – appena accennati – presenti all’interno della pellicola sono forse la semplice risposta di una generazione non ancora pronta a questa presa di coscienza.
Tramite una fotografia che richiama l’estetica cinematografica degli anni ‘70 – i colori pastosi, la patina vintage, l’utilizzo di The Wind (di Cat Stevens), colonna sonora di quel decennio – il regista Alexander Payne trova una risposta a questa crisi identitaria in ritorno alle origini dell’io, a quel sentimento primitivo di fratellanza e unione tra esseri umani, visto come unico antidoto alla perdita di sé stessi.
L’importanza di una figura di riferimento
Questo concetto è perfettamente incarnato nel giovane protagonista del film, Angus Tully (interpretato dal debuttante Dominic Sessa). Proveniente da una famiglia ben poco interessata a lui e alla sua vita (il padre è malato mentalmente, mentre la madre si sta costruendo una seconda vita con il nuovo compagno), il ragazzo si fa portavoce di un senso di abbandono e smarrimento quasi universale, metaforicamente rappresentato dal Natale che è costretto a passare al college in solitudine.
È proprio questo evento che mette a nudo il disperato bisogno di Angus di sentirsi ascoltato, guidato e capito. Infatti, il punto di svolta della pellicola arriva in corrispondenza della presa di consapevolezza dello studente di aver trovato un equilibrio perfetto con il professor Hunham, il quale, inizialmente in maniera titubante e poi con maggiore decisione, si fa carico di un ruolo educativo che va ben oltre l’ambito accademico.
Paul Hunham, sotto questo punto di vista, si inserisce prepotentemente nella lista cinematografica di professori che fungono da riferimento e modello di vita ai loro alunni.
Impossibile allora non pensare al signor Keating dell’Attimo fuggente (1989) o al dottor Maguire di Will Hunting – Genio ribelle (1997), entrambi personaggi che condividono un legame speciale con i propri studenti e in generale con i ragazzi. Si tratta infatti di un topos trattato più volte e con accezioni diverse nel corso degli anni, ma che non smette mai di essere attuale.
Secondo Abraham Maslow, uno psicologo statunitense, i bisogni dell’individuo si possono distribuire all’interno di una piramide, dove al vertice si trova la necessità di autorealizzazione, definita come l’esigenza di realizzare la propria identità e di portare a compimento le proprie aspettative.
In determinati periodi della vita come la gioventù questo bisogno è più prepotente e non sempre gli strumenti per soddisfarlo sono sufficienti. Se, come accade in molti casi, l’ambiente familiare non è un alleato, è necessario che qualcun altro subentri senza paura a farsi carico di una responsabilità che non può essere completamente abbandonata sulle spalle dei ragazzi.
Il rapporto tra scuola e famiglia
Incentrata sulla scoperta di sé anche grazie all’aiuto degli altri, questa pellicola rientra a pieno titolo nel genere cinematografico Coming-Of-Age. Il momento di passaggio dei ragazzi verso il mondo adulto è segnato profondamente da un fattore: la scuola.
Il legame tra questa istituzione e la famiglia, è dinamico e piuttosto controverso. I genitori oscillano tra l’arrogarsi il diritto di educare i propri figli come meglio credono e scaricare la piena responsabilità sui maestri e professori, che tuttavia lamentano a loro volta una mancanza di libertà nei metodi educativi.
Si genera così una sorta di guerra di potere, che ha come oggetto conteso il futuro degli adolescenti, gli unici che, in fondo, ne escono sconfitti.
La corresponsabilità educativa – un equilibrio tra i ruoli ricoperti dai due poli – può essere quindi considerata l’unica soluzione a questo conflitto. Del resto, come recitano le linee di indirizzo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, “la nostra Costituzione assegna alla famiglia e alla scuola la responsabilità di educare e di istruire i giovani.
Fin dalla nascita della moderna Repubblica, pertanto, i genitori e gli insegnanti hanno rivestito un ruolo di grande rilevanza nello sviluppo dei giovani”.
Il film riesce a sintetizzare molto bene la necessità di cooperazione tra le due istituzioni. Difatti, il futuro di Angus, strettamente legato alla scoperta di sé stesso, viene messo in pericolo dall’irruzione, sul finale, della madre: causa primaria dello smarrimento del figlio, la donna non accetta l’intromissione della scuola, incarnata dalla figura del professore, all’interno della vita del ragazzo; eppure solo il sacrificio, metaforico e letterale, del professore permetterà di salvaguardare il benessere di Angus.
Ponendosi esattamente a metà tra un dramma e una commedia, la pellicola è in grado di affrontare temi contemporanei e, pur senza essere un’opera rivoluzionaria, offrire soluzioni di una semplicità disarmante.
Valentina Bianchi
(Immagine in copertina: Seacia Pavao)