Giovedì 7 marzo, presso l’Oratorio San Filippo Neri, Alessandra Sarchi, scrittrice e storica dell’arte, ha presentato, in dialogo con il professor Marco Antonio Bazzocchi, il suo nuovo romanzo intitolato “Il ritorno è lontano” (Bompiani, 2024). A margine, Chiara Celeste Nardoianni ha avuto l’occasione di intervistarla.
“Il ritorno è lontano” di Alessandra Sarchi all’Oratorio di San Filippo Neri
Alessandra Sarchi, classe ’71, è una scrittrice italiana di saggi, racconti e romanzi. Le sue opere principali sono “Violazione” (Einaudi, 2012), vincitore del premio Paolo Volponi Opera prima; “L’amore normale” (Einaudi, 2014) e “La notte ha la mia voce” (Einaudi, 2017) vincitore del Premio Mondello Opera italiana, del Premio selezione Campiello e il premio Wondy per la letteratura resiliente 2018.
Durante l’incontro, Alessandra Sarchi ha presentato il suo nuovo romanzo “Il ritorno è lontano”, guidata dalle domande del professor Marco Antonio Bazzocchi (UniBo) che all’inizio dell’intervista ha annunciato di aver candidato il libro al premio Strega 2024.
Perché proporre questo libro al Premio Strega?
Innanzitutto, al centro della narrazione vi è l’analisi del nucleo familiare, che può sembrare un argomento banale, ma a proposito del quale attualmente, sottolinea Bazzocchi, si sente forte la mancanza di un dibattito pubblico.
La storia infatti narra le difficoltà di una coppia di genitori, Sara e Paolo, che si trovano ad affrontare le irrequietudini di Nina, figlia poco più che adolescente, che ha deciso di abbandonare il nido familiare e di trasferirsi in Germania dove studia e milita all’interno di un collettivo ambientalista.
Per quanto la madre rappresenti un parametro dal quale discostarsi il più possibile, l’irrequietudine di Nina è lo specchio di quella di Sara, che a metà della storia decide di cambiare completamente gli equilibri della propria famiglia.
Un romanzo sul cambiamento climatico
Quindi, il romanzo pone al centro della narrazione uno dei problemi più urgenti della nostra epoca, il cambiamento climatico.
Ed è anche per questo che Bazzocchi ha deciso di candidarlo al Premio Strega. Infatti, Sarchi sottolinea come oggi le nuove generazioni (e nel romanzo Nina) affrontino i problemi legati all’attualità con un maggior grado di disperazione rispetto alla generazione del ’68, rappresentata nel romanzo da Vittoria, la nonna della ragazza.
Quest’ultima, infatti, a un certo punto del romanzo dice:
La differenza più grossa che vedo io è che noi eravamo allegri anche quando c’era davvero poco per esserlo. Questi giovani invece mi sembrano tutti un po’ depressi.
Sarchi ha spiegato infatti durante la presentazione come i giovani di oggi siano tristi e si sentano “senza mondo” proprio a causa dello stesso pianeta che sentono sgretolarsi intorno a loro, ed è come se si chiedessero incessantemente “Cosa ci resta del mondo?”.
Proprio a questo proposito Sarchi ha introdotto il saggio dello scrittore indiano Amitav Gosh “La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile” (Neri Pozza, 2017) in cui l’autore spiega come le narrazioni sul cambiamento climatico siano confinate al genere fantasy e a quelle di stampo saggistico.
E proprio per questo, aggiunge Gosh, saremo identificati dalle generazioni successive come l’epoca della “Grande Cecità” per la nostra incapacità di trasporre in letterature le catastrofi naturali a cui abbiamo assistito quotidianamente.
Un libro dal potere evocativo delle parole
Invece dal punto di vista tecnico, Sarchi sceglie accuratamente le parole con cui scrivere il romanzo che si caricano di un grande potere allusivo, a cominciare dalla scelta della poesia in esergo di Franco Fortini, da cui l’autrice riprende il titolo del romanzo.
Di pomeriggio il bosco
Fa l’incanto del sonno.
Il riposo è profondo
Il ritorno è lontano.
Franco Fortini, da Canzone per una bambina, in Foglio di via e altri versi (Quodlibet, 2018).
Il bosco nel romanzo di Sarchi ha un valore epifanico, sia dal punto di vista della trama ma anche in senso metaforico, in quanto incarna quella selva oscura che significa immergersi in noi stessi, senza sapere con quali nuove consapevolezze riemergeremo.
Chiara Celeste Nardoianni: A volte noi giovani veniamo accusati di non interessarci alla politica perché non andiamo a votare. Nel romanzo Nina è un’attivista per il clima per un collettivo che in Italia potrebbe trovare un corrispettivo, forse più moderato, in Ultima Generazione. Lei pensa che l’attivismo giovanile, abbia un potere trasformativo sulla realtà? E per quanto riguarda le forme “estreme” di attivismo giovanile? (Penso, ad esempio, agli attivisti che attaccano le opere d’arte).
Alessandra Sarchi: Io penso che abbia un grande potere trasformativo, perché richiama l’attenzione su un problema che, nonostante sia molto comune e di moda nella discussione pubblica, in realtà è ancora abbastanza sottovalutato nella prassi.
Per quanto riguarda le forme che lei ha definito “estreme” di attivismo, quelle che forse costeggiano il vandalismo sui monumenti e musei, a me dispiace molto vedere questi atti, perché so la fatica che costa preservare le opere, so la fatica che costa renderle accessibili al pubblico e forse non sono i bersagli migliori da colpire.
Però mi rendo conto che, proprio perché attirano l’attenzione su un bene al quale pubblicamente abbiamo deciso di dare valore, è un modo per rivolgere l’interesse su un altro bene altrettanto importante che è quello dell’equità climatica, della giustizia climatica e della conservazione del pianeta.
È un bene invisibile perché è un bene diffuso ma non per questo è meno importante.
C.C.N.: La seconda domanda che le volevo porre invece è sul personaggio di Sara che vedendo sua figlia si sente in colpa per non aver protestato abbastanza quando era giovane. Lei crede che la sua generazione si senta in colpa nei nostri confronti per averci lasciato in eredità un mondo in cui imperversa la crisi climatica oppure il diritto all’aborto non è garantito?
A.S. La nostra è stata una generazione che avrebbe potuto fare tanto e alla quale era stato promesso che avrebbe potuto fare tanto ma non è stata proprio così incisiva, anzi.
Però siamo forse anche una delle prime generazioni (dal Dopoguerra in poi intendo perché quella delle società democratiche è una storia dell’umanità breve, decisamente giovane) in cui la tendenza ad avere un miglioramento dei giovani rispetto ai vecchi si è invertita; infatti, il nostro potere di acquisto, la nostra capacità di incidere, era minore rispetto a quella dei nostri genitori, dei vostri nonni.
Quest’ultimi hanno avuto accesso a molte più risorse e hanno avuto la possibilità di ottenere molti più diritti di quanto non abbia fatto la nostra generazione. Riguardo ai diritti delle donne c’è stata una grande battuta di arresto: sembrava che negli anni ’80, ’90 la parola femminismo fosse quasi una brutta parola, un’offesa, e ci si è dimenticati di come in realtà la condizione della donna non fosse così migliorata.
Oggi dobbiamo constatare come siamo ancora lontani dalla parità dei diritti, a partire dall’equità salariale che non esiste, soprattutto in un paese come l’Italia.
C.C.N.: Dunque lei ha detto che “è una sua interpretazione la colpa”, ma in che senso?
A.S.: Io non ho pensato alla madre come ad un personaggio che si sentisse particolarmente in colpa.
Lei si sente di aver fatto quello che poteva fare e di non essere riuscita a cambiare le cose proprio perché, e lo si dice in un punto del romanzo, “a lei è stato chiesto di essere quella generazione sempre flessibile”, ovvero quella generazione che si è adattata ad avere lavori a tempo determinato che poi venivano rinnovati all’infinito, tutto questo nella promessa che le cose sarebbero andate bene.
Poi Sara si ritrova sulla soglia dei 50 anni che forse le cose non sono andate così bene, pur avendo vissuto in un momento di benessere e apparentemente senza problemi. I problemi si andavano creando diciamo, erano sulla soglia, mentre adesso ce li abbiamo tutti intorno a noi.
C.C.N.: Sara ha un tumore all’utero e prima dell’operazione dice al marito che le toglieranno “il nido della vita” a cui il marito risponde che è un’affermazione melodrammatica. Lei pensa che sia la presenza di un utero a rendere una persona di genere femminile? Pensa che sia così fondamentale per una donna “generare un’altra vita”?
A.S.: No, non credo che l’utero, così come nessuno dei nostri organi, ci definisca più di tanto. Non sono nemmeno i nostri organi a definire il nostro orientamento sessuale, figuriamoci la nostra identità. Certo è che c’è una base della nostra fisiologia che non possiamo nemmeno dimenticare.
L’utero è il luogo della vita, non ci vuole neanche tanto sforzo simbolico per immaginarlo, ed è anche un luogo piuttosto misterioso. Noi adesso sappiamo tante cose della vita prenatale che prima non si sapevano, cioè, sappiamo che è un luogo dove c’è tanto scambio di comunicazione tra la madre e il bambino; quindi, è chiaro che è un luogo molto ricco di simbologie.
C.C.N.: Monica (capa di Sara) si fa chiamare “direttore”. Cosa significa da donna nominarsi al maschile?
A.S.: Premetto che io ho scritto questo libro prima di avere una Presidente che si fa chiamare il Presidente; ma, in ogni caso, è vero anche che ci sono delle donne che sono più maschiliste dei maschilisti. Comunque, posto che ognuno si fa nominare come meglio ritiene, i maschili e femminili esistono.
Il greco possedeva anche un bellissimo caso che era il neutro, noi lo abbiamo perso ma penso che cominciare a declinare il mondo al femminile dove possibile sia molto importante, proprio perché tutte le nostre strutture sociali, economiche e linguistiche sono declinate al maschile.
Già fare questo sforzo ci abituerebbe a pensare a un mondo in cui l’asse portante non sono più solo gli uomini ma anche le donne.
Intervista a cura di Chiara Celeste Nardoianni, con la collaborazione di Elettra Dòmini e Davide Lamandini.
L’intervista ad Alessandra Sarchi è stata realizzata in collaborazione con l’Oratorio di San Filippo Neri e Mismaonda.