L’adolescenza è l’età in cui l’individuo cerca un proprio posto nel mondo, affronta i primi scossoni e deve confrontarsi con il vuoto. Nell’epoca attuale, però, questo confronto è sempre più problematico e osteggiato. Giuseppe Lorenzetti, autore del saggio “Adolescenza” (EMI), ha risposto ad alcune nostre domande sul tema.
Martino Giannone: Partiamo dall’introduzione del saggio Adolescenza, in cui si coglie immediatamente il tema della fiducia. La mia domanda è: nell’ambito della tua professione di psicologo e di insegnante, in che modo concretamente hai potuto vedere la mancanza di questa componente, appunto la fiducia, negli adolescenti? C’è un episodio in particolare che ricordi a tal proposito e che, nel caso, ha ispirato la scrittura di questo saggio?
Giuseppe Lorenzetti: Mi collegherei subito al periodo del Covid che è stato, a mio parere, una sorta di spartiacque in questo senso. In quegli anni si è affermato uno stile di vita, in realtà già valorizzato dalla nostra società prima della pandemia, che, a mio parere, allontana le persone le une dalle altre.
Questo risultato è determinato soprattutto dall’influenza delle tecnologie, in particolare dei social e dello slogan con cui viene proposto il loro utilizzo, ovvero quello di “connettere”. In realtà, come spesso succede, dietro queste promesse si cela l’effetto opposto.
Di fatto, la distanza fisica va in qualche modo a creare uno spazio di sicurezza, che è quello dell’incontro virtuale, ma allo stesso tempo va ad inibire il desiderio di incontrare realmente l’altro; nel tentativo di evitare il rischio si annulla la possibilità fare esperienza di un incontro generativo.
Quindi, se da un lato è vero che i ragazzi sono sempre in contatto tramite social, messaggi, videochiamate e quant’altro, è vero anche che sono intimamente più lontani, incapaci di comunicare profondamente.
Con il Covid si è imposto questo nuovo modello di interazione e, di conseguenza, le difficoltà in questione si sono amplificate. Tra le varie problematiche che si sono acutizzate c’è sicuramente l’isolamento sociale, conseguente alla chiusura delle scuole durante il periodo del lockdown. Questo comportamento, normalmente problematico, è stato in pratica legittimato e valorizzato dalle norme sanitarie.
Ritengo che ciò che i ragazzi, in qualche modo, hanno vissuto durante gli anni dell’emergenza sia stato una sorta di tradimento da parte istituzioni, in particolare della scuola, già allo stremo delle forze dopo anni di tagli e di assurde riforme.
Con la didattica a distanza e il trasferimento sullo schermo di un computer infatti, a livello inconscio nella mente di molti ragazzi, è come se la scuola si fosse abbassata al livello di un qualunque videogame, dove al centro non sta più la relazione, ma l’intrattenimento.
Quella credibilità, già pesantemente compromessa, si è erosa ancora di più, andando a creare una fortissima crisi di fiducia.
Il ruolo della società sarebbe quello di sostenere i giovani nell’affrontare le paure durante il loro percorso di crescita, così che possano imparare ad affrontare i limiti e a superarli. Al contrario, attualmente sembra che si faccia esattamente l’opposto: si alimenta la paura e la si utilizza come strumento di controllo.
M.G.: Vorrei concentrarmi su due fenomeni. Il primo è tiktok, che è a tutti gli effetti il ‘capostipite’ dei social network. Il secondo è la violenza tra i giovani, in particolare il caso delle baby gang. Secondo te questi fenomeni sono legati al vuoto interiore che avvertono i ragazzi? Ed eventualmente, tra di loro, hanno una correlazione?
G.L.: I social sono, per definizione, uno strumento di intrattenimento che impone una specifica modalità di pensiero. Il loro funzionamento prevede implicitamente che un contenuto si adegui e si appiattisca agli standard di ciò che è normalmente ricercato al loro interno. L’obiettivo è quello di ottenere consenso e lo standard comunicativo diviene offrire distrazione. Nonostante ci siano delle eccezioni virtuose nei contenuti che vengono offerti, il processo alla base premia la superficialità e la vacuità delle proposte.
Il problema infatti è che la nostra mente si abitua a un determinato tipo di stimoli e di fruizione dell’informazione, ricercando istintivamente la via del piacere immediato. L’adolescente quasi sempre non è ancora in grado di scegliere consapevolmente una via faticosa ma utile per la sua crescita. Ha bisogno di essere sostenuto nel farlo.
Nei social si vengono a creare invece le condizioni ottimali affinché si realizzi esattamente l’opposto del processo educativo: ciò che ha successo è ciò che mi tiene lontano dal dolore e non ciò che mi offre gli strumenti per affrontarlo.
Ciò a cui si assiste è un graduale annichilimento del pensiero, attraverso la creazione di una sorta di stato ipnotico.
Questo fenomeno è estremamente importante e decisamente sottostimato. Alberto Contri, studioso e docente di comunicazione che cito nel libro, sostiene che i social creino uno stato di costante attenzione parziale.
Siamo continuamente stimolati dalle informazioni, ma esse ci arrivano in una quantità e ad una velocità tale che è impossibile elaborarle e collegarle tra di loro per ottenere una sintesi e un pensiero autonomo. L’effetto che hanno queste informazioni, quindi, è simile a quello delle slot machine.
Abbiamo delle continue scosse di gratificazione a livello cerebrale, finché, a causa dell’iperstimolazione, il nostro cervello non inizia ad affaticarsi. Il problema è che quest’affaticamento non deriva da alcun movimento attivo o creativo: succede che arriviamo a fine giornata stremati, senza però essere stati in alcun modo produttivi.
L’altro tema è quello dei contenuti che vengono trasmessi dagli influencer. Questi personaggi vendono un’immagine che corrisponde alle aspettative di chi li segue, ma non è autentica, non può esserlo. Quando si invitano i ragazzi ad essere sempre ciò che vogliono, ciò che si sentono di essere, evitando però un propedeutico percorso di conoscenza di sé stessi, li si sta invitando in realtà ad essere, senza che se ne rendano conto, ciò che altri vogliono che siano.
Per quanto riguarda invece il tema delle baby gang e della violenza più in generale, credo che certamente anch’essa sia in parte influenzata dai social e, più in generale, dall’industria culturale di massa.
Mi viene in mente la serie Mare Fuori: nonostante ci siano dei personaggi positivi e in alcuni casi venga sviluppato un percorso di crescita e di consapevolezza, la quantità e la gratuità della violenza mostrata è talmente grande, da avere la meglio sul significato della storia. Anche se la narrazione è interessante e gli attori sono molto bravi, ciò che veramente rimane agli spettatori, a livello inconscio, è la violenza, che viene in qualche modo resa eroica.
Lo stesso vale per tutti i famosi film di mafia, che attraverso il ‘mafioso eroe’, temuto e rispettato, esortano all’imitazione di certi comportamenti.
Un altro tema correlato è quello dell’impreparazione alla realtà: siamo sempre più abituati, i ragazzi in particolare, ad essere collegati a una realtà virtuale e ciò che spesso si va a creare è una sorta di confusione tra il virtuale e il reale.
La violenza, per assurdo, può divenire in alcuni casi un modo per sapere se esistiamo, se l’altro esiste. È un disperato tentativo di “toccare con mano” la realtà, senza essere preparato alla relazione con me stesso e con l’altro. La violenza diviene quindi, a volte, l’altra faccia di una ricerca di affetto, che non abbiamo gli strumenti per cercare in modo sano.
M.G.: Parlando di questo tema mi viene in mente una parola: rinuncia. Come hai detto i social annichiliscono il pensiero, soprattutto nell’adolescente che inizia a vivere in modo sempre più passivo, motivo per cui rifugge nella violenza. A tal proposito, all’inizio del tuo saggio analizzi il meccanismo della delega. Si può sostenere che, adottando questi meccanismi difensivi, come nel caso estremo della violenza, si rinuncia a scoprire se stessi?
G.L.: Un giovane immerso nel contesto attuale, così problematico dal punto di vista sociale, spesso mette in moto il meccanismo della rinuncia. La delega è la sua conseguenza e consiste nel lasciare che qualcun altro decida al posto nostro. Un esempio emblematico lo porta un amico, che al compimento dei diciotto anni, dopo aver ricevuto la tessera elettorale, come gesto di protesta l’ha stracciata in mille pezzi.
Questo è un esempio compiuto di rinuncia all’esercizio delle nostre facoltà decisionali. È una protesta, sì, ma una protesta che non ha alcun valore costruttivo, solo distruttivo.
E poi c’è il tema del “non voler sapere”: nel momento in cui capisco che non posso avere un’informazione onesta e ancor più mi rendo conto e inizio a credere di non poter avere un impatto sulla realtà, mi domando: che senso ha informarmi? Che senso ha partecipare?
In un certo senso questo approccio può essere quasi migliore di quello di coloro che credono di partecipare a proposte di cambiamento che in realtà sono quasi sempre ingannevoli, illusorie e fittizie.
Ad esempio, per quanto riguarda la tematica ambientale, molto spesso si porta avanti questa battaglia in modo estremamente ingenuo: mi faccio attrarre da una giusta causa che viene però pilotata, senza che me ne renda conto, verso una direzione più che altro funzionale a degli interessi economici più o meno occulti.
Piuttosto, quindi, alle volte può essere utile un passo indietro: la rinuncia all’attivismo impulsivo può sì declinarsi in un momento di depressione, ma questa, se vissuta e affrontata, può portare ad una conoscenza di sé e ad una trasformazione verso un attivismo consapevole, che nasca da dentro e non da fuori.
Potremmo intendere allora la rinuncia, se affrontata in un certo modo, può portare ad un cambiamento. Viceversa se rimango continuamente attaccato a delle narrazioni preconfezionate, senza affrontare me stesso, rischio di essere sempre manipolato da altri. Purtroppo, spesso la rinuncia non porta a un percorso interiore, in quanto richiede l’aiuto di guide che oggi sono perlopiù assenti o poco visibili.
M.G.: Vorrei chiederti un chiarimento sulla questione, che a noi sta molto a cuore, dell’identità di genere, che tu invece citi con qualche riserva. È un tema abbastanza nuovo ed importante di cui si parla sempre di più. A tal proposito, tu sostieni che, in alcuni casi, la ricerca dell’identità delle persone, che si concretizza nella sperimentazione fluida delle nostre preferenze, non abbia davvero a che fare con la ricerca della propria identità di genere. Ritieni che esista un problema di eccessiva etichettatura proveniente dall’esterno?
G.L.: Il mio pensiero su questo argomento si collega in realtà fortemente anche ad altri aspetti trattati. Il rischio è che, in alcuni casi, questo tipo di scelta sia più un movimento di fuga che di ricerca di sé. Nel momento in cui io ho un disagio [ndr. un disagio che nasce dall’idea di non essere come la società mi vuole] cerco di dargli un nome. Secondo me il tema della promozione della fluidità nasce da una giusta causa, che è quella di combattere le discriminazioni e di aiutare le persone ad accettare ciò che è diverso.
Il problema sorge quando la diversità, da specchio di unicità dell’individuo, diventa un valore da avere tutti i costi, un elemento distintivo che ci permette di identificarci in qualcosa.
Ma penso che raramente chi parte da un reale processo di ascolto di sé, senta il bisogno di esasperare o ostentare questa scelta.
Il rischio della fluidità, prendendo in considerazione il significato termine, è quello di essere tutto e non essere niente. Senza una forma definita scivoliamo sulle cose, il contatto diviene difficile e dunque anche un reale incontro con l’altro. Questo, ovviamente, è un mio pensiero.
[Fine prima parte]
Martino Giannone
(Intervista a Giuseppe Lorenzetti realizzata da Martino Giannone, trascrizione di Benedetta Bellucci, editing di Alice La Morella; immagine di copertina: The presidential hustle)