CulturaInterviste

“Eduard e Dio” al San Filippo Neri – Intervista a Giulio Scarpati

Giulio Scarpati in Eduard e Dio

Il 26 febbraio, Giulio Scarpati è andato in scena all’Oratorio di San Filippo Neri di Bologna con lo spettacolo “Eduard e Dio”, tratto dalla raccolta di racconti “Amori ridicoli” di Milan Kundera (Adelphi, 1988). Per l’occasione, Benedetta Del Re ha avuto modo di rivolgergli alcune domande.


Benedetta Del Re: Dove e quando è nata l’idea di mettere in scena “Eduard e Dio”? 

Giulio Scarpati: È un ‘pallino’ che avevo da tanto tempo e che ho già fatto in altro modo; questa volta ho deciso di aggiungere anche le musiche tra un capitolo e l’altro per restituire più fedelmente l’atmosfera di Kundera.

Mi sono appassionato molto ai racconti all’interno di Amori ridicoli. Quello che mi è piaciuto di più è proprio Eduard e Dio, ambientato nella Cecoslovacchia comunista dei primi anni Sessanta.

Il protagonista è Eduard, un giovane alla ricerca di un impiego; suo fratello gli consiglia di chiedere una raccomandazione a un’anziana direttrice comunista che ha un debole per gli uomini molto giovani. Nel frattempo, Eduard si innamora di una ragazza che lavora in una scuola; è molto bella ma anche molto religiosa.

Non c’è quindi nessuna possibilità erotica con lei, che ha stabilito dei confini fisici invalicabili – “la terra dei sacri divieti”, la chiama Kundera.

copertina di Amori ridicoli
Copertina di Amori ridicoli (Adelphi). George Tooker, Bagnanti (1950). Collezione privata.

Eduard non sa come cercare di smuovere la situazione: per prima cosa, tenta inutilmente di convincere la ragazza dicendole che, in fin dei conti, anche Dio è amore; dopodiché, per dimostrarle di essere un fedele ancora più accanito di lei, inizia a compiere pubblicamente gesti iperreligiosi, come il segno della croce. 

Un giorno, la direttrice e la bidella scoprono Eduard fuori da una chiesa, e il ragazzo viene subito convocato davanti a un compagno ispettore – un’eminenza egregia – assieme alla bidella, la direttrice e un altro insegnante. Sul momento, Eduard pensa di giustificarsi dicendo che non faceva sul serio; quando però si accorge della serietà con cui gli altri stanno valutando la situazione, capisce di non avere molte vie di fuga. Decide quindi per una mezza verità – o almeno, la verità che i presenti vorrebbero sentire. Comincia a dire che crede in Dio, ma anche nel comunismo.

Mentre la bidella e l’insegnante si arrabbiano, la direttrice e il compagno ispettore apprezzano la sua confessione. In particolare, quest’ultimo scorge nella vicenda il riflesso non solo di un conflitto tra classi, ma anche di una lotta interiore agli stessi individui, e decide che Eduard debba essere rieducato. La direttrice, che è attratta dal giovane, assicura che se ne occuperà lei stessa.

Nel frattempo, agli occhi della giovane religiosa di cui si è innamorato, Eduard diventa, grazie alla sua mezza verità, una sorta di eroe, e i divieti cominciano ad essere meno rigidi.

Eduard e Dio è la storia di un conflitto che dilania il protagonista, conteso tra due fuochi, tra due amori ridicoli: quello con la direttrice e quello con la giovane ragazza. Tutto quello che avverrà dopo sarà anche frutto di un imbroglio.

Kundera racconta molto bene le dinamiche interne ai rapporti, così come descrive in maniera impeccabile i personaggi. La direttrice è una donna anziana, nubile, che non ha avuto molto dalla vita; la mancata espressione della sua grande passionalità in una relazione ha fatto sì che la sua verve politica assorbisse una vena di erotismo, tantoché si dispera tremendamente alla notizia della morte di Stalin.

È un bel racconto che cerca di liberare il lettore da un po’ di pregiudizi. Viene instaurata una similitudine tra il bigottismo della chiesa – con il suo tabù del sesso – e la morale comunista, poi non così dissimile.

Kundera ha la straordinaria capacità di raccontare personaggi e situazioni molto comiche e che ci dicono come doveva essere vivere nei Paesi dell’Est, una realtà in cui non si poteva dire nulla, ma in cui si doveva sempre capire quello che gli altri volevano sentirsi dire, sviluppando una certa capacità, del tutto teatrale, di essere pronto a cambiare copione a seconda dello scenario che si aveva di fronte. È quindi la storia di una realtà in cui si doveva fingere costantemente: ‘recitare’, in un certo senso.

Io ho aggiunto un po’ di musica, mescolando l’Internazionale e l’Adeste fideles, per far capire come le due cose possano in qualche modo intrecciarsi nella storia.

Quando scopriamo un racconto che ci piace molto, dobbiamo trovare un modo di diffonderlo. Per questo motivo essere qui a Bologna per me è una grande occasione. Mancavo in città da un po’; penso di esserci venuto l’ultima volta nel 2019 con Il misantropo. Bologna è una città per me teatralmente molto importante perché qui ho presentato molti spettacoli al Duse e all’Arena. È una città viva e teatralmente molto reattiva: confido molto in questo.


B.D.R: Prima parlavi delle musiche che fanno da intervallo tra una scena e l’altra. Perché hai deciso di introdurle?

Giulio Scarpati: Le ho scelte perché riflettevano il clima di quegli anni. Ovviamente ho apportato alcuni cambiamenti, nel senso che si alternano sia musiche strumentali che non.

Ad esempio, visto che nel racconto di Kundera la direttrice balla con Eduard, ho inserito un brano che potesse adattarsi a fare da sfondo a quella scena: la musica, insomma, descrive anche l’atmosfera.

foto di Milan Kundera
Milan Kundera, foto di Blog Sicilia.

Nella scena in cui Eduard cerca di persuadere la giovane religiosa a trascorrere un weekend nella casetta del fratello, in mezzo a una valle boscosa, ho inserito la Pastorale di Beethoven. Chiaramente la ragazza non è sprovveduta, e la prima volta rifiuta.

Quando però Eduard diventa un fervente difensore di Gesù, la ragazza si fa più arrendevole e il ragazzo può quindi insistere: in questo momento parte di nuovo la musica, mentre sulla scena la giovane accetta l’invito in lacrime. In una scena un po’ più erotica tra Eduard e la direttrice, ho deciso di inserire quel brano famoso, l’Ouverture del Guglielmo Tell di Rossini che è presente anche in Arancia Meccanica.

Mi sono divertito inoltre a scegliere delle musiche che divertissero anche me. Quando la ragazza si ostina a non voler cedere alle avances di Eduard ho inserito, per giocare, lo strumentale iniziale di chitarra di Non ho l’età: in fin dei conti anche questo è un brano degli anni ’60, no? Oltretutto, spesso e volentieri i Paesi dell’Est conoscevano molto bene l’Italia.

Sono stato tante volte in Cecoslovacchia, anche durante il periodo comunista, e mi ricordo che nelle birrerie i ragazzi discutevano molto di come fosse il mondo, sebbene sapessero già tantissime cose. A volte, quindi, decidevi di lasciar loro un giornale che portavi dall’Italia per assecondare la loro sete di conoscenza. Del resto, la Cecoslovacchia ha conosciuto la Primavera di Praga, un movimento molto forte.

Le musiche che ho scelto sono quindi selezionate sulla base del mio gusto personale: molti, ovviamente, sono i brani di Chačaturjan, come omaggio all’Est Europa e alla sua tradizione musicale.


B.D.R: Com’è nato il tuo amore per il teatro?

Giulio Scarpati: Ho iniziato perché una vicina di casa, che era un’esule argentina, chiese a mia mamma se potessi prendere parte a uno spettacolo. Avevo dodici anni e frequentavo ancora le medie. Mia madre acconsentì: facendo le prove la sera, la mattina svegliarsi presto per andare a scuola era un po’ più faticoso, senza contare che all’epoca alle medie si studiava già il latino.

Mi affascinava il mondo teatrale e il fatto che gli attori che dovevano recitare una battuta ci passassero su ore e ore; io pensavo: “ma, dilla e basta, che ci vuole?” e poi mi sono ritrovato da attore adulto a dover fare gli stessi discorsi – “ma quell’intenzione, ma quella…” – no?

I bambini vedono la recitazione come un fatto quasi naturale, che non ha bisogno di niente.

Giulio Scarpari durante Eduard e Dio
Foto di Giulio Scarpati durante la rappresentazione di “Eduard e Dio” all’Oratorio di San Filippo Neri il 26 febbraio

A partire dai sedici anni ho frequentato una scuola di recitazione, e in questo periodo ho preso parte a uno spettacolo – una Laude Umbra del Duecento. Dopo due anni, trasformammo questa rappresentazione teatrale in un film, assieme a Elsa De Giorgi, una vecchia attrice dei telefoni bianchi: un’intellettuale, potremmo dire.

A diciotto anni sono entrato in una cooperativa teatrale di giovani, dove facevamo tutto noi, dai costumi, che cucivamo, al montaggio e lo smontaggio della scena: tutti impieghi abbastanza impegnativi. Alla fine, la recitazione era quasi la parte più facile e piacevole del lavoro. Ho accumulato tante esperienze e visitato tanti contesti: ospedali psichiatrici, carceri, luoghi periferici delle città, dove il teatro non era mai arrivato.

Posso raccontare tanti aneddoti divertenti: se vai in una piazza, in un paesino e sul palcoscenico, hai un oggetto di scena determinante per il racconto, una scarpa, e un ragazzino la sottrae proprio durante la rappresentazione – questo è successo su un Goldoni, Le Smanie per la Villeggiatura – è chiaro che tu scendi dal palco, riprendi la scarpa, la riporti su, e mentre fai questo continui le battute con l’altro attore che è rimasto sopra, no?

Tutto ciò abitua molto all’elasticità, perché capita spesso di dover far fronte a reazioni inaspettate; è sicuramente stata una buona palestra, utile a sostenere situazioni di emergenza.

Successivamente, ho iniziato a studiare Giurisprudenza, perché mio padre era avvocato. Alla fine, però, ho mollato e ho cambiato facoltà, iscrivendomi a Lettere. Purtroppo, pur avendo finito tutti gli esami – anche quelli di storia del teatro e storia della musica – non sono riuscito a scrivere la tesi. L’impegno teatrale stava andando avanti, lavoravo tanto e ogni volta che, dopo tanto tempo, ritornavo su una tesi che avevo iniziato mi scordavo per quale motivo avessi scritto certe cose, per cui ho dovuto rinunciare.

Sono comunque molto contento di aver approfondito, seppur solo teoricamente, certi temi. Nel teatro, l’insegnamento più grande lo ricevi generalmente da coloro con cui hai lavorato.

Mi è capitato di collaborare con Lucilla Morlacchi e Sergio Fantoni, quelli che più mi hanno insegnato il mestiere dell’attore ma anche come ci si comporta in una compagnia teatrale. Per esempio, quando per la prima volta nella mia storia professionale mi trovai a interpretare un ragazzo disturbato in un testo americano molto ‘forte’ – altrimenti i miei personaggi erano sempre giovani innamorati, ruoli tipici per un attore giovane – Sergio Fantoni mi ha insegnato molte cose, per esempio il rispetto per il lavoro degli altri.

Chiamava i tecnici tutti per nome, e spesso offriva la cena a me e a Ennio Fantastichini, visto che non avevamo una paga eccezionale. Insomma, era una persona molto premurosa verso gli altri, qualità importante per chi lavora nella piccola comunità del teatro. Luogo dove non solo c’è rispetto reciproco e tutti si chiamano per nome, ma dove uno spettacolo è un prodotto raddoppiato di tante individualità e tanti mestieri, dove ciascuno porta ciò che serve.

Lucilla Morlacchi mi raccontava delle storie di quando girava il Gattopardo. In quel caso, il teatro o il cinema, che in quegli anni stavano vivendo il loro massimo splendore, diventano racconti un po’ meravigliosi. Il problema è cercare di trovare sempre nuove motivazioni; non c’è mai un’età dell’oro: questa dovrebbe essere sempre quella del futuro e mai quella del passato.


Intervista a cura di Benedetta Del Re, con la collaborazione di Lorenzo Bezzi.

(In copertina Giulio Scarpati)


L’intervista a Giulio Scarpati è stata realizzata in collaborazione con l’Oratorio di San Filippo Neri e Mismaonda.

San-Filippo-Neri-logo
Ti potrebbero interessare
IntervistePolitica

Un mondo più a destra – Intervista a Piero Ignazi

CulturaInterviste

Shakespeare, e noi – Intervista ad Andrea Pennacchi

Cultura

Il nichilismo nei giovani: cos’è? come sconfiggerlo?

CulturaSport

Calcio e omosessualità (e non solo): fare coming out è ancora un tabù