Marzia Sabella, magistrata e procuratrice aggiunta presso il tribunale di Palermo, ha presentato “Lo sputo” (Sellerio, 2022) alla diciottesima edizione di Politicamente Scorretto. Con una prosa schietta e viscerale, il romanzo ripercorre la storia di Serafina Battaglia, la prima controversa testimone di giustizia italiana.
Nella sua ultima opera, intitolata Lo sputo, Marzia Sabella non usa paroloni altisonanti. Preferisce i sicilianismi, perché, in fin dei conti, che senso avrebbe parlare o scrivere in altro modo? “Noi siamo di qua, mio giudice caro […], è un affare di vene”, risponde al magistrato Terranova Serafina Battaglia, detta Fina, protagonista del romanzo firmato dalla magistrata siciliana dopo il successo di Nostro Onore (Einaudi, 2014).
Dalla Sicilia Serafina è uscita solamente dopo i quarant’anni, dopo che nel 1962 la sua vita cambiò per sempre. Sfidando l’interdizione implicita di agire e di parlare, Fina sovvertì le normali aspettative che la mafia (e i suoi omertosi complici) avevano su tutte le donne come lei. La voce di donna, nella Sicilia degli anni Sessanta, è infatti inconsistente, flebile, mendace.
“Femmine sono e le loro chiacchiere […] hanno a che fare con il sangue che ogni mese lorda le mutande […]. Femmine sono e ce la possono cacare” (p. 32). Le donne come lei vivono nell’esclusivo e ristretto perimetro dei fatti biografici, quotidiani, casalinghi. Eppure della mafia “tutte sanno, anche se tacciono e sopportano” (p. 37). E Serafina Battaglia, del pensiero mafioso, è stata a lungo una custode, persino una stratega.
Chi è Serafina, la protagonista de Lo sputo di Marzia Sabella
Serafina Battaglia, nota al pubblico anche come “la vedova della lupara”, è ricordata per essere stata la prima testimone di giustizia a sporgere denuncia contro lo stesso sistema criminale e sanguinario ai cui valori era stata educata sin dalla tenera infanzia: quello della mafia.
Nata nel 1919 in una famiglia mafiosa di Godrano, piccolo paese in provincia di Palermo, fu vincolata dal padre in un matrimonio combinato, che tuttavia fallì quando Serafina si innamorò di Stefano Leale, piccolo commerciante mafioso di Cosa Nostra. Nonostante lo scandalo dell’adulterio, Leale scelse di adottare Salvatore (Totuccio), il figlio di Serafina, e di assegnargli il proprio cognome.
Dopo l’uccisione di Stefano per mano mafiosa, il 9 aprile 1960, Serafina istigò ripetutamente il figlio, poco più che adolescente, alla vendetta e alla ritorsione. “Alzati che hanno ammazzato a tuo padre!” ripeteva Serafina al figlio tutte le mattine.
Salvatore tentò senza successo di uccidere i due boss di Alcamo, Filippo e Vincenzo Rimi, responsabili della morte del patrigno, ma fu ucciso a sua volta il 30 gennaio 1962.
Fu la morte del figlio che spinse Serafina a parlare e a collaborare con la giustizia: davanti alle aule del tribunale, fece otto nomi di uomini di mafia coinvolti nell’omicidio del marito Stefano e del figlio Salvatore, successivamente tutti assolti per insufficienza di prove dalla Corte di cassazione.
Perché denunciare?
Quando nel 1967 un giornalista di TV Sette chiese a Serafina perché non si fosse rivolta alla giustizia già dalla morte del compagno, lei rispose che era naturale fosse così.
“Perché fino a che mi avevano tolto mio marito io non avevo detto niente. Eh naturalmente! Ma ‘na vota ca mi tuccaru a mè figghiu, chiddu sangu di vini è, e io debbo reagire…”.
Serafina Battaglia
La sua denuncia ha un’origo che non si spiega: Serafina non ha studiato, non ha manifestato, non ha sventolato bandiere partitiche per le strade sotto le quali condensare ansiti giovanili di liberazione e di contestazione. È semplicemente una donna cui sono stati ammazzati il marito e l’unico figlio, di “ventun anni, cinque mesi meno tre giorni”, per l’esattezza.
Quando è anziana, la vediamo disillusa e insofferente per le belle parole piene di vuota retorica delle trasmissioni televisive. Non crede che tutto quel parlare di mafia e di testimoni di giustizia alla TV possa indurre nei telespettatori una qualche forma di empatia, comprensione, o la formulazione di un giudizio. Che ne possono sapere di mafia queste “femmine di oggi” senza “dignità” (p. 17)?
Lei invece ne sa, perché in quel mondo fatto di orgoglio, codici d’onore e ritorsioni c’è nata, e non lo ha mai rinnegato fino in fondo. Sa che il mondo della mafia può essere attraversato da crepe sottili, e che tra le fessure si comprano i segreti e si scompaginano vecchie alleanze per un po’ di denaro.
La Sicilia di Serafina (anni Sessanta)
Nella Sicilia di Serafina, il privato viene spesso traslato sulla scala di processi diffusi; persino l’elaborazione del lutto di venta un’esperienza che deve necessariamente essere convalidata dal riconoscimento sociale.
Quando i morti insanguinano le strade si piange ad alta voce, e le fasi tra la vita e la morte sono annunciate e scandite da grida e stornelli popolari come accadrebbe in una performance teatrale: “murìo, murìo”, “picciotto d’oro che era”, “finìu di soffrire su questa terra disgraziata” (pp. 107-108).
Oggi siamo meno abituati alla morte. Ma le donne sicule degli anni Sessanta accolgono l’“oscura fatalità”, provocata dal caso sinistro e avverso, con dignitoso decoro.
Alle consuetudini del paese – messe, processioni, funerali, elemosine – partecipano, come dei subdoli mutaforma, anche i mafiosi: “è una questione di integrazione sociale: la mafia non esisterebbe senza queste relazioni” (p. 77).
La donna che va in giro con una pistola in borsa
Fina è una “donna in nero” (p. 17), un corpo massiccio tutto d’un pezzo, una personalità decisa e granitica. Per essere cresciuta tra carmelitane e monache, ha un temperamento troppo irascibile, una foga inarrestabile.
Da donna “senza governo” qual è (p. 48), è normale che diventi un’adultera “buttana” (p. 50) che copre di scandalo la famiglia del suo primo marito, la propria e quella di don Stefano, il mafioso di basso profilo con cui ha scelto di rifarsi una vita.
Stefanuzzu è un uomo dimesso, incerto, che copre gli “amici di Alcamo” (p. 65) e i mammasantissima di Palermo di omaggi e riverenze. Ma l’arrivo di Fina nella sua vita pone un freno a quel tripudio di remissività e sottomissione, e Stefano diventa improvvisamente un uomo impavido, ammanierato, che va in giro con una massiccia catena d’oro a rimbalzargli sul petto.
Come tutte le altre donne sicule, Fina ha subìto varie forme di dominazione tipiche di un sistema patriarcale che permea tutti gli aspetti della vita sociale, ma lei, donna – di quelle che sono solo madri, sorelle, figlie, mogli, cuoche – non ci si è mai sentita davvero.
Fina è una femmina non convenzionale, addestrata sin dalla gioventù alla violenza, al sangue, alla difesa: sa come si utilizza una pistola perché il suo primo marito glielo ha insegnato, e ora è conosciuta come la “vedova con la P38” che nella sua borsa trova sempre posto accanto al rosario (p. 33).
Serafina mischia il sacro e il profano. Lancia maledizioni e sputa bestemmie contro tutti i santi del creato; poi seguono suppliche, preghiere, genuflessioni davanti all’altarino di casa imbastito di immagini sante, ma mai pentimento o rammarico.
È una donna dalla lingua azzardata, che lancia verdetti taglienti, che sfida sprezzante l’onorabilità dei mafiosi riuniti nel retrobottega della torrefazione di Stefanuzzu. Il suo linguaggio è pieno di volgarismi e di locuzioni gergali.
In Sicilia, i mafiosi e quelli del loro giro “crepano” perché è nell’ordine naturale delle cose crepare così, se sei un figlio di “santi assassini” (p. 156). E “cornuto” è chi si appella a una chimerica fame di giustizia che vada a lenire le ferite di tutti coloro che piangono i morti per mafia: l’assassinio dei propri figli fa svanire l’appetito, e “dei figli degli altri non ce ne importa niente” (p. 24).
Il codice d’onore mafioso, i rigidi cerimoniali sociali e le prescrizioni dirette alle donne passano in subordine davanti al dolore di una madre, che ha, seppure “relativamente”, fame di giustizia. Fina si è rivolta alla legge perché “la sua pistola non poteva bastare” (p. 35), ma il suo senso di giustizia è avulso dal nostro comune sentire: l’ultima sentenza spetta sempre al divino, che non ha bisogno di prove, fotografie, “racconti” e “riscontri” per vergare il castigo definitivo.
Dalla mafia alla giustizia
Serafina Battaglia è una donna che riesce forzatamente a far convivere due mondi agli antipodi: prima che la sua rabbia sia fruttifera per la macchina della giustizia, Serafina è stata una donna di mafia che ha cresciuto il figlio tra i canti mafiosi intonati come un credo.
Donna di mafia continua ad essere anche in vecchiaia, quando non rescinde la fedeltà dai principi di quel mondo: dignità, onore, dovere. Serafina ha parlato perché era “ciò che doveva fare, nel nome del padre e del figlio ammazzati senza lo spirito santo” (p. 20). Una madre straziata dal dolore è un “torrente che non conosce una sola verità” (p. 23): quando una delle due non funziona più, quella della mafia, si rivolge all’altra, quella della giustizia.
Ed è proprio la decisione di percorrere la strada della legge a isolare Fina dagli affetti della sua famiglia che non riesce ad accettare (né tantomeno a comprendere) la scelta di tradire il mondo mafioso. Serafina resta sola. La vita di stenti che conduce nel suo stanzino, pieno di lumini e quadretti della Madonna, non le offre alcuna consolazione.
Abbandonata, resta sola anche quando tutte le persone più care attorno a lei vengono uccise o si spengono, come Mario Francese, giornalista che aveva aiutato Serafina a trovare un rappresentante legale, il magistrato Cesare Terranova, l’unico disposto a lavorare sul suo caso, e padre Mariano, confidente spirituale.
Serafina Battaglia si spegne il 10 settembre 2004, nella sua casa di Godrano, sola anche negli ultimi istanti della sua vita, mentre i suoi morti non sono morti davvero.
Alexandra Bastari
(In copertina, Carlo Lucarelli, curatore di Politicamente Scorretto, e Marzia Sabella. Immagine tratta dalla pagina Facebook della rassegna)
“Lo sputo” di Marzia Sabella – Serafina Battaglia prima testimone di giustizia contro la mafia è un articolo di Alexandra Bastari. Leggi qui altri articoli a tema mafia.