Candidato a ben cinque premi Oscar, tra cui Miglior Film e Miglior Regia, “Anatomia di una caduta” di Justine Triet si è rivelato un vero e proprio Oscar Surprise. Prodotto e interamente girato nella Savoia francese, sembrava trattarsi di uno di quei film che raramente vengono candidati ai premi più famosi, quelli che rappresentano pietre miliari e traguardi talvolta irraggiungibili.
Inaspettatamente, la nuova pellicola cult francese potrebbe riscuotere i medesimi successi di Parasite (2019) e The Artist (2012), diventando il terzo film non statunitense a vincere il tanto agognato premio al Miglior Film, pur essendo una produzione straniera.
Il suicidio dell’umanità sotto i riflettori
Cosa succede quando la propria persona viene completamente esposta agli sguardi attenti del pubblico? Quando non c’è più nessun modo di indorare la pillola, ricoprendo di melliflua ironia i difetti che fanno parte di noi stessi e gli sbagli che vorremmo non aver mai fatto?
Alla luce dei riflettori, ciò che ci rende persone reali, non semplici caricature, improvvisamente diventa ciò che ci rende mostruosi, privandoci della nostra umanità. È la maledizione della tridimensionalità.
Justine Triet dipinge questa de umanizzazione con il più puro realismo, conducendo lo spettatore nel tribunale in cui la protagonista è sotto processo. Sandra è accusata di aver ucciso il marito Samuel, trovato morto da loro figlio a seguito di una caduta. È scivolato? Si è suicidato? O l’ha spinto proprio la moglie?
Mentre il giudice cerca di stabilire una giusta sentenza, Sandra viene messa a nudo: nessuna maschera, nessuna bugia, nessuna minimizzazione è più permessa.
La sua integrità viene sottoposta a dura prova da uno dei migliori avvocati della regione, che analizza ogni passo che Sandra abbia mai mosso nel corso della relazione con Samuel. Ogni diverbio diventa ora un potenziale movente, ogni reazione una prova di colpevolezza.
La ricerca della verità permea ogni angolo della vita della protagonista, esattamente come aveva fatto il suo complicato rapporto con il marito prima che lui morisse. Lo spettatore, nel mentre, rimane completamente inconsapevole, libero di formarsi delle opinioni in corso d’opera come se fosse parte della giuria.
Anatomia di una caduta è più di un semplice giallo, mirato a tenere chiunque lo guardi col fiato sospeso, pronto a una rivelazione shock o a confermare le proprie teorie. Al contrario, è un’attenta analisi di un matrimonio sull’orlo del baratro, ora di dominio pubblico.
È la realizzazione della sconfortante idea che, nonostante le esperienze e gli anni trascorsi insieme, non è mai possibile conoscere appieno l’altro – almeno, non quanto si conosce sé stessi.
Così, nemmeno lo spettatore conoscerà mai la verità: cambiando abilmente punti di vista nel corso della pellicola, da Sandra al figlio Daniel, fino agli avvocati dell’accusa. Justine Triet immerge Anatomia di una caduta in un’atmosfera tesa e annebbiata, che offusca la realtà dei fatti e ci porta a dubitare anche dell’ovvio.
E nel mezzo di tutta questa ambiguità, è come se l’umanità della protagonista si suicidasse, gettandosi dallo stesso punto da cui forse ha spinto Samuel.
La gravità di una lingua diversa
Con un copione composto in maggioranza da battute in inglese, è curioso notare come il cast principale sia tutt’altro che madrelingua – la maggior parte degli attori è infatti francese, con l’unica eccezione di Sandra Hüller, protagonista e candidata al premio come Miglior Attrice dell’anno, dalle origini tedesche ma con un ottimo livello di francese.
Ci si chiede allora: perché una produzione francese, scritta e diretta da una regista francese e con un cast prettamente francofono, presenta così tanti dialoghi in inglese?
Spesso i film hanno protagonisti impliciti, luoghi e temi che, invece di essere un mero sfondo della narrazione, diventano parte integrante del racconto, pur non essendo personaggi veri e propri. In questo caso, la protagonista di Anatomia di una caduta non è solo Sandra, ma anche la comunicazione – o meglio, la mancanza di comunicazione.
Justine Triet sfida i limiti delle percezioni fisiche a cui noi esseri umani ci affidiamo ogni giorno, a partire da un elemento fondamentale: la parola. Sandra e Samuel sono una coppia apparentemente normale, la quale però affronta ostacoli differenti rispetto alle altre coppie sposate, primo fra tutti una barriera linguistica che appare quasi insormontabile.
Sandra è tedesca, Samuel è francese: nessuno dei due parla propriamente la lingua madre dell’altro, quindi trovano nell’inglese un compromesso, una specie di territorio neutrale dove venirsi incontro.
Per questo, nonostante Sandra Hüller parli francese, la regista ha insistito affinché vestisse i panni di una donna che non riesce a rendere proprie le espressioni e i modi di dire di una terra che non le appartiene, nonostante abbia lasciato il proprio Paese ormai da anni per vivere nei luoghi cari al marito.
Nel corso della pellicola vediamo spesso Sandra e Samuel rinfacciarsi i sacrifici che fanno per il bene dell’altro, sacrifici che, con il tempo, entrambi pensano abbiano portato a un vero e proprio annullamento di sé stessi.
Lei lo incolpa di averla condotta a vivere in Francia, luogo dove non avrebbe mai scelto di vivere e dove non si sente interamente felice; lui le rimprovera di averlo privato di ogni rimasuglio di sé, a partire dalle idee per i loro libri, fino ad arrivare alla propria lingua madre, visto che a casa comunicano solo in inglese.
Il loro matrimonio presenta quindi una falla imprescindibile: l’impossibilità di comprendersi appieno.
È peculiare notare anche come Daniel, figlio della coppia, sia cieco: Justine Triet ci tiene ad evidenziare il completo fallimento dei cinque sensi, rendendo un bambino privato della vista in un tragico incidente l’unico testimone della morte del padre.
Perché non solo Sandra e Samuel non si capiscono, parlando lingue diverse e inconciliabili, ma non si vedono nemmeno. Quelli che per uno sono bisogni, per l’altro sono inutili capricci mescolati a un egoistico complesso d’inferiorità.
Inciampare sulla sottile linea tra realtà e finzione
Nonostante il film si focalizzi sul matrimonio tra Samuel e Sandra, è bene ricordare come i nostri protagonisti non siano solo sposi, ma anche scrittori. Justine Triet gioca abilmente con l’idea che l’arte non sia altro che un riflesso della realtà, e con questo presupposto i personaggi fittizi ideati dai protagonisti acquisiscono un volto, quello di sé stessi e di chi li circonda.
La professione di Sandra è palesata fin dai primi minuti, nei quali viene mostrata impegnata in un’intervista sul suo nuovo romanzo. In questa magistrale prima scena, viene rivelata anche la tendenza della nostra protagonista a trasformare eventi della sua vita in scene fittizie, compreso l’incidente che ha reso cieco il figlio.
Non è un caso che i protagonisti del film portino i nomi degli attori che li interpretano, ennesimo indizio della tendenza di Justine Triet a offuscare i limiti tra realtà e fantasia.
Ma quella che inizialmente sembra un’ammissione tutt’al più banale – perché, insomma, quale artista non si ispira alla propria vita? – diventa fondamentale nel momento in cui l’avvocato dell’accusa legge un passo tratto proprio da un romanzo di Sandra nel mezzo del processo.
Scritto pochi anni addietro, il capitolo riporta un ironico, apparente rimando con il presente: la morte di un marito per mano di sua moglie. Per l’accusa, queste poche frasi sono praticamente un’ammissione di colpevolezza, o quantomeno il sintomo di un desiderio represso di riprendere la propria vita in mano privando Samuel della sua.
Perché se c’è qualcosa di certo in Anatomia di una caduta, film che celebra l’ambiguità e il fallimento delle percezioni umane, è proprio il risentimento che Sandra cova nei confronti del defunto marito. E che cosa succede quando scrivere non è più sufficiente per sfogare un rancore così profondo e duraturo?
Lo spettatore non lo saprà mai per certo, bloccato anch’esso al confine tra i fatti e la speculazione.
Anatomia di una caduta e Triet agli Oscar 2024
È significativo notare come Justine Triet abbia confessato di aver tratto ispirazione dal pluripremiato Marriage Story (2019), scritto e diretto da Noah Baumbach, film che tratta allo stesso modo di un matrimonio fallimentare tra due persone che, nonostante l’amore che le lega, riescono soltanto a rendersi inesorabilmente infelici.
Sarebbe stato interessante vedere Triet e Baumbach scontrarsi per un premio Oscar, visto che quest’ultimo è uno degli sceneggiatori del celeberrimo Barbie (2023).
Tuttavia, l’unica nomination in comune è quella a Miglior Film, considerate la mancata candidatura a Greta Gerwig per la Miglior Regia e il fatto che, mentre Barbie è candidato a Miglior Sceneggiatura Non Originale, Anatomia di una caduta gareggia per la Miglior Sceneggiatura Originale.
Comunque, nonostante la giusta indignazione creata dagli Oscar Snub del 2024 – ossia dalle mancate candidature a film, registi e attori ritenuti invece meritevoli dal pubblico –, le scelte dell’Academy hanno costituito in realtà un anno da record.
Quest’anno sono addirittura tre i film non interamente in lingua inglese candidati alla prestigiosa categoria di Miglior Film: Anatomia di una caduta, Past Lives e La zona d’interesse. Certo, Past Lives è una produzione americana e Anatomia di una caduta è in gran parte recitato in lingua inglese, ma i premi Oscar del 2024 si prospettano comunque interessanti e, stranamente, un po’ meno americani del solito.
Inoltre, sono tre anche i film diretti da registe donne a battersi per la statuetta d’oro per Miglior Film: Anatomia di una caduta di Justine Triet, Past Lives di Celine Song e Barbie di Greta Gerwig.
L’inevitabile caduta delle donne
Nonostante i piacevoli Oscar-shock – anche se sarebbe stata più scioccante l’assenza di candidature per Anatomia di una caduta, considerando che ha persino vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes –, è comunque amareggiante notare come Justine Triet sia l’unica regista donna candidata alla Miglior Regia, che anche quest’anno risulta essere una categoria principalmente al maschile.
In realtà, soltanto otto donne nel corso dell’intera storia degli Oscar sono state candidate a questo prestigioso riconoscimento, e solo tre ne sono risultate vincitrici. La prima donna in assoluto a vincere il premio alla Miglior Regia è stata Kathryn Bigelow, regista di The Hurt Locker (2008), e nonostante gli Oscar abbiano avuto luogo ogni anno a partire dal 1929, ciò è avvenuto appena quindici anni fa, nel 2009.
Certo, le registe donne sono una vera e propria minoranza rispetto ai registi uomini – secondo una ricerca condotta dall’Università di San Diego, solo il 16% dei registi è donna. Ma questo non significa che gli Oscar non tendano a premiare solo i registi uomini più famosi a discapito dei talenti femminili.
L’esempio più recente è la mancata nomination a Greta Gerwig per la Miglior Regia agli Oscar 2024. E sebbene l’Academy abbia nominato Justine Triet, una donna, al medesimo premio, grazie ad Anatomia di una caduta, la carenza di candidature al femminile rimane lampante: di otto registe candidate, soltanto due lo sono state lo stesso anno – Emerald Fennell con Promising Young Woman (2020) e Chloé Zhao con Nomadland (2020), seconda donna nella storia a vincere un Oscar alla Miglior Regia e prima donna non bianca in assoluto, soltanto tre anni fa, nel 2021.
Per fortuna, la categoria di Miglior Film, probabilmente la più famosa e attesa tra i premi assegnati dall’Academy, è anche quella dove le donne sembrano riscuotere maggior successo.
Infatti, nella storia degli Oscar, sono ventidue i film diretti da donne candidati a Miglior Film. Tuttavia, solo tre sono riusciti ad accaparrarsi la statuetta d’oro: si tratta di The Hurt Locker (2009), Nomadland (2020) e CODA – I segni del cuore (2021).
Purtroppo, nonostante i progressi degli ultimi anni, sembra che agli occhi dell’Academy il genio femminile sia inevitabilmente destinato a cadere anche al cospetto del più banale prodotto maschile.
Krystal Anne Estrella
(In copertina e nell’articolo, foto tratte da Anatomia di una caduta di Justine Triet)