
Martedì 20 febbraio, presso l’Oratorio di San Filippo Neri (Bologna) si è tenuto il primo appuntamento della nuova rassegna “La parola alle donne”. Ospite della serata la giornalista Francesca Fialdini, che, assieme ad Andrea Casadio, ha presentato il suo ultimo libro, “Nella tana del coniglio. Quando la lotta con il cibo diventa un’ossessione” (Rai Libri, 2023). A margine, Alexandra Bastari ha avuto occasione di intervistarla.
Nella tana del coniglio di Francesca Fialdini all’Oratorio San Filippo Neri
“Di disturbi alimentari si muore”: così recitavano gli striscioni dei tanti manifestanti che lo scorso gennaio hanno invaso numerose piazze italiane per protestare contro il mancato rinnovo del Fondo per il contrasto dei disturbi alimentari, prima del successivo dietrofront del governo. Di anoressia, bulimia e binge-eating si continua a morire a ritmi sempre più vertiginosi, perché “in una società individualista e performante siamo diventati degli esseri dipendenti dallo sguardo dell’altro”.
Queste le parole di Francesca Fialdini, ospite del LabOratorio San Filippo Neri di Bologna per il primo appuntamento della nuova rassegna “La parola alle donne”. Nella serata del 20 febbraio, la nota giornalista e conduttrice televisiva è salita sul palco dell’Oratorio per presentare la sua ultima fatica editoriale, Nella tana del coniglio. Quando la lotta con il cibo diventa un’ossessione, edita nel 2023 per Rai Libri.
Il libro nasce dall’esperienza della fortunata docu-serie Fame d’amore, di cui Francesca Fialdini è conduttrice, in onda da ormai cinque stagioni su Rai3.
Sul palco assieme a Fialdini, anche Andrea Casadio, medico, giornalista e autore tv. L’incontro, curato da Mismaonda con la Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, è stato moderato da Marco Miana.

Le relazioni all’origine dei disturbi alimentari
Nella tana del coniglio inizia con una parola: tradimento. Perché è proprio nelle ferite emotive inferte dalle principali figure di riferimento – quali i genitori – che può annidarsi la genesi di un disturbo alimentare. Questa consapevolezza, che accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina, rimarca il ruolo che le relazioni disfunzionali e le aspettative affettive svolgono nell’insorgenza e nella cura di patologie come anoressia, bulimia, binge-eating e ortoressia.
Il danno subìto viene percepito con tanto dolore che non solo non può passare inosservato, ma ha bisogno di manifestarsi ed esplicitarsi in maniera plateale […]. In questo caso, il tribunale cui viene chiesta giustizia non è un’aula giudiziaria ma il proprio corpo […].
Francesca Fialdini, Nella tana del coniglio. Quando la lotta con il cibo diventa un’ossessione (pag. 10).
Sei interviste, sei storie diverse, accomunate tutte da un profondo disagio nei confronti della vita e da un malessere che si esprime attraverso la lotta con il cibo: Martha, Benedetta, Giulia, Valentina, Anna, Marco. I ragazzi che Francesca Fialdini ha scelto di intervistare sono tutti ricoverati presso un centro specializzato della rete Food for mind, hub multidisciplinare per la cura dei disturbi alimentari.
Attraverso le loro storie e le loro dichiarazioni, Fialdini – grazie anche alla consulenza clinica di Leonardo Mendolicchio, medico psichiatra – getta lo sguardo sulle gravi problematiche legate a questi comportamenti patologici, che in Italia continuano a mietere circa 4 mila vittime ogni anno.
Entrare dentro le testimonianze di chi ne soffre significa aprire una breccia profonda nella tradizionale narrazione sul tema, spostando l’attenzione dal corpo – che continua a rimanere il luogo organico e visibile in cui esprimere il proprio dolore – alla psiche, alla rabbia, ai traumi, alla paura del giudizio e del cambiamento che scaraventano ogni anno migliaia di giovani nella “tana del coniglio” dei disturbi alimentari, dentro un vortice di ansia e di ossessioni senza luce.

Abbiamo deciso di cominciare con ragazze e ragazzi che soffrivano di una qualche forma di disturbo alimentare […] perché ci sembravano quelli che meglio di altri ci permettevano di descrivere cosa accade dentro le nostre case, dentro le nostre famiglie e nella nostra società.
Francesca Fialdini, Nella tana del coniglio. Quando la lotta con il cibo diventa un’ossessione (pag. 188).
Alexandra Bastari: Tra le protagoniste del suo libro c’è Valentina: la sua storia parla di ortoressia, un termine meno plateale e meno conosciuto rispetto ad anoressia e bulimia e che si riferisce all’eccessiva attenzione alle regole alimentari e ai profili nutrizionali degli alimenti. Quanto incide il bombardamento social sulla diffusione del disturbo ortoressico?
Francesca Fialdini: Ti ricordi Zhanna Samsonova? Il suo è stato un caso mediatico piuttosto recente che ha fatto abbastanza discutere. L’anno scorso è uscita la notizia della sua morte; aveva solo 39 anni e tantissimi seguaci sul web. Mi sono indignata tantissimo perché la notizia è stata riportata in maniera non corretta, come se dire come veramente stanno le cose rispetto a questi argomenti sia ancora una cosa scomoda.
Effettivamente lo è, perché chiama in causa una serie di modalità di comunicazione e dinamiche relazionali che hanno a che fare con la nostra società consumistica e individualistica, centrata nel post-narcisismo sull’espressione esasperata del sé.
E se questo è un meccanismo che va alimentato, allora anche le notizie vanno dissimulate. Questa donna è morta per le conseguenze terrificanti di una gravissima forma di ortoressia che ha causato a un certo punto un collasso organico. Le conseguenze dell’anoressia mentale portano a questo, quando diventano letali.

La pubblicità ruota intorno a molti modelli estetici da un lato, e a diete e cosmesi dall’altro. Andare a promuovere diete che compaiono in continuazione sotto forma di pop-up sui principali social network significa fare il lavaggio del cervello a chi è costantemente esposto a questi messaggi, alimentando un senso di insicurezza sempre più profondo e che alla fine diventa quasi strutturale nella realtà cognitiva di chi si guarda allo specchio.
In un attimo ci sentiamo tutti meno belli, meno adatti, meno apprezzabili, meno giusti, meno performanti e quindi colpevoli.
La pubblicità si basa su questo, sulla vendita di un prodotto illusoriamente miracoloso, il quale deve però alimentare le nostre insicurezze, altrimenti nessuno lo comprerebbe. Anche le diete funzionano nello stesso identico modo.
Purtroppo, ci sono anche dei professionisti che, pur avendo una laurea in tasca ed esercitando una professione, a un certo punto decidono di vendere pacchetti per diventare sempre più belli e sempre più magri, come se essere magri fosse sinonimo di accettazione, di bellezza certa e di successo.
A sua volta, ciò implica che tutti coloro che non rientrano in una taglia o che non sono magri a sufficienza non sono socialmente accettati. Coloro che rivestono un ruolo professionale e si prestano a questo ‘giochino consumistico’ sono doppiamente colpevoli, perché hanno gli strumenti per comprendere le finalità di ciò che stanno facendo. I ragazzi invece no: sono scoperti e più vulnerabili.
L’età della nostra vita dove ci sentiamo più vulnerabili è l’adolescenza. Durante il Covid nessuno di noi sapeva cosa stesse accadendo, men che meno i ragazzi, che chiedevano continue risposte agli adulti, disorientati a loro volta. Ciò ha alimentato nei ragazzi un senso di promiscuità dei rapporti che ha avuto delle conseguenze devastanti.

E se i principali social network e forme di comunicazione che passano attraverso di essi alimentano un sistema relazionale fragile, la fragilità della relazione entra come strutturale anche nei giovani.
Valentina è una storia che mi ha colpito molto, perché lei sviluppa una forma di anoressia declinata nella forma ortoressica che parte da un abuso sessuale. Era già stata violentata e vessata dal carattere del padre; non si era mai sentita amata e accettata. È cresciuta con un senso di inadeguatezza profondo.
Una volta adulta, il suo corpo ha attirato le attenzioni di qualcuno che in quel momento avrebbe dovuto aiutarla; in tutta risposta, Valentina ha cominciato a dare la colpa al proprio corpo. Togliere le curve, togliere la sensualità e la femminilità espressa da un corpo giovane e fresco significava per lei punirsi, e quella colpa andava poi espiata attraverso la lotta col cibo.
La storia di Valentina è attuale e attraversa molte epoche; molto spesso, per quanto sia scomodo dirlo, l’anoressia si sviluppa a seguito di questo tipo di violenze indicibili. Se il dolore non viene verbalizzato, si colpevolizza il proprio corpo, percepito come sporco. Ecco che allora Valentina comincia a mangiare solo alimenti puri, solo cibi sani che non avrebbero iniettato la sporcizia dentro di lei.
L’atto di selezione del cibo comporta anche una selezione dei rapporti e delle emozioni, fino a che il campo si restringe sempre di più. La storia di Valentina è molto attuale anche perché per superare il disagio dell’ortoressia ha cercato approvazione nello sguardo degli altri, in maniera esasperata.
Non le bastava essere giovane e bella: aveva bisogno di conferme e le cercava in tutti gli uomini sui quali lei poteva esercitare una specie di influenza erotica. È passata dall’ortoressia alla bulimia sessuale. Questo ci dice che corpo, l’eros e thanatos, la morte vanno a braccetto.
Il rapporto che abbiamo con il cibo dice molto del rapporto che noi abbiamo con il nostro corpo; dice molto delle relazioni con le quali noi ci nutriamo, delle quali abusiamo o delle quali ci ingozziamo, pur di sentirci vivi.
A.B.: Un’altra protagonista, Benedetta, individua nel coraggio l’elemento che rettifica lo stato di immobilità e lo traduce in azione, in desiderio di iniziare un percorso di cura. Che cos’altro serve per iniziare un processo di guarigione oltre ad esso?
F.F.: Se questa domanda avesse una risposta unica e certa sarebbe la soluzione di tutti i mali; sapremo come guarire in tempi brevi da patologie che invece richiedono una lunga, lunghissima gestazione di rielaborazione della psiche. Una risposta valida per tutti non c’è, se non generica, e può essere solo tale. Si deve riaccendere il desiderio perché è esso che ci tiene in vita.
Chi sviluppa un disturbo alimentare grave finisce per non sentire più niente: non sa che cosa lo emoziona davvero, che cosa lo rende felice, qual è il suo obiettivo della vita o il proprio sogno da realizzare. Per sentirsi vivo si fa del male, si punisce. Quando Benedetta mi ha detto “io mi ingozzo e poi vomito, perché così sento qualcosa”, mi stava dicendo che altrimenti non sentiva niente.
Lì, il desiderio si è spento. Solamente riaccendendolo si può recuperare una voglia di vivere che ti tira fuori dalla tana del coniglio. C’è però bisogno di qualcun altro che ti aiuta a riconnetterti con te stesso, con te stesso in profondità.

Oltre al desiderio, per qualcuno può essere anche l’incontro con un una passione, una svolta professionale, un’occasione lavorativa; per altri invece l’incontro con qualcuno. Per esempio, una ragazza mi ha detto che, dopo aver sofferto per dieci anni prima di anoressia e poi bulimia, ha incontrato un ragazzo che le proponeva una relazione vera e l’amava davvero. Lei si è detta: “se voglio provare a scommettere anch’io su questa storia, devo guarire”.
Da allora ha cominciato a vomitare sempre meno, a mangiare con più regolarità, a ripristinare gli equilibri fisici del suo corpo che l’hanno allontanata dalla dipendenza da cibo, che diventa una vera ossessione quando si arriva a un disturbo così grave. Attraverso l’auto-educazione e l’aiuto di uno psicoterapeuta è riuscita a uscirne.
Oggi non ha più problemi con il cibo. Dall’anoressia è salva.
A.B.: Ciò che ha appena detto riflette molto bene l’equazione di cui ha parlato nella prefazione del suo libro: il disturbo alimentare non è uguale a ‘più’ o ‘meno’ cibo, ma a corpo ‘più’ psiche.
F.F.: Esatto. Ed è una formula linguistica che noi, se vogliamo essere dei professionisti seri della comunicazione, dobbiamo assumerci la responsabilità di usare.
Per tanto tempo gli istruttori del comportamento alimentare sono stati relegati solo a un settore, quello della moda e del costume. Non si è andati in profondità a indagare i sintomi della società, che parlavano di una vera patologia. Questi dovevano riguardare solo le persone direttamente interessate. Invece quei sintomi ci stavano dicendo che c’era qualcosa nei nostri rapporti e nella nostra società che non andava bene: qualcosa di profondamente sbagliato, storto, viziato. Ma lo abbiamo tenuto da parte.
È vera anche un’altra cosa: i disturbi del comportamento alimentare sono stati molto studiati all’estero, come un campo di ricerca abbastanza nuovo, e sembrano emergere in periodi particolari della storia economica dei vari Paesi.
Hilde Bruck è stata la prima grande psichiatra ad occuparsi seriamente del tema, a fare le prime associazioni e a raggiungere delle grandi intuizioni che oggi ci dicono cosa sono veramente sono i disturbi alimentari.

Oggi, secondo me, oltre all’emergenza sociale che stiamo vivendo, siamo anche sufficientemente pronti a sentirci dire verità profondamente scomode, ma siamo anche in ritardo, perché è chiaro che se le concause che fanno esplodere il disturbo del comportamento alimentare hanno a che fare con i rapporti che abbiamo costruito, con le parole che utilizziamo, con il modo di raccontare la realtà, con il modo di vivere la pubblicità, con il modo di raccontare il corpo, soprattutto quello donne, che è sempre stato oggetto di scambio mercificato; per attirare l’attenzione è importante farlo vedere nudo (oggi si usa persino per vendere un dentifricio!).
Non solo le donne: anche i ragazzi stanno vivendo, purtroppo, la stessa dinamica.
Siamo molto in ritardo per correggere il tiro. Dubito che si andrà da un’altra parte. In questo senso, ho poche speranze. Responsabilizzandoci, però, e cercando di conoscere meglio che cosa sono i disturbi alimentari possiamo intervenire prima.
A.B.: I ragazzi e le ragazze che ha intervistato riescono a fare delle lucidissime analisi rispetto alla propria condizione. È sorprendente. Immagino che sicuramente il clima di intimità che si è creato durante il colloquio abbia facilitato le loro confidenze. Ma c’è una domanda particolarmente difficile da porre?
F.F.: No, nel momento in cui loro decidono di aprirsi e di donarsi, raccontandosi in profondità, non c’è niente che non debba essere chiesto. Tutto può essere domandato. La cosa più intima che noi abbiamo, non è il sesso, ma il rapporto con noi stessi, la nostra psiche, le nostre insicurezze, paure, angosce. Le raccontiamo sempre meno perché non ci possiamo vantare della nostra fragilità, ci hanno insegnato così: se ti vanti della tua fragilità sei un perdente.
È una cosa assolutamente positiva quella che è successa quest’anno al palco dell’Ariston: molti giovani sono andati lì per parlare delle loro paure e delle loro depressioni. Non era così fino a quattro o cinque anni fa. Dovevano nascondersi tutti quanti, adulti compresi.
Influenzati da questi insegnamenti, quando entri in relazione con la fragilità dell’altro ti si apre un mondo che poi è anche il tuo mondo. Mi sentivo strettamente collegata a loro. Certo, mi tremano sempre i polsi quando chiedo “chi è per te la mamma?”, “chi è per te il papà?”.
Mi tremano anche quando chiedo loro “cosa vedi quando ti guardi allo specchio?”; oppure, se si tratta di donne, “cosa significa per te essere donna?” In base alle loro risposte posso intuire perché si sono puniti. O se ci sono altri scheletri nell’armadio di cui non mi hanno parlato.
Quelle risposte ci aprono delle finestre sul modo in cui la nostra società racconta il corpo delle donne e la femminilità. Anche se questo non era il tema del libro, le protagoniste ci facciano intuire qualcosa.
A.B.: Prima ha detto che forse oggi siamo pronti a parlare del tema e ad affrontarlo in maniera più seria rispetto al passato. Come crede che sia cambiata in Italia la percezione dei disturbi alimentari da quando lei ha iniziato a occuparsi del tema?
F.F.: Tantissimo. Noi abbiamo iniziato a occuparci di questo problema con Fame d’amore poco prima del Covid; stavamo già lavorando da due anni, la messa in onda doveva essere a marzo del 2020, proprio quando scoppiò la pandemia e furono imposte le restrizioni. C’è stata una sorta di convergenza astrale.
Da allora l’opinione pubblica si è sensibilizzata molto. Dopo il Covid, i casi sono esplosi ulteriormente, le percentuali sono aumentate ovunque: oggi ci sono quasi 4 milioni di persone malate di disturbi alimentari. Questi sono i dati emersi: chissà in quanti rimangono nel sommerso! Abbiamo quasi 4.000 vittime fra gli under 30, e i disturbi alimentari rappresentano la seconda causa di morte tra i giovani.
Però se ne parla. A volte tantissimo e su questo non sono sempre d’accordo. Se qualcuno racconta la propria storia con l’aiuto degli psicologi e degli esperti è un bene, può essere un vantaggio anche dal punto di vista terapeutico. Però la nascita di gruppi e sottogruppi che si scontrano su chi debba avere ragione circa la definizione della patologia mi spaventa.
Tutto ciò da un lato va a confondere i lettori più acerbi, al digiuno di informazioni, e dall’altro va a dividere un mondo che ora più che mai si dovrebbe ritrovare unito per ottenere dei servizi assistenziali sul territorio, i cosiddetti LEA, che possano permettere a chiunque – a prescindere dal reddito – di potersi curare.
Ad oggi, chi nasce in Molise e si ammala di anoressia non ha nessuna struttura che possa adeguatamente accoglierlo: bisogna fare le valigie e andare in una regione che decida di aiutarlo e curarlo, con enormi spese economiche e giganteschi investimenti emotivi. Chi non può permetterselo, rinuncia alla cura.
Intervista a cura di Alexandra Bastari, con la collaborazione di Davide Lamandini.
(In copertina, Marco Miana, Francesca Fialdini e Andrea Casadio durante la presentazione; foto di Giovani Reporter)
L’intervista a Francesca Fialdini su Nella tana del coniglio è stata realizzata in collaborazione con l’Oratorio di San Filippo Neri e Mismaonda.