L’uscita de “Il ragazzo e l’airone” (2023), prima in Giappone e poi nel resto del mondo, ha rappresentato un importante evento cinematografico che, grazie all’ermetismo del film e all’enorme quantità di materiale da cui attinge, ha fatto e farà ancora parlare di sé.
Nel 2013, quando arrivò nelle sale Si alza il vento, sembrava davvero giunta l’ora che Hayao Miyazaki si ritirasse definitivamente dal cinema d’animazione. Molte volte aveva annunciato e ritrattato il suo ritiro, ma quella volta apparve estremamente serio, parlando esplicitamente di pensionamento anche nel film.
Invece, nel 2016, ancora una volta sentì il bisogno di tornare a raccontare una nuova storia e per i successivi sette anni si è dedicato senza limiti a Il ragazzo e l’airone, con l’ausilio di altri studi d’animazione vicini a lui.
Tra l’inizio dei lavori e l’uscita in sala sono accadute molte cose che hanno riguardato la vita del regista, e inevitabilmente sono confluite nel suo lavoro, che potrebbe essere quello più sentito e complesso della sua carriera.
Il Destino bussa alla porta
Ti sei mai chiesto perché la gente si interessa all’arte? […] Perché è l’unico segno del nostro passaggio sulla Terra.
Con questa frase, Philippe (François Cluzet), protagonista di Quasi Amici (2011) insieme a Driss, spiega al personaggio interpretato da un magnifico e irriverente Omar Sy una delle ragioni – se non la ragione – per cui non possiamo rinunciare all’arte; laddove per arte non intendiamo solo i capolavori (un antico adagio diceva che non fosse necessario essere grandi artisti per fare arte), ma qualunque prodotto della creatività umana.
Inoltre, se guardassimo la frase di Philippe da un’altra angolazione, ci renderemmo conto che contiene un importante spunto di riflessione: perché ci importa così tanto di lasciare qualcosa su questa Terra?
La risposta sembra scontata: perché siamo spaventati dalla morte, non sopportiamo l’idea di non poter sapere cosa ci attenda dopo la vita; perciò, abbiamo bisogno di una garanzia che almeno una parte di noi sopravviva al nostro trapasso.
Ma come possiamo farlo, se di noi non resterà nulla? Semplice: dobbiamo creare qualcosa che spingerà gli altri a portarci con loro spiritualmente: appunto, lasciare una traccia. E quell’unica traccia è il prodotto artistico.
Questo prodotto nasce dal costante confronto con la morte che, in quanto unico vero elemento che accomuna ogni essere vivente, è anche l’unica misura su cui basiamo la nostra vita: si inizia ad avere reale coscienza della vita nel momento in cui si sviluppa la coscienza della morte.
E Il ragazzo e l’airone ha come colonna portante proprio questo: la nostra imminente morte e quella dei nostri affetti, e di quale traccia del nostro cammino lasciare.
Il Matto e La Morte XIII
Chiunque si sia approcciato almeno una volta al cinema di Miyazaki ha già avuto a che fare anche con la vita del maestro.
Infatti, il regista dello Studio Ghibli inserisce una parte di sé in tutte le sue pellicole: dalla passione per gli aerei – Porco rosso (1992) e Si alza il vento (2013) – sino alla giovinezza trascorsa in apprensione per la madre malata di TBC – Il mio vicino Totoro (1988) –, o anche personalità che hanno influito nella sua vita, come il produttore Toshio Suzuki, che ha ispirato il personaggio di Yubaba ne La città incantata (2001).
Il ragazzo e l’airone (traduzione letterale: E voi come vivrete?) non solo non fa eccezione, ma risulta essere il prodotto maggiormente influenzato dalla vita di Miyazaki e non è difficile capire il perché: la già citata malattia della madre, l’estrema vecchiaia che incombe, la speranza riposta nelle generazioni future, ma soprattutto la morte del suo migliore amico e collaboratore Isao Takahata, avvenuta nel 2018.
Questi sono tutti gli elementi con i quali Miyazaki intessa un dialogo estremamente conflittuale, facendoci sentire il carico emotivo con cui ha avuto a che fare negli ultimi anni.
La sequenza d’apertura ci riporta alla mente quello che fu uno dei capolavori di Takahata, ovvero Una tomba per le lucciole (1988): come Takahata che ci mostrò gli orrori della guerra in tutta la loro crudeltà, Miyazaki, impiegando uno stile d’animazione vorticoso per rappresentare la corsa di Mahito verso l’ospedale, cerca di farci percepire la potenza della prima fase del lutto, il manifestarsi della morte: è violento, dinamico e assai confuso, smette di farci percepire il mondo nella sua oggettività, ci fa crollare la terra da sotto i piedi. E l’impiego della visuale in prima persona non fa altro che rafforzare il legame tra spettatore e protagonista.
Questa sequenza d’apertura serve anche a creare contrasto con l’intera prima parte del film, quando Mahito si trasferisce con suo padre in campagna: i toni sono diametralmente opposti rispetto all’inizio, il silenzio regna sovrano, complice anche il fatto che l’ambientazione sia una tenuta immersa nel verde, e siamo totalmente assorbiti dalla nuova vita del protagonista, che inizia con lo smarrimento.
Miyazaki non si è mai fatto problemi a rappresentare varie sfaccettature dell’animo umano, ma in questo film ha voluto che lo spettatore sentisse realmente cosa significa perdere qualcuno.
Fino all’arrivo dell’airone non sembra un film che voglia portarci in un altro mondo, e anzi l’impressione è che intenda farci rimanere in quello reale: ci teneva a rappresentare in scala 1:1 quella che è stata la sua infanzia e la sua perdita, senza cercare di mascherarla.
Un mascheramento che sarebbe risultato anche eccessivo, visto che qualunque tipo di viaggio in un mondo fantastico comincia perdendo la retta via nella realtà.
La Torre e La Luna
Se fino all’arrivo dell’airone, Miyazaki ci ha mostrato uno spaccato della sua vita da giovane, dal momento in cui Mahito decide di intraprendere il viaggio per andare alla ricerca della zia veniamo introdotti al nuovo immaginario che il regista ha imbastito in questa pellicola: prima con l’airone, poi con la surreale sequenza ambientata nel laghetto vicino alla tenuta e, infine, con l’inizio del viaggio, che ci viene introdotto all’entrata della torre, fatta erigere dal prozio di Mahito, con l’incisione “Fecemi la divina potestate”, tratta dal terzo canto dell’Inferno di Dante.
A un’analisi superficiale potrà sembrare una semplice citazione, ma in realtà è una dichiarazione di intenti. E l’intera struttura del viaggio di Mahito presenta innumerevoli similitudini con quello compiuto dal Sommo Poeta: entrambi discendono nel regno dei morti, entrambi incontrano personaggi che li accompagnano nel viaggio (Virgilio/Airone, Caronte/Kiriko) ed entrambi viaggiano alla ricerca di una donna amata (Beatrice/zia Natsuko).
Tuttavia, ciò che riesce meglio a Il ragazzo e l’airone non è tanto il semplice accostamento con l’opera di Dante, ma la rielaborazione del materiale della Commedia per definire le fasi del lutto successive alla perdita e creare un nuovo aldilà, estremamente evocativo, che sia in grado di parlare della morte in relazione con la complessità della vita.
Ad esempio, Miyazaki riesce a parlare in combinazione di tematiche ambientali, a lui molto care, e della morte prenatale nella scena in cui i Wara Wara, piccoli spiritelli che nel mondo reale diventeranno nuove vite, vengono mangiati dai pellicani, i quali non dovrebbero trovarsi in quel mondo e, a detta di uno di loro, sono stati portati lì a forza.
Per ovvi motivi, le similitudini con Dante si limitano alla struttura narrativa e al tipo di racconto, perché Miyazaki è ben conscio che il viaggio, come metafora di crescita, e la morte siano elementi tanto personali, che il loro fascino si palesa solo quando si relazionano con il trascorso della singola vita umana.
E proprio Mahito riesce a ritrovare i sentimenti che la perdita della madre gli aveva fatto dimenticare, o che comunque lo aveva portato a uno sfasamento della propria personalità, oscillante tra l’indifferenza, l’apatia e l’astio: durante il periodo che trascorre con Kiriko, vediamo una personalità colorata, che non solo lavora emotivamente, ma anche fisicamente grazie agli incarichi che la donna gli assegna.
Tutto questo culmina nell’ascesa dei Wara Wara verso la vita terrena, in cui il ragazzo prova in sequenza stupore per il vorticoso spettacolo a cui assiste, meraviglia d’animazione che difficilmente dimenticheremo, rabbia e paura per l’attacco dei pellicani e pietà vedendone uno morente, al quale darà perfino degna sepoltura.
Solo la prima parte del film ci regala il personaggio più complesso e sfaccettato mai creato da Miyazaki, è la sintesi più raffinata di cosa voglia dire essere umani: fragili, imperfetti, oscuri, ma capaci di creare da soli mondi dal nulla, attraverso i sentimenti, in grado di farci ridestare dal sonno prodotto dalle avversità della natura.
La Papessa e La Ruota
In più, i rapporti con i vari comprimari si fanno più netti e definiti: adesso l’Airone acquisisce a pieno titolo il ruolo di guida, ma soprattutto viene introdotto uno dei personaggi chiave del racconto, ovvero Himi, una ragazza in grado di controllare il fuoco e che guiderà il ragazzo da sua zia Natsuko, quest’ultima, motore del racconto, giunta nel mondo fantastico del prozio per portare a termine il parto.
A partire dalla seconda metà del film, il tema della morte comincia a rapportarsi con l’altra grande questione che Miyazaki vuole trattare: il lascito artistico, ovvero la traccia che lascerà dopo la sua dipartita.
Da questo momento fino alla fine del film si entra in un campo metafisico, in cui si fa fatica a comprendere se il mondo in cui è entrato Mahito sia effettivamente l’aldilà o una creazione del prozio. Il regista non considera importante definire in modo netto che genere di mondo sia.
Evidentemente è qualcosa che sta a cavallo tra la vita e la non-vita, e l’unico meccanismo che ci viene mostrato è il complesso sistema di porte, che ricorda la porta magica ne Il castello errante di Howl (2004), il quale permette di andare in luoghi e tempi diversi.
Da questo momento, il racconto tralascia gran parte del suo lirismo per concentrarsi a pieno sull’avventura che Mahito deve affrontare: veniamo introdotti agli antagonisti, i parrocchetti carnivori, che avremo modo di approfondire successivamente.
In più, i rapporti con i vari comprimari si fanno più netti e definiti: adesso l’Airone acquisisce a pieno titolo il ruolo di guida, ma soprattutto viene introdotto uno dei personaggi chiave del racconto, ovvero Himi, una ragazza in grado di controllare il fuoco e che guiderà il ragazzo da sua zia Natsuko, quest’ultima, motore del racconto, giunta nel mondo fantastico del prozio per portare a termine il parto.
Proprio questo incontro serve a introdurre un’ulteriore fase del lutto, ovvero l’accettazione, non tanto del lutto quanto piuttosto di un futuro piombato a gamba tesa nella propria vita e che, senza il nostro consenso, si è fatto presente.
E proprio come il presente, che non è che un minimo istante prima di farsi passato, l’accettazione di Mahito si sintetizza in una sola parola: “mamma”, quel termine che, rivolgendolo alla zia divenuta matrigna, fa si che lei lo riconosca come figlio e la prepari a far ritorno nel mondo reale per creare nuova vita.
Così ci viene mostrato come il presente ha realmente importanza solo quando abbandona l’abitudine al ripetersi costantemente, e a catena plasma il futuro, un futuro nel quale creare nuovi ricordi da lasciare al passato.
L’Imperatore e Il Mondo
Ma nuova vita, ne Il ragazzo e l’airone, cosa significa? Perché Miyazaki ci vuole raccontare le fasi del lutto? Non sarebbe sufficiente lasciare che le persone scoprano nella loro vita cosa significhi perdere qualcuno?
Abbiamo già approfondito la ragione per cui una persona decide di fare dell’arte ma resta ancora qualcosa da capire: una volta che noi abbiamo lasciato quella traccia a chi è ancora vivo, gli eredi cosa dovrebbero farsene di quello che a tutti gli effetti è un reperto della storia del proprio predecessore?
Le possibilità sono molte più del semplice “conservarne il ricordo” perché la risposta al quesito non si cela in chi lascia, ma in chi ottiene; di conseguenza, dipende dalla persona che ottiene questo oggetto.
L’impiego del lascito dipenderà dalle scelte che farà questa persona. E il fardello più grande per un’artista è confrontarsi con il futuro della propria creazione, che non potrà vedere e su cui ha investito gran parte del suo tempo. Ed è su questo problema che Miyazaki vuole riflettere quando porta Mahito a colloquio con il suo prozio, creatore del mondo in cui si trova.
La sequenza finale de Il ragazzo e l’airone è il collante che ci permette di ricostruire tutta la storia e capire perché il regista ce l’ha voluta raccontare: abbiamo visto e vissuto la crescita di Miyazaki, ci siamo immersi in quello che è il suo mondo e siamo giunti alla fine del viaggio.
Adesso il maestro deve cedere il passo a qualcun altro, ma a chi? Chi è degno di prendere quest’eredità? Non i parrocchetti e il loro re, che divengono simbolo della corruzione dell’arte a causa di chi vuole trarne profitto senza alcuno sforzo.
Non è un caso se il loro sistema sociale ci viene mostrato similmente a quello di una dittatura, quasi a citare il fascismo tanto aborrito dal regista già in Porco rosso. Per questa ragione il prozio voleva vedere il suo discendente che però, spinto da un moto di sincerità, formulerà una scelta non del tutto scontata.
E il crollo del mondo, causato proprio dall’avidità del re parrocchetto che non voleva che Mahito ottenesse tutto quel potere, ci pone una nuova prospettiva sul lascito. Chi ha detto che debba per forza esserci un erede?
Forse, una volta che l’artista ha concluso il suo operato, la soluzione migliore è congedarsi senza porsi troppi problemi e lasciare che sia il tempo a decidere delle sorti di ciò che ha creato. O, magari, permettere che il suo mondo lo segua nella tomba, e lasciare di esso solo il ricordo nel cuore delle persone.
Sta di fatto che qualunque cosa succederà un domani che Miyazaki non ci sarà più, ci ha posto, con le sue creazioni, una domanda su cui riflettere, dopo essere cresciuti con i suoi film: e noi come vivremo? Questa è la traccia del suo passaggio sulla Terra.
I maestri dei nostri maestri
Una delle caratteristiche più rilevanti di Il ragazzo e l’airone è sicuramente la presenza di moltissime citazioni artistiche, e probabilmente è il film di Miyazaki che ne contiene di più. Ho già avuto modo di approfondire a inizio articolo una delle più preponderanti, ovvero la Commedia di Dante, di cui è citato non solo un verso dell’Inferno, ma l’intera struttura dell’opera, seppur in chiave semplificata e ridotta.
Inoltre, come è già accaduto molte volte in passato, il film stesso è tratto da un’altra opera da cui prende il titolo, ma di cui cambia totalmente il racconto: in questo caso stiamo parlando di E voi come vivrete? (1937), scritto dall’autore giapponese Yoshino Genzaburo.
Una copia viene lasciata in dono dalla madre a Mahito: è il momento più vicino alla vita del regista poiché la madre di Miyazaki fece la stessa cosa con lui.
Innumerevoli sono anche i dipinti citati, che forniscono un ulteriore strumento con cui interpretare questo monumentale racconto formativo: sono presenti, per citarne alcune, Il Seminatore (1850) di Millet, L’Isola dei Morti (1880-1886) di Arnold Böcklin, Mistero e Melanconia di una strada (1914) di Giorgio De Chirico, Idee Chiare (1958) di Renè Magritte.
Non si trattano di semplici omaggi, ma di tasselli che hanno il compito di limare il quadro interpretativo del film. L’opera di Millet, appartenente alla corrente realista, lo troviamo in una pagina del libro lasciato in dono al protagonista; invece De Chirico e Magritte, pittori esponenti rispettivamente della corrente metafisica e di quella surrealista, vengono citati verso il finale.
Si potrebbe dire che, visti in questa sequenza, anche i dipinti simboleggiano il passaggio dal piano materiale a quello più astratto della fantasia. Rappresentano un percorso, parallelo a quello di Mahito alla ricerca della sua futura madre, che ci conduce sempre più in profondità dello spirito creativo di Miyazaki.
E non è tutto. Sono presenti anche citazioni cinematografiche, come una scena tratta da 8½ (1963) di Federico Fellini, ma anche riferimenti a precedenti film di Miyazaki. E non basterebbe una trattazione a parte per spiegare e collegare tutto il materiale da cui ha attinto il regista.
Infatti, al di là di ciò che questo film vuole trasmettere, il desiderio del regista è che ognuno di noi riesca a vedere qualcosa di se stesso nell’avventura di Mahito, nella speranza che tutti costruiscano nel modo migliore il proprio mondo.
Gli arcani maggiori
Dopo l’uscita in sala del film, si è potuto notare che l’entusiasmo generale del pubblico è stato accompagnato da una diffusa difficoltà nel comprendere fino in fondo la storia e cosa rappresentino i personaggi che l’animano.
Effettivamente abbiamo avuto modo di notare come Il ragazzo e l’airone sia parecchio ermetico e ricolmo di riferimenti autobiografici e culturali, per cui può risultare estremamente difficile cogliere tutte le sfaccettature presenti nella pellicola per chi conosce superficialmente la vita di Miyazaki o la storia dell’arte e del cinema.
Questa problematica si intensifica se pensiamo che il cinema commerciale più vicino a noi ha abituato il pubblico a uno stile narrativo molto didascalico, in cui sembra che tutto debba essere spiegato esplicitamente, e che dà sempre meno peso al valore dell’immagine come strumento narrativo.
Al contrario, Miyazaki non ha mai voluto imboccare lo spettatore con le sue storie. Anzi, ha sempre fatto in modo che questo si sforzasse di trovare i significati celati nei film, ma anche una propria visione che gli permettesse di uscire dalla sala accresciuto.
E questo film non è da meno: soprattutto per i temi trattati e per il fatto che uno degli scopi del film sia chiedere a ciascun spettatore come abbia intenzione di vivere, è anche giusto che tutti ricavino la propria interpretazione del racconto.
Si potrebbe azzardare a dire che si sia comportato come un cartomante che, con l’ausilio degli arcani, ci mette sul tavolo alcuni elementi che hanno un significato ben preciso, ma dalla cui selezione possiamo comprendere in che modo affrontare la nostra vita.
Ad esempio, Mahito è associabile al Matto, siccome ha vissuto un evento improvviso e per il fatto che dovrà raggiungere, attraverso il suo cammino, una nuova fase della sua vita; oppure, l’enorme masso davanti al quale il prozio porta Mahito per fargli compiere la scelta finale può essere il Mondo, siccome è il traguardo raggiunto dal protagonista, dopo il quale può dire di essere cresciuto.
Ovviamente è altamente improbabile che Miyazaki abbia pensato di fare riferimento agli arcani maggiori, ma questo tipo di associazione serve a far comprendere che, per un film che vuole fare riflettere sul percorso che un essere umano è costretto ad affrontare, ciascuno dovrebbe trovare ciò di cui ha bisogno per vivere, prima ancora di cercare di cogliere cosa il regista abbia voluto dire.
Questa è l’essenza del vero cinema: guardare, meravigliarsi e trovare risposte, anche diverse, per raggiungere la catarsi.
Leonardo Bacchelli
(In copertina e nell’articolo, foto tratte dal film Il ragazzo e l’airone)
Leggi anche la recensione di Chiara Celeste Nardoianni de “Il ragazzo e l’airone“. Clicca qui per altri articoli della sezione Cinema.