Il Deep sea mining è una pionieristica attività di estrazione mineraria che, in bilico tra l’essere un pericolo o un’opportunità, rischia di creare più problemi di quanti ne possa risolvere.
Che cos’è il Deep sea mining?
Il passaggio dalle fonti energetiche ad alta impronta carbonica a quelle a basse emissioni necessita nuove materie prime: migliaia di aziende da tutto il mondo vogliono realizzare un nuovo mercato che affonda le proprie radici nelle profondità incontaminate del pianeta Terra.
Il Deep sea mining è un processo di estrazione mineraria in acque profonde che permette di recuperare materiale utilizzabile nell’industria dai fondali marini che, raggiungendo e superando i 200 m di profondità, ricoprono più del 65% della superficie terrestre.
Dopo aver mappato le aree che presentano un’ampia quantità di risorse minerarie si procede con il rastrellamento del fondale, un’operazione utile per smuovere i sedimenti. Dopodiché, le tubature collegate alle navi di appoggio aspirano e accumulano il materiale di interesse, mentre l’acqua di scarto e i detriti vengono restituiti all’oceano sotto forma di nubi di sedimenti.
I tesori degli abissi
L’interesse per questa tipologia di industria risale agli anni Sessanta, quando sono nati i primi studi sullo sfruttamento delle riserve minerarie. A. Camerlenghi, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale, spiega che “gli oceani sono percorsi da lunghissime catene montuose sottomarine, le dorsali oceaniche. Nei punti di espansione, dalle fratture fuoriescono acque estremamente calde e ricche di minerali assorbiti dalle rocce del mantello e della crosta oceanica”.
Il contatto tra le acque fortemente mineralizzate, che fuoriescono dalle fratture originate dall’espansione, causa la creazione dei cosiddetti noduli polimetallici. Si tratta di piccole sfere rocciose che custodiscono grandi concentrazioni di metalli utili all’industria, come il nichel, il manganese e il ferro che, depositati su strati concentrici, si “aggrappano” ad un nucleo (una conchiglia, un frammento di corallo o un dente di squalo).
I noduli rappresentano un’ampia risorsa per affrontare la scarsità dei materiali necessari alla transizione ecologica e, in particolare, alla “tecnologia verde”.
SOS Terra: i pericoli per l’ambiente
Quantificare e misurare la gravità dell’impatto del Deep Sea Mining può risultare complicato perché gli abissi, ancora oggetto di studio, sono ampiamente inesplorati. Non è però difficile comprendere come questa pratica possa essere invasiva per i fondali e per tutte le specie che li abitano.
Logorare la biodiversità è uno dei rischi principali: l’essere umano non conosce gran parte dei generi marini presenti nelle acque oceaniche, ma non si preoccupa di eliminarli.
L’inquinamento è un’altra problematica, che si presenta in varie forme. Non si parla solo dei gas e delle sostanze utilizzate e rilasciate dai macchinari impiegati nell’estrazione, ma anche di inquinamento acustico e luminoso.
Le vibrazioni, la luce e il rumore causati dalle attrezzature utilizzate possono influire sulla vita sottomarina, che ha un ritmo di riproduzione molto lento. Inoltre entra in gioco un altro rischio: i sedimenti sono spesso un deposito di carbonio che, tramite le estrazioni, potrebbe essere liberato nell’atmosfera.
L’area che presenta la maggiore distesa di noduli è la zona di frattura di Clarion Clipperton, nell’Oceano Pacifico. Si estende per sei milioni di chilometri, tra le Hawaii e il Messico, e risulta essere una grande miniera di noduli polimetallici. Le specie senza nome rintracciate nell’area sono ben 5.142, ma sono destinate a scomparire con il tempo a causa dell’uomo.
Il BBNJ: un’ancora a cui aggrapparsi
Nel 2021 la Repubblica di Nauru ha annunciato di voler iniziare lo sfruttamento del fondale marino a scopo commerciale. L’International Seabed Authority, l’organismo responsabile della regolamentazione delle estrazioni minerarie in acque profonde, allarmato dalla decisione della Repubblica, ha deciso di stipulare il trattato BBNJ (Biodiversity Beyond National Jurisdiction) con l’obiettivo di creare aree protette in alto mare. Il proposito è quello di salvaguardare il 30% della superficie oceanica entro il 2030, ma al momento la percentuale protetta è pari a meno del 2%.
Mentre si cerca di risolvere un problema se ne sta creando un altro: il tentativo di salvaguardare l’ambiente attraverso l’utilizzo di fonti a basse emissioni sta paradossalmente distruggendo un intero ecosistema.
Carlotta Bertinelli
(In copertina Open)
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