Il terzo racconto del podcast di Lorenzo Cavazzini, “Parole Nomadi”, un progetto di scrittura nato su Instagram e basato sull’idea che l’arte possa generare arte. In questo episodio “Le luci della città”, la storia di un incontro che ferma il tempo, in una Bologna di luci che danzano e gocce di pioggia che cadono.
Piove da un po’ su Bologna: le gocce scendono danzando sui finestrini delle auto che scorrono veloci sopra il ponte della stazione centrale. Ai binari le persone che aspettano di partire corrono frenetiche in cerca di riparo, in cerca di un posto in cui stare al sicuro, in cui attendere qualcosa che li porterà lontani, lontani a cercare un po’ di felicità sotto forma di parenti o di amici, del mare o della persona che amano.
In questo spasmo di vita, un treno giunge da lontano: sentendolo arrivare, si percepisce la stanchezza che contiene, e il sollievo di chi, dopo aver lavorato, torna finalmente a casa. Le persone scendono fiacche e, non appena mettono piede a terra, si congiungono a quella strana danza, e così esse vanno, e vengono.
Ad un certo punto però, un ragazzo sulla ventina e con un vecchio zaino logoro sulle spalle e le cuffiette alle orecchie, dopo essere sceso dal treno, immediatamente si ferma. Si ferma, non si unisce a nessuno: si gode la pioggia che prima bagna lentamente il suo viso, e poi tutto d’un colpo la sua maglietta bucata. Egli assapora il momento, non vuole che passi in un istante, ma soprattutto, egli non vuole alcun riparo, perché è finalmente tornato a casa. Con un passo delicato e con l’andare di chi si sente sempre un po’ sulle nuvole, il ragazzo esce dalla stazione, incamminandosi verso il cuore della sua città.
I portici proteggono tutti, avvolgendo in un abbraccio la colonia di vite che ogni giorno li percorre, ma il ragazzo si sente a disagio in mezzo a tutte quelle persone, sente di essere fuori posto proprio dove tutti si sentono al sicuro: egli vuole vivere intimamente ciò che succede, senza condividerlo con nessuno, senza permettere ad altri di aver la sua stessa fortuna e le sue stesse emozioni.


Per questo, si discosta gentilmente per camminare lungo la strada, affiancando così le macchine che corrono veloci lungo l’arteria principale della città. Per terra, la pioggia solca i ciottoli antichi, creando prima fiumiciattoli, e poi veri e propri laghi che le persone, incuranti di tutto, attraversano facendoli esplodere. Il ragazzo però non fa come loro, ma anzi si ferma prima di ognuno di essi, osservandoli attentamente, e vedendoci dentro il riflesso di un mondo ideale.
Crede che essi siano uno specchio dove potersi vedere felici, dove le cose normali prendono un po’ di magia. Però si sa, chi viaggia sempre con la fantasia poi viene riportato velocemente con i piedi a terra, ed infatti, ogni volta che egli si ferma a guardare le cose in quella prospettiva, poi viene risvegliato dal rumore della città e dalle macchine che, sfrecciando rapide, dissolvono tutti quei sogni.
Dopo aver percorso l’intera via, il ragazzo si siede sugli scalini della vecchia biblioteca, prende fuori dal suo zaino la sua Moleskine nera e usurata dal tempo, e poi la sua vecchia Parker, donatagli da una persona molto cara tempo addietro, e subito inizia a solcare le pagine giallastre come il migliore dei marinai farebbe con le onde di un mare in tempesta. Scrivendo, prova emozioni, respira l’odore della pioggia e non si cura di essa, poiché tutto fa parte del quadro che sta descrivendo: una fontana, imponente, gli si staglia davanti, ma egli non sembra esserne attratto, poichè impegnato a cogliere la sensazione che gli suscita vedere le luci del palazzo di fronte a lui, dato che in tutto quel caos di gocce, esse sembrano essere vive.
Dopo aver scritto qualche pagina, il ragazzo decide che la migliore vista di Bologna, in quel preciso momento, sarebbe stata la panoramica di una Piazza Maggiore che, ormai sfinita dal camminare delle gente, si rilassa godendosi la pioggia che porta via dolcemente le tracce del giorno passato.
Mentre sta cercando la posizione migliore per poterne catturare l’essenza, viene distratto da qualcosa che gli pare irreale, come un sogno troppo bello che, al risveglio, lascia un sentimento di malinconia profonda, poiché il desiderio di esso è ormai già penetrato fino al cuore. Una ragazza vestita da sera, con una gonna colorata dello stesso colore che aveva scelto come rossetto, è seduta sotto uno dei portici che delimitano la piazza, con una birra chiara finita a metà alla sua destra, e con una macchina fotografica appoggiata al seno.
Una cuffietta appare timida dai lunghi e mossi capelli biondo scuro, e dalla sua bocca nasce una canzone che è triste, ma dolce, allo stesso modo. La ragazza guarda curiosa la piazza che piano piano saluta anche la sera, per prepararsi ad accogliere il buio della notte, e sembra cercare nei dettagli di questo dipinto le sensazioni più belle: cogliere il tutto, nei particolari istantanei di un momento che accade, e che non accadrà mai più.
Al ragazzo pare di aver trovato la sua esatta metà, anche se ha paura a fidarsi delle apparenze e ha paura a credere che quello che sta vedendo sia reale, e non solo l’illusione di un sogno visto attraverso uno specchio d’acqua. Timidamente, si avvicina, e con un filo di voce:
“Ti ho visto da lontano sai? Ti vedo, e mi sembra di capirti fin da subito, come fossimo stati innamorati per anni, e come tu fossi esattamente ciò che voglio. Posso avvicinarmi e unirmi a te? Posso sentire ciò che provi, cogliere ciò che vedi, catturare le tue emozioni? Posso essere io quello che cerchi nell’immenso infinito di questa piazza fradicia?”
La ragazza, immersa fra le note della sua canzone, non lo sente, ma gli sorride, e si presenta porgendo la mano. Lui ricambia, poi imbarazzato indica la macchina fotografica ed esclama:
“Anche io, come te, sogno di cogliere il momento: solo che io uso la penna, mentre te la fotografia, ma anche se usiamo armi differenti, siamo, allo stesso modo, guerrieri che combattono per una stessa causa”.
Sorridendo di nuovo, la ragazza fa nascere una fossetta sulla sua guancia, e il ragazzo sente premere dentro il petto, come se dentro vi fosse la felicità, ed essa volesse uscire ad ogni costo.
Poi, d’improvviso, la ragazza prende in mano la macchina fotografia, si concentra come se avesse un solo tentativo, mira attentamente, e scatta una foto, per poi porgerla al ragazzo per permettergli di vedere ciò che aveva colto.
Il ragazzo rimane sconvolto: tutto è sfocato; solo le luci mettono in risalto la bellezza intrinseca di Bologna. Esse appaiono inoltre nelle pozzanghere ridisegnando il mondo davanti a loro, rendendo tutto magico e concreto allo stesso tempo.
“Quindi anche tu… sei qua per questo?
Oppure semplicemente mi stavi cercando per potermi completare?”
I due ragazzi si guardano intensamente.
Bologna, vista attraverso le gocce di pioggia che disperate cercano di raggiungere la loro meta, sembra aver fermato il tempo, per concedere ai due di godersi l’incontro. Le luci della città danzano intorno a loro, accogliendoli e illuminandoli quel tanto che basta da farli sentire a casa.
Le luci della città, un racconto di Lorenzo Cavazzini
(In copertina e nel testo immagini di Lorenzo Cavazzini)
Il terzo racconto di Parole Nomadi, Le luci della città: un progetto di scrittura creativa che si fonda sull’idea che l’arte generi arte: partendo da fotografie, poesie, disegni (e altre forme d’arte) nascono così racconti che si legano con la creazione artistica originaria.
Grazie alla collaborazione con Giovani Reporter, questo progetto è diventato anche un podcast: ogni mese viene narrato un testo ispirato ai contenuti donati nel corso degli anni.
Per approfondire, puoi trovare Le luci della città e gli altri racconti (con le rispettive forme d’arte a cui è ispirato) anche su Instagram (@parole.nomadi) e su tutte le piattaforme (Apple Podcast, Amazon Music, Google Podcast e Spotify).
