
Silvia Camporesi ha tenuto un seminario sull’abuso del concetto di razza negli studi genetici delle performance sportive. Il concetto di razza si fonda su basi scientifiche? Il razzismo e lo sport possono ‘andare d’accordo’?Quali sono le implicazioni teoriche ed etiche dei discorsi razziali nel dibattito scientifico?
Il 24 gennaio 2024 presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna, si è svolto un seminario sull’abuso del concetto di razza nella genomica delle performance sportive tenuto dalla bioeticista Silvia Camporesi.
Durante la conferenza Camporesi ha spiegato che impiegare la variabile razza in trial clinici e ricerche scientifiche può essere problematico. L’utilizzo di questo fattore, infatti, porta a conseguenze spinose a livello teorico ed etico.

La razza nel football americano
L’intervento di Camporesi, specializzata in biotecnologie e filosofia della medicina, prende avvio da alcuni studi empirici portati avanti in USA, i quali riabilitano il ruolo della razza nella comprensione degli infortuni a cui gli atleti possono andare incontro.
Nello specifico, vengono prese in considerazione recenti pubblicazioni accademiche sui sintomi e il decorso delle commozioni cerebrali che subiscono spesso i giocatori di football americano: si sostiene che le ripercussioni e i sintomi derivanti da forti traumi cranici avvengano in minor numero o comunque siano più lievi negli atleti che si identificano come afro-americani rispetto agli atleti che si identificano come caucasici.
I presupposti di queste pubblicazioni sono due: l’esistenza di specifici alleli che permettono di diventare degli atleti con prestazioni superiori alla norma e la distribuzione variabile di questi alleli tra le self-identified races (razze in cui ci si identifica), in virtù della quale un atleta afro-americano mostra una prevalenza di alleli che gli garantiscono condizioni fisiologiche diverse rispetto al collega caucasico.

La scomparsa della variabile razziale
Ciò che più stupisce, all’interno degli studi citati, è la reintroduzione del concetto di razza, dal quale la ricerca scientifica aveva preso le distanze già a partire dal 1972, con gli studi del genetista Lewontin, per poi esserne epurata del tutto il 26 giugno 2000.
La data è simbolica: in quel giorno alla Casa Bianca venne annunciato il completamento del Progetto genoma umano (Human Genome Project) dagli scienziati Craig Venter e Francis Collins.

In quell’occasione Venter dichiarò che il concetto di razza non aveva alcuna base genetica o scientifica.
Fu proprio la mappatura della sequenza dei geni umani a rendere possibile tale affermazione. Il ragionamento è molto semplice: dalla lettura della sequenza dei geni risulta evidente che le differenze genetiche all’interno di una stessa popolazione sono molto più numerose rispetto alle differenze genetiche tra popolazioni diverse. Perché, allora, il fattore razza è tornato alla ribalta negli studi scientifici durante gli ultimi anni?
La rinascita del concetto di razza: razzismo e sport?
Il ‘merito’ si deve al National Institute of Health (NIH) degli USA: per mettere in atto una politica di inclusione nei confronti delle donne e delle minoranze, il NIH ha richiesto di utilizzare la ‘razza’ come variabile all’interno di trial clinici e ricerche genetiche.
In quest’ottica, ogni popolazione o etnia risponderebbe in maniera diversa alle malattie e ai trattamenti proposti, quindi tenere conto di questo fattore permetterebbe di sviluppare cure più efficienti, in quanto pensate su misura per quella specifica razza.

Camporesi definisce questo ragionamento come “reificazione del concetto di razza” e lo ritrova anche alla base dei recenti studi sui traumi cranici riportati dai giocatori di football americano descritti più in alto. I sostenitori della variabile razza affermano che l’utilizzo che ne fanno è totalmente neutrale e si definiscono ratialist (in contrapposizione a racist, razzista in inglese).
Camporesi, tuttavia, mostra come non possa esistere un uso neutrale del concetto di razza ed enuclea due specifiche problematiche che intersecano sia il piano teorico che quello etico.
Conseguenze teoriche e pratiche
La prima è il cosiddetto stereotype threat (letteralmente, minaccia dello stereotipo). Questo meccanismo consiste in una sorta di effetto Pigmalione: associare la razza con la percentuale di rischio di riportare determinati sintomi o contrarre una certa malattia porta a rinforzare stereotipi sociali e discriminazione razziale, influenzando il comportamento del soggetto che ha introiettato in maniera inconscia quegli stereotipi.

Ad esempio, durante un match di football l’atleta afro-americano, convinto che il suo corpo reagisca in un certo modo agli impatti fisici, tenderà a non riferire i sintomi derivanti da una commozione cerebrale.
Si istituisce così un circolo vizioso, all’interno del quale le segnalazioni di traumi da parte dei giocatori caucasici aumentano in maniera sproporzionata rispetto a quelle degli atleti afro-americani, creando un dato alterato che costituirà il punto di partenza per nuovi studi scientifici. È una profezia che si auto-adempie.
L’altra conseguenza problematica è quella degli adverse health outcomes (letteralmente, esiti avversi sulla salute): le discriminazioni possono avere un ruolo attivo sulle funzioni biologiche dell’individuo. Nello specifico, lo stress causato da forti pressioni sociali può inficiare l’espressione dei geni che si ‘disattivano’ per determinati periodi di tempo, compromettendo a tutti gli effetti la salute dell’individuo.
A ‘call for action’
In questo panorama scientifico, Camporesi riscontra la necessità di una ‘chiamata all’azione’ che si fonda essenzialmente su tre punti:
- è strutturalmente impossibile effettuare un discorso scientifico neutro sulla razza;
- bisogna evitare di utilizzare la variabile razza in ogni tipo di studio scientifico;
- scienziati, filosofi ed esperti del settore devono essere sempre coscienti che nella genomica, come in qualsiasi campo della scienza, possono sempre ripresentarsi vecchie ineguaglianze biologicamente determinate, che legittimano differenze e discriminazioni a livello sociale.
La terza questione è di rilevante importanza, perché scardina quella che forse è la concezione più diffusa e intuitiva che si può avere della scienza: si tende a pensare che la scienza sia depositaria di un sapere oggettivo, neutro, che descrive la realtà fisica così come essa è nella sua essenza.
Non si può mettere in dubbio che le pratiche scientifiche ci permettono di fare predizioni sulla realtà che generalmente si rilevano ‘corrette’, in modo da agire eventualmente su di essa per trarne vantaggi e benefici. Del resto, non bisogna mai tralasciare il fatto che la scienza è sempre una pratica interpretativa della realtà, delle lenti che permettono di vedere le cose con determinate sfumature.

Scienza e pregiudizio, razzismo e sport
Fuor di metafora, come ha sottolineato Camporesi durante il suo intervento, sarebbe davvero semplicistico considerare la scienza come un sapere puro, scevro di interessi economici o politici, un sapere in cui preconcetti di tipo culturale non riescono a penetrare.
Questo è ben illustrato da Michael Yudell, scienziato statunitense esperto di etica e storia della medicina, autore del contributo A short history of the race concept (2011). Yudell ha ricostruito la storia del concetto di razza, mettendo in luce come credenze razziste e discriminatorie siano fortemente radicate nel pensiero scientifico.
Quindi, la scienza da sola non può essere un’arma efficace contro il razzismo, dal momento che, per certi versi, svolge un ruolo attivo nel perpetuarlo.
Come ogni tipo di sapere, la scienza è un prodotto dell’uomo, uno strumento nelle nostre mani, permeabile a pregiudizi culturali e che può essere asservito a calcoli utilitaristici. Il noto biologo Stephen J. Gould ha denunciato, già quarant’anni fa, i pericoli derivanti dalle spiegazioni biologiche di ineguaglianze sociali nel suo Intelligenza e pregiudizio (1998): “Attraversiamo questo mondo una sola volta.
Poche tragedie possono essere più vaste dell’acrobazia della vita, poche ingiustizie più profonde della negazione della possibilità di lottare o perfino di sperare, determinata da un limite posto dall’esterno, ma che erroneamente si considera posto all’interno”.


Proprio come la nostra lingua, anche il linguaggio della scienza commette, in certi casi, l’errore di ‘etichettare’ le persone. Essere consapevoli di ciò ci permette di prendere le giuste distanze dal lessico scientifico, per osservarlo criticamente e riconoscere la sua fallibilità.
Gioele Marangotto
(In copertina, foto da Pexels)
Ha senso parlare di razza negli atleti? – Il nuovo ‘razzismo scientifico’ e gli sport è un articolo di Gioele Marangotto. Se ti interessano argomenti di àmbito scientifico, corri ad ascoltare il podcast La Svolta, di Alessia Sampieri!