
Dal 9 gennaio è disponibile in tutte le librerie l’opera postuma di Michela Murgia, Dare la vita (Rizzoli, 2024). In poco più di un centinaio di pagine Murgia riflette sull’esperienza della famiglia queer e sulla gestazione per altri, dando una forte scossa alle fondamenta della ‘norma’ e della ‘tradizione’.
Dare la vita riassume l’essenza della carriera artistica e intellettuale di Michela Murgia, compianta scrittrice e attivista che, a dispetto della sua scomparsa avvenuta il 10 agosto 2023, irrompe nuovamente nel panorama letterario e culturale italiano con la sua opera postuma.
Nessuno può negare che Michela Murgia sia stata una delle voci più influenti del dibattito pubblico contemporaneo: non ha mai offerto prospettive concilianti o accondiscendenti, ma ha sempre scritto parole che fluivano veraci dalla sua penna e considerava come una ricchezza il fatto che in molti casi potessero risultare scomode e divisive.

Un’opera ricucita
Nata sotto il segno dei Gemelli, figlia di almeno due madri io stessa, non ho dato alla luce mai nulla e nessuno che non fosse fratto.
Michela Murgia, Dare la vita (p. 16).
Strutturalmente fratto è anche Dare la vita, che si presenta come un pamphlet realizzato sotto la curatela di Alessandro Giammei, figlio d’anima della scrittrice. Come sottolinea Murgia nell’introduzione, l’esigenza di realizzare un discorso su due tematiche complesse e stratificate come la famiglia queer e la gestazione per altri doveva venire a patti con il poco tempo che aveva a disposizione per la scrittura a causa dell’avanzare della sua malattia.
Così, senza contare il capitolo introduttivo in cui Murgia chiarisce la genesi del testo, l’opera si presenta divisa in due parti ben distinte: la prima, scritta tra il luglio e l’agosto 2023 (ultimi due mesi di vita della scrittrice), è dedicata alla sua elaborazione del concetto di queerness e al racconto della sua famiglia di elezione; la seconda, invece, analizza la questione della gestazione per altri e consiste in un articolo dell’Espresso del 2016 integrato con una conclusione inedita.
Questi fattori, che rendono l’opera nel complesso abbastanza frammentaria, non ne smorzano peraltro l’intelligibilità: in una dimensione che ondeggia senza soluzione di continuità tra la saggistica e la memorialistica, l’urgenza di Murgia di raccontare “legami altri” (Dare la vita, p. 13) che sfidano le logiche del patriarcato etero-normativo svetta in maniera irremovibile.
In particolare, l’autrice fa riferimento a quei legami e quelle connessioni non convenzionali che costituiscono mondi alieni rispetto alla struttura familiare fondata sul rapporto coniugale e sulla possibilità di generare dei figli. Lo fa partendo dalla sua esperienza personale, letta alla luce del concetto di queerness.
L’evoluzione del queer
In origine il termine queer esprimeva una stranezza o un’anomalia. La sua etimologia rimanda all’aggettivo germanico quer, che significa letteralmente ‘diagonale’, ‘di traverso’.
Queer è quindi il contrario di straight, termine inglese che significa ‘dritto’, ‘rettilineo’ ma che, per analogia, indica anche le persone eterosessuali, dal momento che si adeguano alla norma e sono associate quindi a una certa rettitudine morale. Non stupisce allora che, durante l’Ottocento, queer sia stato utilizzato come insulto diretto alle minoranze sessuali, composte da individui che travalicano la norma etero-sessuale e cis-gender.
A partire dagli anni ‘80, la comunità LGBT+ si è riappropriata progressivamente di questa parola, assumendola su di sé ed elevandola a bandiera di orgoglio. Al giorno d’oggi queer viene utilizzato sia come termine ‘ombrello’, comprensivo quindi di ogni orientamento sessuale o identità di genere considerati non conformi, sia, più nello specifico, per indicare tutte quelle identità di genere che sfuggono alla stringente logica del binarismo, rifiutando le categorie di uomo e donna.
Nella sua personale interpretazione, Murgia definisce il concetto di queerness come “pratica della soglia”. La sua posizione è espressa in maniera sistematica in God save the queer (Einaudi, 2022), saggio in cui la scrittrice mette in collegamento la queerness con la figura di Cristo.
Per sintetizzare, però, possiamo limitarci ad affermare che chi è queer decide di “abitare la soglia” (Dare la vita, p. 29), cioè di ridefinire in maniera costante la propria identità, gettandosi sempre oltre i confini della norma. Queer è chi esprime sé stesso rimanendo sempre fedele alla propria mutevolezza, quindi in accordo a chi si sente di essere in quel preciso momento. La queerness, in ultima istanza, rappresenta una critica radicale al concetto di normalità.


Che cos’è la famiglia queer?
La prospettiva di Michela Murgia parte dalla questione dell’identità personale per virare verso l’ambito relazionale. La famiglia queer è un sistema dinamico: chi ne fa parte sceglie l’altro ogni giorno e le relazioni tra le persone sono più importanti dei ruoli, che vengono assunti e dismessi con l’evoluzione degli individui stessi.
Essere madre o figlio non dipende da alcun vincolo di sangue, ma dalle esigenze e dalla volontà di chi si impegna a costruire quel rapporto. Spiegare la pratica della soglia a livello teorico è un’impresa ardua, che porta con sé il rischio di cadere in fraintendimenti e banalizzazioni.
Murgia stessa afferma, in un’intervista a Vanity Fair, che quello di cui parla è molto più facile da realizzare: come si dovrebbe definire una persona che è stata presente nei momenti fondamentali della propria vita e ti ha sempre aiutato a discernere e a effettuare la scelta più giusta per te? Cos’altro serve per poter chiamare famiglia quell’unione?
L’appropriazione del queer
Se la concezione di famiglia di Murgia lascia sbalorditi per il modo – quasi anacronistico nell’Italia di oggi – in cui riscatta e onora l’esistenza umana nel suo libero fluire, la decisione di caratterizzarla tramite l’aggettivo queer può sollevare qualche perplessità.
Tale termine racchiude in sé una storia di dolore e porta i segni di una vera e propria secessione avvenuta in seno alla comunità LGBT+, che ha visto contrapporsi due schieramenti ben definiti: da un lato le persone omosessuali conformi agli standard culturali dell’America degli anni ’80 e ’90, che ricercavano semplice integrazione all’interno di una società etero-normata; dall’altro tutte le persone ritenute non conformi (drag queen, butch ecc.), sintomo di una degradazione dei costumi che suscitava scandalo nei cittadini per bene.
A seguito dell’odio subito e della crisi dell’AIDS, che aveva convogliato su di loro l’attenzione e la conseguente esecrazione da parte dell’opinione pubblica, queste minoranze sessuali, riunite in movimenti come Queer Nation, hanno cominciato a mettere in atto azioni di disobbedienza civile aggressive e provocatorie. Sono stati i membri più ‘indecenti’, ‘dissoluti’ e ‘degenerati’ a portare avanti il processo riappropriazione di queer.
Il modo in cui Murgia utilizza il concetto di queerness restituisce senza dubbio la critica al binarismo di genere e alla società di stampo patriarcale in esso inscritta. La prima parte di Dare la vita comunica con puntualità e sentimento tutta l’indefinitezza che caratterizza il singolo e gli permette di riaffermare sé stesso ogni giorno.
Nonostante ciò, la lettura queer che Murgia dà della famiglia tradisce in larga misura il dato politico sotteso da quell’aggettivo così sfuggevole ed eloquente allo stesso tempo, forgiato su lividi ed ematomi, su corpi ‘non conformi’ di intere generazioni, rivendicato da coloro che sono stati costretti a vivere sulla soglia di una società che non ne riconosceva l’esistenza.

Maternità e gravidanza
La riflessione di Murgia sulla gestazione per altri (GPA), sviluppata nella seconda parte, prende avvio da un elemento centrale anche nella famiglia queer: la scelta. La volontà di prendersi cura dell’altro scardina la base biologica su cui si fonda la famiglia tradizionale e chiama in causa, con tutti gli interrogativi che si porta dietro, la questione della gestazione per altri.
Il primo obiettivo polemico di Murgia è l’espressione ‘maternità surrogata’, nella quale, secondo la scrittrice sarda, è implicita la considerazione di un legame naturale e inderogabile tra chi porta avanti la gestazione e il nascituro. Murgia precisa però che la gravidanza e l’istinto di maternità sono due cose ben distinte tra loro: la maternità è la volontà di “assumersi la responsabilità genitoriale di una vita altrui” (Dare la vita, p. 65), e in quanto tale non può in alcun caso essere surrogata o trasferita ad altri.
Questa distinzione, già riconosciuta dalla stessa legge italiana che permette l’interruzione di gravidanza o la rinuncia al neonato, mostra che i bambini nati da una gestazione per altri sono figli di un solido desiderio di maternità, di una decisione consapevole che è stata programmata e pianificata.
Questione di classe
Non bisogna credere, tuttavia, che questo sia l’esito principale del ragionamento di Murgia, che cadrebbe così in evidenti semplificazioni e banalizzazioni. Il pensiero che l’autrice articola in queste pagine interroga sé stesso e non arriva mai ad una presa di posizione definitiva, proprio perché considera in profondità e con franchezza le varie contraddizioni insite in questa tematica.
Di primaria importanza è la questione di classe: la maggior parte delle donne non si sottoporrebbe mai a questa pratica nella speranza di un guadagno se non vivesse in stato di povertà. Inoltre, i problemi di disparità economica riguardano anche chi vuole avere accesso a questa pratica, che richiede un grande dispendio di denaro.

In mancanza di risorse ci si rivolge a mercati clandestini, in cui le donne appartenenti a classi subalterne sono disposte ad accettare minori tutele, garanzie e rimunerazioni.
Sfide alla morale
I dubbi di Murgia non finiscono qui, ma proliferano sul versante etico: è giusto alla nascita rifiutare un bambino malato? La gestante può cambiare idea e decidere di interrompere la gravidanza o di tenere il bambino alla fine di essa? La scrittrice sarda non si dimostra indulgente solo con i falsi moralismi di chi solleva come contestazione alla GPA il categorico interrogativo: “Cosa ne penseranno i bambini?”. “Come se ce ne fosse mai importato niente” (Dare la vita, p. 97), replica con schiettezza Murgia, facendo riferimento agli innumerevoli casi in cui i figli concepiti per via ‘naturale’ non rappresentano la benché minima priorità dei loro genitori.
Nell’indagare la tematica della GPA, pur essendone favorevole, Murgia non abbandona mai la sua onestà intellettuale e al tempo stesso non si esime dallo smascherare l’ipocrisia e l’illogicità di varie posizioni contrarie a questa pratica. Anche la seconda parte del libro è impregnata della prospettiva queer, chiave di volta del suo pensiero. Murgia mette le cose in chiaro sin dal capitolo introduttivo:
Forse la mia vocazione a essere me consiste proprio nel domandarmi, con tutti i mezzi condivisi di cui ho il privilegio di disporre, chi sia una madre e mai di chi sia; nel non rassegnarmi all’idea di famiglia a cui mi avrebbero destinata la mera biologia e le leggi dello Stato.
Michela Murgia, Dare la vita.
Chi è una madre, chi è un figlio? Sono emanazioni della libertà umana, della volontà di condivisione e di supporto reciproco. Fa sorridere il fatto che questo libro sia uscito nello stesso giorno in cui papa Francesco ha tenuto un discorso in cui ha definito la GPA una pratica “deprecabile”, da proibire a livello internazionale.
Pensieri in movimento
Dare la vita si può considerare a tutti gli effetti il testamento spirituale di Michela Murgia, anche se lei forse non sarebbe d’accordo. Un testamento sancisce come debba essere divisa un’eredità e a chi debba andare. L’eredità di quest’opera invece è sempre sulla ‘soglia’, rappresenta un invito, uno spazio di discussione.
Quando qualcosa non vi torna datemi torto, dibattetene, coltivate il dubbio per sognare orizzonti anche più ambiziosi di quelli che riesco a immaginare io.
Michela Murgia, Dare la vita (p.16).
La necessità di opere di questo tipo è forte, soprattutto in periodi come questo, in cui il Senato discute una legge che permetta di rendere la GPA un reato universale, perseguibile penalmente anche se praticata all’estero.
La carriera artistica di Murgia si conclude con un radicale inno alla libertà, declinata in tutte le sue forme: libertà di pensiero, di decidere del proprio corpo, di amare chi e come si vuole. Questa attitudine si riflette nelle sue idee, sempre in movimento, destinate a urtarsi con altri pensieri. Idee che vogliono essere messe in crisi, poco importa che ne escano avvalorate o smentite: i processi e le relazioni, con gli incontri e gli scontri a cui portano, sono ciò che conta davvero.
Gioele Marangotto
(In copertina Michela Murgia da Vita.it)
Per approfondire, leggi L’addio a Michela Murgia, di Sara Nizza.