L’antigiudaismo, cioè l’opposizione teologica nei confronti degli ebrei basata sulla loro identità religiosa, non deve essere confuso con un altro termine, antisemitismo, di cui oggi si è tornati a parlare molto in rapporto ai recenti fatti verificatisi in Europa e USA.
L’antisemitismo è storia di questi ultimi mesi. Se ne sente parlare a proposito dei rigurgiti antisemiti tra le strade di Parigi, Lione e Berlino, dove i casi di antisemitismo sono aumentati notevolmente nella settimana successiva agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, ma anche in Austria, Italia, Regno Unito e negli atenei statunitensi.
Parlare di antisemitismo oggi significa evocare una generica forma di ostilità nei confronti degli ebrei e del loro posto nel mondo.
Quando si parla di sionismo, invece, si fa riferimento a quel movimento che ancora oggi intende assicurare alla comunità ebraica il diritto all’autodeterminazione e alla costruzione di uno Stato nazionale nella tradizionale Terra di Israele. L’ideologia sionista sorse alla fine dell’Ottocento in reazione alle ondate di antisemitismo che iniziavano ad attraversare l’Europa centrale, con l’affaire Dreyfus a farvi da pinnacolo.
Tuttavia, c’è un altro termine che più timidamente inizia a farsi strada nei dibattiti pubblici e che, se da una parte si distingue in maniera abbastanza netta dall’antisemitismo, dall’altra si lega a quest’ultimo attraverso un rapporto di derivazione particolare, fatto di rimandi e influenze reciproche: l’antigiudaismo.
Antigiudaismo: nascita di un dibattito
Il dibattito attorno all’antigiudaismo si è acceso soprattutto negli anni Sessanta, sotto la spinta dell’Olocausto e dell’esigenza di misurare le responsabilità delle Chiese cristiane nello sterminio degli ebrei.
La Chiesa cattolica, pur non dichiarandosi direttamente antisemita, tra Otto e Novecento ha comunque supportato una forma di ostilità tradizionale e teologica nei confronti degli ebrei.
Il posto da assegnare all’antigiudaismo nel suo rapporto con l’antisemitismo non ha messo d’accordo tutti gli studiosi.
Tuttavia, si può affermare con certezza che ‘antisemitismo’ è un termine coniato nell’Ottocento europeo per indicare l’opposizione politica al conferimento della cittadinanza agli ebrei in un’Europa che abbracciava ideali liberali; opposizione ispirata dai fomenti razziali e dalle idee pseudoscientifiche del tempo, che postulavano un’inferiorità biologica degli ebrei rispetto alla razza ariana (si legga cristiani bianchi).
In questi anni, il processo che aveva portato gli ebrei a integrarsi nelle Americhe e nell’Europa occidentale conobbe infatti una battuta d’arresto: molti partiti politici dichiararono di voler vincolare questa integrazione al rispetto di alcune particolarissime condizioni; ipotesi di segregazione razziale iniziarono così a farsi strada in Francia e nell’Impero austro-ungarico.
Molti cristiani, però, soprattutto quelli ineducati delle zone rurali, continuarono a seguire la Chiesa cattolica nella sua opposizione agli ebrei basata sulla differenza religiosa tra ebraismo e cristianesimo, e a sposare quindi una logica più antigiudaica che antisemita.
Quel che resta dell’antigiudaismo
‘Antigiudaismo’ è l’espressione che indica l’avversione teologica nei confronti degli ebrei in quanto appartenenti alla fede ebraica.
Secondo lo storico Jonathan Elukin, professore associato di storia medievale al Trinity College di Dublino, diversi studiosi hanno abbozzato una descrizione del concetto di antigiudaismo, anche in relazione a quello di antisemitismo, senza però riuscire a restituirne la complessità e le sottili implicazioni, né a formularne una definizione esaustiva.
Altri, invece, come Rosemary Ruether (Faith and Fratricide: The Theological Roots of Anti-Semitism. Seabury Press, 1974), individuano le radici dell’antigiudaismo nella disputa teologica sorta tra cristiani ed ebrei attorno all’identità di Gesù come Messia, e l’antisemitismo si configurerebbe dunque come la sua espressione sociale.
Lo storico e teologo olandese Heiko Oberman, invece, ritiene che l’antigiudaismo divenne la base del moderno antisemitismo a partire da Martin Lutero, la cui posizione nei confronti del giudaismo oscillò notevolmente nel corso degli anni, passando da un’iniziale relativa indulgenza a un antigiudaismo militante a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento.
Proiettando il conflitto verbale contro il giudaismo sulla comunità ebraica stessa, Lutero finì addirittura per incoraggiare una sistematica espulsione degli ebrei dai territori cristiani.
Per Elukin, tuttavia, l’antigiudaismo così inteso non si configura come un concetto in grado di restituire in maniera esaustiva le complesse e sfaccettate dinamiche relazionali tra ebrei, pagani, cristiani e musulmani.
Il rischio è quello di oscurare pratiche di vita comuni e condivise dalle diverse comunità, che non sempre sono state in conflitto tra loro. Anzi, è quasi impossibile elevare una barriera ermetica a separare i diversi gruppi religiosi, soprattutto nel mondo multiculturale dell’antichità.
Dall’antichità ai primi secoli del cristianesimo
L’ideologia antigiudaica nel mondo antico non influenzava il modo in cui i Greci e i Romani concepivano se stessi. Questi ultimi, in particolare, pensavano al giudaismo come a un sistema di culti e credenze che consideravano bizzarri e ridicoli, e di cui sapevano poco o nulla.
Anche nei primi secoli del cristianesimo e dell’islam i rapporti tra i vari gruppi hanno disegnato uno spazio relazionale ricco e vivace.
Il discrimine tra cristianesimo ed ebraismo è successivo alla morte di Cristo. All’epoca gli ebrei erano gli interlocutori e i seguaci principali di Gesù (egli stesso ebreo), venuto per riscattare le “pecore perdute della casa di Israele” (Matteo 15, 24).
Come fa notare Paolo di Tarso (1 Corinzi 7, 17-24), gli ebrei che aderivano al movimento cristiano non erano tenuti ad abbandonare e a disconoscere tutto quell’insieme di tradizioni, pratiche e ritualità giudaiche, ad esempio la circoncisione: semplicemente, quest’usanza della legge ebraica un tempo considerata un requisito vincolante per la salvezza e la giustificazione davanti a Dio, non costituiva più un‘imposizione necessaria per i fedeli della Nuova Alleanza in Cristo (“La circoncisione non conta nulla e l’incirconcisione non conta nulla; ma ciò che conta è l’osservanza dei comandamenti di Dio”).
Nei Vangeli gli ebrei sono descritti attraverso caricature letterarie che più che riflettere il reale pensiero di Gesù sono specchio delle ostilità presenti ai tempi della loro redazione, ossia tra la fine del I secolo e l’inizio del II secolo d.C.
La distruzione del Tempio ebraico di Gerusalemme, avvenuta per mano delle truppe di Tito nel 70 d.C., doveva essere spiegata e giustificata. Scrivendo a conoscenza del fatto avvenuto, gli evangelisti intendevano presentare Gesù come un profeta che già quarant’anni prima che l’evento avesse luogo metteva in guardia dall’imminente capitolazione di Gerusalemme.
Così, nei Vangeli si può notare una certa tendenza a raffigurare gli ebrei come “scribi e farisei ipocriti”, come in Matteo 23, 13-29 (sono chiamati farisei i rigorosi membri di quel gruppo che predominò nella vita politica e religiosa giudaica negli ultimi tempi precristiani e all’inizio dell’era cristiana). Gli ebrei sono anche descritti come arroganti figli del diavolo che si compiacciono della loro discendenza da Abramo (Giovanni 8, 31-44).
Queste descrizioni enfatizzavano la gravità delle azioni e dei comportamenti condannati che, secondo i redattori, meritavano un giusto castigo divino, come la distruzione del Tempio di Gerusalemme.
L’evento fu infatti salutato dai cristiani come un’azione ispirata dall‘Alto, l’opportuna punizione celeste per il deicidio commesso dagli ebrei.
“Non fare come l’ebreo”: l’antigiudaismo nella Chiesa primitiva
L’antigiudaismo è una logica che ha funzionato sia in presenza che in assenza di ebrei, come un approccio mentale e concettuale che trasformò gli ebrei reali in ebrei ermeneutici, in rappresentazioni simboliche del pensiero.
Nei primi secoli della Chiesa primitiva, i pericoli corsi dal cristianesimo furono infatti letti in chiave giudaica: ipocrisia, carnalità, letteralismo, incapacità di cogliere il vero e profondo significato delle Scritture furono tutti attributi distillati nella figura del giudeo, e “giudaizzare” divenne l’accusa che cristiani scagliavano su altri rivali cristiani, in competizione tra loro per fregiarsi della qualifica di vero e nuovo popolo di Israele.
Il richiamo all’“ebraicità” di pratiche e attitudini cristiane arrivò a sorreggere e giustificare le dispute interne allo stesso cristianesimo.
Origene, teologo e filosofo cristiano di Alessandria, elaborò una tassonomia qualitativa di lettori basata sulle capacità di analisi dei testi sacri, che funzionava più o meno così:
- I giudei, con la loro lettura letterale di ciò che invece è allegorico;
- I cristiani, che praticavano una lettura spirituale appropriata alla solidità della loro fede;
- I sapienti, ossia i cristiani più spirituali e ascetici, erano però gli unici a cogliere l’autentico significato allegorico della Parola di Dio.
La correttezza di ogni interpretazione delle Scritture veniva così valutata mediante un “test diagnostico” che misurava il livello di letteralismo e di cecità giudaiche che potevano corrompere il lettore cristiano.
Il Medioevo: protetti prima, perseguitati poi
È nel Medioevo che la logica antigiudaica diventa produttrice dei suoi effetti più sanguinari. Il rapporto del tutto particolare che i sovrani medievali intrattenevano con gli ebrei generava delle tensioni e delle rivalità tra la comunità dei giudei protetti e i sudditi cristiani.
Seppur sconfitti e umiliati per mano di Tito, gli ebrei godettero a lungo di un regime di speciale tutela accordato loro dai principi europei.
Gli ebrei del Medioevo sono capi di zecca, esattori di tasse, tesorieri, prestatori a interesse invitati dallo stesso potere sovrano a svolgere servizi utili a gestire l’assetto economico dei piccoli stati medievali, in cambio della facoltà di risiedere, pur con molte restrizioni, nello Stato.
In questo periodo i cristiani confezionano e diffondono storie fantasiose per condannare un sistema di potere sovrano poggiato su fondamenta ebraiche.
L’associazione dell’ebreo alla sfera economica toccava delicati elementi di tensione già ben radicati nella tradizione cristiana, che dal Duecento aveva introdotto tra le proprie fila una logica pauperistico-francescana avversa alla società del denaro e del lusso.
Il timore suscitato dalla “seduzione ebraica” dei principi stimolò la diffusione di dicerie, rappresentazioni fisiche e visive del pericolo che i cristiani credevano di star vivendo: gli ebrei furono accusati di profanare le ostie consacrate, di versare e bere sangue umano durante riti religiosi (la celebre accusa del sangue) e di diffondere la peste e altre malattie nei territori cristiani.
Alla pressione generata da simili calunnie i regnanti reagirono muovendosi verso l’aspetto persecutorio della relazione con il giudeo. Invocarono il privilegio di punire anziché quello di proteggere gli ebrei, promuovendo espulsioni, massacri e conversioni di massa.
La persecuzione degli ebrei permetteva ai sovrani di fabbricarsi la reputazione di “cristianissimi” e di rimpinguare le casse dello Stato attraverso la confisca dei beni delle vittime.
Le uccisioni e le conversioni causate dalle persecuzioni spagnole del 1391 trasformarono la demografia religiosa della Penisola Iberica, che fino a quel momento aveva ospitato la popolazione di non cristiani più grande di qualsiasi altra regione dell’Europa occidentale.
È proprio in Spagna che lo scatenarsi di tali violenze coincise con la fine della Reconquista, ovvero di quel lunghissimo e faticosissimo sforzo con cui i sovrani spagnoli riconquistarono e cristianizzarono i regni musulmani di Al-Andalus in territorio iberico.
Il processo culminò nel 1492 con la caduta dell’ultima roccaforte musulmana di Granada. La vittoria de “los reyes catolicos”, come erano chiamati i regnanti Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, fu seguita dal decreto dell’Alhambra, che impose l’espulsione di tutti gli ebrei dai regni spagnoli e dai loro possedimenti.
La collusione tra antigiudaismo e antisemitismo
Nel Rinascimento l’Europa occidentale raggiunse ciò che il Medioevo aveva per lo più sognato: un mondo libero dagli ebrei. Fu in questo periodo, però, che quel sogno di libertà diventò un incubo, e l’Europa cristiana si svegliò ossessionata dalla convinzione di star diventando sempre più ebraica.
Paradossalmente, quelle stesse politiche di conversione di massa che avrebbero dovuto minimizzare la distanza tra ebrei e cristiani resero più sfuggente la differenza tra vecchi ebrei, nuovi cristiani (gli ebrei convertiti) e vecchi cristiani.
Cosa facevano nell’intimo delle mura domestiche quei conversi il cui sincero accoglimento della fede cristiana veniva messo in dubbio? Continuavano forse a celebrare festività giudaiche?
L’incerta pulizia religiosa della società spagnola diede così sostanza a una nuova ideologia della razza destinata ad avere molto futuro. Con la cosiddetta “limpieza de sangre” (purezza del sangue) venne stabilita una differenza qualitativa tra vecchi e nuovi cristiani sulla base di un aspetto esclusivamente razziale.
Per accedere a molte cariche pubbliche e religiose, i cristiani dovevano dimostrare, attraverso un certificato, di non discendere da antenati ebrei.
Giudei e cristiani cominciarono ad essere qualitativamente differenziati sulla base di un aspetto esclusivamente razziale. Antigiudaismo e antisemitismo iniziarono, per la prima vera volta, a toccarsi.
Giudaismo e antigiudaismo come strutture del pensiero
Il caso spagnolo dimostra come l’esito delle tensioni sociali ed economiche accumulate tra cristiani ed ebrei si caricò del linguaggio teologico e religioso proprio dell’antigiudaismo, finendo poi per trasfigurarsi in una nuova forma di ostilità che, toccando le corde della razza, del sangue e della purezza biologica, rappresentò l’anticamera dell’antisemitismo.
Come scrive David Nirenberg, il giudaismo è diventato una categoria, un sistema di idee e di attributi, un habitus mentale con cui spieghiamo il mondo e le sue storture: il denaro e il capitalismo sono spesso ancora oggi percepiti come concetti ebraici, così come l’usura, la parsimonia, l’avidità.
La storia del pensiero sul giudaismo è innanzitutto la storia di un intenso riflettere su noi stessi e sulle nostre abitudini di pensiero. Il senso che un popolo ha del proprio posto nella storia può essere descritto attraverso la tradizionale opposizione agli ebrei e al giudaismo.
Oggi si tende e ricondurre a forzata unità e analogia le articolazioni dei termini antigiudaismo e antisemitismo, causando sovrapposizioni concettuali che andrebbero evitate. Complice la ruggine del tempo che si è incrostata sui termini e la mancanza di politiche di approfondimento linguistiche e concettuali.
È pur vero però che, quando si ha a che fare con concetti e strutture del pensiero che hanno origini ataviche, la coerenza dei percorsi logici tende inevitabilmente a incresparsi: le forme di ostilità descritte, pur rimanendo distinte nella sostanza e nel tempo, finirono per interagire e per alimentare assieme timori e pregiudizi in una società cristiana incapace di pensarsi assimilata all’ebreo.
Alexandra Bastari
(In copertina, foto tratta da Alchetron)
Traduzione della Bibbia utilizzata per le citazioni: Nuova Diodati.
Fonti e approfondimenti:
- Nirenberg David. Antigiudaismo. La tradizione occidentale. (Roma: Viella, 2013) [monografia]
- Elukin Jonathan. Anti-Judaism (in Key Concepts in the Study of Antisemitism, a cura di S. Goldberg, S. Ury e K. Weiser, London 2021), pp.13-24 [articolo]
- Beiser Frederick. Emancipation (in Key Concepts in the Study of Antisemitism), pp. 93-104 [articolo]
- Destro Adriana e Pesce Mario. L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita. (Milano: Mondadori, 2008) [monografia]