Con l’ampia diffusione dei tatuaggi degli ultimi anni, si è aperto un dibattito generazionale sulla questione: si tratta di un gesto carico di significato o di una moda superficiale? Cerchiamo la risposta ripercorrendo la storia di questa forma d’arte.
Stavo guardando le ragazze in prima fila, non ho visto nessuna tatuata. A me, i tatuaggi fanno schifo, ho una sensazione di sporco. Ci sono alcuni influencer con tatuaggi sulle orecchie, fanno schifo due volte.
Vincenzo De Luca
Queste sono le parole pronunciate da Vincenzo De Luca, classe 1949 e attuale presidente della regione Campania, sul palco del liceo Torquato Tasso di Salerno, con tanto di ovazione dal pubblico.
Tralasciando il fatto che un politico dovrebbe occuparsi di tutto fuorché dei corpi delle liceali, perché i tatuaggi sono, in ambito estetico, ancora un tema così divisivo tra le generazioni?
La nascita del tatuaggio in Occidente
Purtroppo per De Luca, le prime a esibire dei tatuaggi furono proprio delle donne, e non delle donne qualsiasi: delle dee.
Come ha spiegato l’antropologa Michela Zucca nel suo libro I tatuaggi della Dea (Venexia, 2015), i segni a zig-zag e a spirale posti sulle famose veneri preistoriche, che rappresentavano divinità madri, erano cosiddetti segni di scarificazione.
Si tratta di una tecnica con cui la pelle veniva incisa con dei tagli, anziché a punti, da cui derivò il tatuaggio.
Possiamo quindi dedurre che i fedeli, prima di tutto donne, sottoponessero il loro corpo a questo genere di incisioni. Inoltre, le sacerdotesse-sciamane furono anche le prime tatuatrici.
Ma le incisioni non furono solo una questione femminile: l’uomo di Similaun, una mummia che risale a circa cinque milioni di anni fa, esibiva ben sessanta tatuaggi distribuiti in tutto il corpo.
Fra i Celti, gli Illiri e i Traci, i tatuaggi rivelavano il clan di appartenenza, il nome e lo status sociale. Per i Greci e i Romani, invece, il tatuaggio era un tabù, in quanto contrastava l’ideale di bellezza della kalokagathia.
Con l’avvento del cristianesimo, il tatuaggio iniziò a costruirsi la fama negativa che ancora oggi lo accompagna: era diffuso infatti tra i ceti più abbietti della società, come pagani, proletari e delinquenti, e fu vietato per molto tempo, nonostante spesso si trovassero frati-tatuatori nei luoghi di pellegrinaggio e in Terra Santa.
Cos’è cambiato negli ultimi secoli?
Alla fine dell’Ottocento, i marinai olandesi erano soliti realizzare un tatuaggio di buon auspicio in ogni porto in cui si fermavano: uno nel porto di partenza, uno a destinazione e il terzo, il più desiderato, una volta tornati a casa. Da qui deriva la diceria, diffusa ancora oggi, che i tatuaggi in numero pari portino sfortuna.
Negli anni Venti del secolo scorso, i circhi americani erano soliti assumere persone con il corpo interamente tatuato come attrazione; mentre, negli anni Settanta e Ottanta, i giovani che aderivano al movimento punk adottarono il tatuaggio come simbolo di ribellione ai precetti sociali.
Il dissenso di tua madre, la critica di tua nonna
Come abbiamo potuto vedere, i tatuaggi sono tutt’altro che un’invenzione recente. Allora perché le vecchie generazioni inorridiscono ancora all’idea che figli e nipoti possano decidere di incidere la propria pelle?
Escludendo i rischi sanitari, praticamente nulli se si seguono le norme attualmente vigenti, e tralasciando stereotipi che associano il tatuaggio al carcere e ad altri stili di vita non conformi alle regole della società, una buona responsabilità è da attribuire anche ai tabloid.
Questi giornali tendono, infatti, ad amplificare stereotipi e pregiudizi già radicati attraverso titoli allarmistici: “Bagno in mare dopo il tatuaggio. Muore per colpa di un’infezione” (Il Giornale), “Mi sono riempita il corpo di tatuaggi e… tornassi indietro non lo rifarei” (Marie Claire), “112 esempi tra i tatuaggi più brutti e fatti male nella storia” (Keblog).
Insomma, in una porzione ancora molto ampia dei media, il tatuaggio è comunque oggetto di disgusto, scherno e paura. In più, altri fattori alimentano le critiche: farsi un tatuaggio implica il dover stare fermo, entrare in stretto contatto con una persona probabilmente sconosciuta, sopportare una dose più o meno variabile di dolore e ritrovarsi con un segno che altera in modo permanente il proprio aspetto.
Nonostante sempre più giovani si tatuino, ci sarà sempre chi continuerà a vederli come individui eccentrici che sembrano trasgredire regole non scritte.
Perché tatuarsi?
Quando ho deciso di farmi un tatuaggio, sono dovuta andare contro il parere dei miei genitori, che proprio non riuscivano a capire perché volessi avere dei disegni permanenti sul corpo.
Personalmente, ho iniziato a tatuarmi per ricominciare ad amare un corpo che mi aveva creato tanti problemi in passato. Da quella decisione, il tutto si è trasformato in un modo per fissare ricordi e caratteristiche della mia persona.
Per molti miei coetanei, i tatuaggi sono stati un modo per imprimere su sé stessi traguardi e motivi di orgoglio: per esempio, T., dopo aver superato un grande ostacolo, ha lasciato alla sua pelle il compito di ricordarle l’importanza di prendersi cura di sé. D’altra parte, invece, G. ha sfruttato l’inchiostro per celebrare lo splendido rapporto che la lega ai suoi genitori.
Tuttavia, oltre al loro valore emotivo, i tatuaggi dicono molto anche sull’identità e sui valori di una persona: per esempio, per R., i tatuaggi sono stati il “memorandum” delle “lezioni indelebili” che vuole che l’accompagnino per tutta la vita; mentre per C., un modo per rendere il proprio corpo “custode” della sua unicità.
In conclusione, i motivi per cui i giovani si tatuano sono molteplici e, al contrario di quanto si crede comunemente, nessuno di questi è superficiale. Spesso vengono espressi giudizi affrettati e basati su stereotipi, perfino da parte di lungimiranti politici e uomini di Stato, che chiaramente non sono in grado di riconoscere l’aspetto profondamente simbolico celato dietro al gesto.
Maria Teresa Luordo
(In copertina, foto di Felix da Pixabay)
Per approfondire, leggi l’intervista a Michele Volpi, il tatuatore scientifico, a cura di Valeria Zaffora.