Nelle ultime settimane sta spopolando Threads, un nuovo social di proprietà Meta che si presenta come un’estensione di Instagram molto simile ad X. Le persone si sono iscritte in massa alla piattaforma, facendola diventare presto un fenomeno virale. In un periodo in cui nascono sempre più social, che ruolo possiamo avere per evitare in un circolo vizioso di tentazioni e passività? La filosofia, tra autori moderni e passati, ci dà qualche risposta.
Che cos’è Threads?
Partiamo dall’inizio: che cos’è Threads? L’applicazione, di proprietà Meta Platforms, è un social network di microblogging molto simile a Twitter, dove gli utenti possono condividere (privatamente o pubblicamente) soprattutto note di testo, ma anche foto, video ed audio, oltre che mettere ‘mi piace’ e ripostare i contenuti altrui.
L’app di Zuckerberg sta letteralmente spopolando nelle ultime settimane, dopo aver raggiunto i 30 milioni di iscritti a un giorno dalla sua uscita in oltre trenta Paesi.
In questi, era stato reso disponibile già a luglio, mentre in Italia è stato introdotto ufficialmente giovedì 14 dicembre 2023. Dopo le parabole di social ‘sperimentali’ come ClubHouse e BeReal, dunque, una nuova applicazione atterra sul pianeta sempre più popolato delle distrazioni.
L’applicazione, anche a detta di molti suoi utenti, è effettivamente molto accattivante. Il vasto mondo di Threads permette di avere continuamente contenuti istantanei dei propri profili seguiti e, contestualmente, di scoprire ogni secondo cosa fanno completi sconosciuti.
Inoltre il social rende possibile l’invio di audio anche a persone famose, rendendo la comunicazione con queste molto più diretta. Una frontiera del tutto nuova, questa, capace di intrattenere e non poco i frequentatori dell’app.
Non sappiamo ancora quanto durerà Threads, ma le premesse per un’app di successo ci sono tutte.
Più di un semplice social
Fin qui, Threads appare come un semplice social. E in fondo, lo è.
Se però consideriamo che fa parte di un ambizioso progetto più ampio di Meta, volto a unire tutti i social in un unico continuum, qualche riflessione in più sorge.
Ci troviamo sempre più immersi, infatti, in un ambiente costituito da app, notifiche, ‘mi piace’ e condivisione sfrenata.
Una condizione che sta diventando sempre più totalizzante, dal momento che a tratti passiamo più tempo online che nella vita quotidiana là fuori.
Ricerchiamo ossessivamente attenzioni altrui pubblicando di continuo e, al contempo, siamo vittime di una noia esistenziale che ci porta a cercare un’evasione illusoria nelle realtà alternative della rete.
Ma è solo colpa dei social? Assolutamente no. Lasciarsi andare alle classiche e semplicistiche narrazioni catastrofiche sui social maligni non porta a nulla. A onor del vero, la tendenza all’escapismo negli stimoli esterni è una tendenza piuttosto generale nell’odierna società delle distrazioni.
Specialmente tra le nuove generazioni, per sfuggire all’incertezza del futuro e alla complessità imposta dalla vita, si ha la tendenza a fuggire nelle feste della movida sfrenata, o ancora nei videogiochi, nelle serie tv, nelle droghe o nel possesso di beni materiali effimeri.
Alla luce di queste considerazioni, si potrebbe dire che sono i social a trovare un terreno fertile nelle nostra società, e non il contrario.
Meno responsabilità, più pigrizia
Tornando al caso specifico dei social network, se ci si lascia assorbire dalle loro tentazioni, diventa facile conformarsi al meccanismo degli algoritmi che attraverso consigli basati sulla nostra attività online, di fatto, sceglie per noi. Noi pensiamo che l’algoritmo ci aiuti nel processo di selezione e che l’ultima parola spetti a noi, ma purtroppo non è così.
Byung-Chul Han, nel suo lavoro Razionalità digitale. La fine dell’agire comunicativo, (goWare 2014) ricorda, sulla scia di Eli Pariser, che l’azione degli algoritmi elimina la riflessione consapevole con il processo delle filter bubble (pp. 17-23; cf. l’introduzione di Ubaldo Villani-Lubelli).
Le bolle digitali, costruite apposta per noi, ci trovano sulla base dei nostri interessi. I nostri click permettono alle aziende di proporci ciò che cerchiamo, illudendoci di essere padroni della nostra selezione finale: un problema da non sottovalutare dato che intacca la nostra personalità e la nostra autonomia.
Come afferma Byung-Chul Han nello Sciame, al giorno d’oggi siamo talmente abituati a ricevere così tanti stimoli informativi che abbiamo atrofizzato le nostre capacità di spirito critico.
Secondo il filosofo sudcoreano, addirittura, molte persone avrebbero addirittura sviluppato l’IFS (Information Fatigue Syndrome), cioè a dire la sindrome dell’affaticamento informativo.
Questa ‘patologia’ porterebbe ad una vera e propria paralisi della capacità di analisi e ad una rinuncia totale al senso di responsabilità. Quest’ultima, infatti, si baserebbe proprio sulla possibilità di selezionare l’essenziale dal non essenziale. Un aumento delle informazioni, infatti, non porta ad una maggiore conoscenza, anzi: è la negatività ad essere produttiva e a dare valore a ciò che invece conta.
Troppa informazione, al contrario, porta ad essere meno incerti, meno responsabilità e, contestualmente, meno inclini alla complessità e alle decisioni che danno tempo.
Identità disperse nel collettivo
Sempre in Razionalità digitale si parla della teoria di Geert Lovink secondo cui, sui social, si verificherebbe il peculiare fenomeno dell’autorappresentazione e riflessione di sé: postando sempre di più – spesso e volentieri anche aspetti irrilevanti delle nostre vite – le persone riconfermerebbero una loro identità, tipicamente basata su canoni di comportamento fissati dall’esterno.
Si può dire infatti che la rete raccoglie una sorta di “sapere assoluto” hegeliano (per usare un termine del saggio) grazie ai big data. Le tracce di ciò che facciamo in rete, infatti, descrivono perfettamente i nostri comportamenti e permettono di capire in anticipo future scelte e aspettative.
In rete troveremo dunque la volontà collettiva più vicina alla nostra, a scapito di quella interiore. Sulla base di stimoli esterni, penseremo di aver trovato la nostra identità autonomamente.
La realtà, però, sarà ovviamente ben diversa.
I media sociali ritraggono la società e in questo modo portano alla luce lo spazio inconscio del sociale.
Byung-Chul Han, Razionalità digitale. La fine dell’agire comunicativo. (p. 51)
Cos’è Threads? “Nello sciame” dei social
Ma cosa attira il nuovo homo digitalis? Secondo il filosofo lo sciame della rete, cioè quella massa amorfa e irregolare di individualità scollegate che badano solo a sé stesse (nel saggio Nello sciame [Nottetempo 2015] si fa un parallelismo con gli hikikomori). In questo senso, non riconoscendo più l’altro e spersonalizzandolo, si perderebbe, tra le tante cose, la cultura del rispetto, portando a fenomeni come quelli delle shitstorm.
Più in generale, la rete diventa il regno dell’indignazione gratuita, definita dall’autore come un’ira improduttiva, in quanto basata esclusivamente sulle cura di sé e non su un sentimento comune (o “Noi stabile”) capace di portare cambiamento.
Staremmo dunque vivendo non più un’età delle folle, come aveva ipotizzato Gustave Le Bon nel 1895, ma una in cui prevalgono, appunto, questi sciami senza una voce unica e composti da tanti “Qualcuno anonimi”.
Un simile spazio, nel quale identità privata e pubblica si fondono senza distinguo, è di forte attrazione per le persone. Per Byung-Chul Han, in una certa misura, può avere tratti positivi e fortemente democratici (idea centrale nel saggio Razionalità digitale). La rete, infatti, ingloberebbe in una sintetica “volontà generale” rousseauiana interessi, paure, necessità e inclinazioni.
In ogni caso, nello sciame le persone tendono all’individualismo e contemporaneamente hanno l’impressione di unirsi in una massa garante di agognate conferme.
Un simile meccanismo, secondo Byung-Chul Han, condurrebbe l’uomo all’illusione di formare in rete un contropotere basato su un’autonomia della moltitudine, ma in realtà si tratterebbe di una forma di auto-sfruttamento.
Ciascun individuo, di fatto, sarebbe vittima della sua stessa individualità.
Un uomo più debole
Per Flusser, citato da Byung-Chul Han nel suo lavoro Razionalità digitale precedentemente ricordato, l’uomo, non agendo più concretamente, ma dedicandosi “alle cose immateriali”, diventerebbe utopicamente un homo ludens; cioè a dire un uomo che, lavorando, di fatto ozia. Byung-Chul Han, invece, si oppone a quest’idea, sostenendo che l’uomo, in una simile condizione, in realtà lavorerebbe più di quanto non faccia già.
Il riposo, infatti, diventerebbe una fase ulteriore del lavoro: l’homo digitalis, avendo i suoi dispositivi sempre a portata di mano, ne sarebbe continuamente schiavizzato, non trovando mai il tempo per l’ozio. Comunicare continuamente significherebbe digitare, che a sua volta, etimologicamente, vuol dire ‘contare‘, termine associabile proprio alla categoria del profitto lavorativo.
‘Contare’, ovvero giocare con le dita, diventerebbe più importante di ‘raccontare’, ovvero fare la storia e agire. L’homo digitalis, come detto anche in precedenza, è dunque un uomo passivo.
Un uomo sempre più soggetto alle logiche dell’auto-sfruttamento è più incline ad isolarsi e diventare più aggressivo ed è soggetto ad una nuova forma di prigionia e, conseguentemente, di alienante disumanizzazione. Una condizione, questa, che sarebbe caratterizzata da una comunicazione spettrale tra gli individui.
L’immaterialità delle informazioni sostituirebbe la concretezza delle cose, convenzionalmente dotate di senso. La perdita di senso, a sua volta, sarebbe la causa della viralità: scegliamo i contenuti più facili e che si diffondono naturalmente, in uno spazio vuoto, trasparente e, di conseguenza, amico della velocità di trasmissione.
La coscienza: il vero antidoto per l’incertezza
L’incertezza è data dalla nostra impossibilità di scelta. Non avere il controllo delle nostre intenzioni ci espone al caso poiché ci affidiamo all’esterno, che in quanto Altro sfugge al nostro controllo. Non facendo mai affidamento su noi stessi, quindi, saremo sempre in balìa del destino.
Senza rendercene conto, cercando le risposte nella rete e nei suoi contenuti non risolviamo i dubbi che ci accompagnano nella nostra vita. Scrollare su TikTok, mettere like o dislike a foto di sconosciuti su Tinder, continuare ad aggiornare il feed di Instagram o consumare ingenti quantità di video o serie tv ci dà l’aspettativa di trovare lo stimolo ultimo, quello della completa soddisfazione. Ma è un’illusione bella e buona.
Molto diverso, invece, è fornire un apporto personale online, lasciando una traccia di sé. Guardando alla propria interiorità, infatti, ci renderemmo conto della nostra perenne insoddisfazione e, forse, ridurremmo enormemente sprechi di tempo ed energie smettendo di essere vittime di automatismi acritici.
Anil Seth, nel suo libro Come il cervello crea la nostra coscienza, spiega proprio questo: scegliere consapevolmente vuol dire avere una ed una sola esperienza cosciente tra le tante possibili, riducendo l’incertezza. Riappropriarsi di questa fondamentale funzione cognitiva implica un ritorno al controllo e la fuga da ciò che Byung-Chul Han definisce psicopolitica.
Con questo termine, infatti, si farebbe riferimento alle operazioni con cui le grandi aziende tecnologiche, con i loro modelli psicometrici, controllano il nostro inconscio e, in ultima istanza, le nostre scelte.
E che cosa possiamo fare concretamente?
Sfuggire alle tentazioni non è facile, ma bisogna provarci. Non si tratta di opporsi a nemici immaginari, né tantomeno di demonizzare completamente i piaceri della tecnologia. Semmai, è una sfida finalizzata alla crescita della propria personalità, in un’epoca che spesso e volentieri fa di tutto per impedirlo.
Riuscire a scegliere consapevolmente è un atto di libertà e un primo passo verso l’autoaffermazione. Nostro compito, quindi, è quello di ritrovare la volontà di potenza, per usare un’espressione cara ad Adler e Nietzsche: solo con uno spirito attivo e, in un certo senso, creativo, potremo emanciparci.
Ulisse, nell’Iliade di Omero, non è immune al canto delle sirene. Come qualsiasi umano lo sente e si lascia sedurre, ma sceglie consapevolmente (o meglio, fa sì che non possa scegliere) di non tuffarsi in mare.
Non si dimentica il motivo del suo viaggio e, in ultima analisi, sé stesso. Non basta sopprimere le tentazioni se non comprendiamo fino in fondo perché conviene farlo: solo con una simile consapevolezza, infatti, potremmo affacciarci sulle tentazioni senza il rischio che queste ci assorbano.
1837. Foto: Wikimedia.
Per farlo dobbiamo cominciare dalla nostra quotidianità. La prossima volta che ci ritroveremo a studiare per un esame ostico e poco gradito, ad esempio, potrà essere una buona idea quella di riflettere quando sentiremo arrivare una notifica sul nostro cellulare: se aspetto a guardare, che cosa ci guadagno?
Forse un risultato migliore nella prova, o forse, se non quello, la consapevolezza di essere ancora padroni delle proprie intenzioni. Una vittoria, in fondo, decisamente più importante.
Martino Giannone
(In copertina, elaborazione grafica a partire da input dell’IA con i loghi di Threads, Instagram e Whatsapp)
Che cos’è davvero Threads – Una minaccia al nostro potere di scelta? è un articolo di Martino Giannone che parla di social e dei problemi correlati. Leggi anche l’intervento di Maddalena Petrini, e quello di Camilla Massa.