Francesco Cavestri, classe 2003, è un giovane pianista e compositore bolognese, talento in erba della musica jazz, ma non solo. Cavestri ha all’attivo già la pubblicazione di un album, Early 17 (2022), e la partecipazione a rassegne prestigiose. Il 22 dicembre esce il suo singolo Distaccati, prima traccia dell’album IKI – Bellezza Ispiratrice, in uscita il prossimo 19 gennaio.
Francesco Faccioli: Francesco [Cavestri], comincio con una domanda che in tanti, immagino, ti avranno fatto nel corso degli anni: perché proprio il jazz? E perché non la musica pop, per esempio, o la classica?
Francesco Cavestri: La risposta è molto semplice. Perché il jazz è il genere, forse insieme alla musica classica, che trascende di più l’aspetto meramente musicale: studiare e suonare il jazz ti avvicina a una prospettiva diversa sulla vita.
Il nocciolo di questo genere, alla fine, è l’improvvisazione. Il termine, però, è riduttivo, perché quando sali sul palco ciò che crei è piuttosto un dialogo con gli altri strumenti: continua mutazione e variazione, del tono di voce, della gestualità, della dinamica e della velocità.
Si potrebbe dire che anche noi adesso, mentre parliamo, stiamo improvvisando un jazz a due voci. Io conosco qualcosa di te e tu conosci qualcosa di me: condividiamo le misure di uno standard e i cambi accordali. Ma tutto ciò che va a riempire questa cassa di elementi base lo scegliamo da soli, sul momento.
Ed ecco perché nel jazz le dissonanze, che di solito gli altri generi musicali utilizzano di sfuggita, diventano proprio sistematiche: perché ogni improvvisazione è unica, è un’esperienza nuova e irripetibile, che si costruisce assieme ad ogni ascolto.
F.F.: Parlando di ascolti, qual è stato il tuo colpo di fulmine con questo genere?
F.C.: Sai, dovrei prepararmi una risposta migliore a questa domanda… ogni volta me ne esco con un titolo che, per gli appassionati di jazz, è una banalità.
F.F.: …e perché proprio Kind of Blue?
F. C.: Esatto! Ma prometto, dalla prossima volta, di impegnarmi a cercare una risposta migliore.
F.F.: Quanti anni avevi quando hai scoperto quest’album?
F.C.: Avevo dodici anni, ero ancora alle medie, le medie musicali, e il mio insegnante di pianoforte, vedendomi improvvisare su brani dei Coldplay e dei Rolling Stones, mi ha consigliato di ascoltare Bill Evans: un pianista straordinario, con una formazione classica e un timbro dall’eleganza inconfondibile. Da lì a Miles Davis, naturalmente, il passo è stato breve.
Tra l’altro, lo scorso 9 settembre mi sono esibito in Piazza Maggiore, a Bologna, all’interno della rassegna La strada del jazz (alla fine dell’evento è stato premiato come giovane jazzista ndr), che quest’anno ha celebrato, per l’appunto, Bill Evans. Così, durante l’esibizione, con il mio trio abbiamo arrangiato un tributo in suo onore, unendo due dei suoi brani più famosi e un campionamento che la musica hip hop ha tratto dalla sua discografia.
F.F.: Durante gli anni del liceo, è stato difficile per te conciliare studio scolastico e passione per la musica? Gli insegnanti ti hanno capito, ti hanno supportato?
F.C.: Hai presente La grande bellezza di Sorrentino, vero? Ricordi quella scena in cui l’artista performer sbatte la testa contro il muro, chiedendo a Jeff Campardella: “Ti è piaciuta la performance?”, e lui risponde: “A tratti”? Ecco, i miei professori mi hanno capito, sì; ma ‘a tratti’.
Ma d’altra parte anche tu li conosci, hai fatto il Galvani (noto liceo di Bologna ndr), giusto?
F.F.: A dire il vero ho frequentato il Minghetti (altro liceo di Bologna, acerrimo rivale del precedente ndr)…
F.C.: Beh, allora l’intervista possiamo anche chiuderla qui! (ride) Scherzi a parte, devi sapere che ho fatto i primi due anni di liceo in contemporanea con i corsi pre-accademici del conservatorio: mi capitava spesso di fare la spola tra l’uno e l’altro, per frequentare i corsi mattutini.
E mi ricordo che una volta, mentre stavo preparando le mie cose per uscire in anticipo (chiaramente avevo il permesso per farlo), una professoressa bravissima, ma molto impegnativa, mi guardò e mi disse: “Sai che non ce la farai?”.
In ogni caso, il Covid, avendo eliminato l’obbligo di frequenza alle lezioni del conservatorio, mi ha aiutato molto a non perdere troppe ore al liceo, permettendomi di gestire entrambi i percorsi parallelamente e arrivare alla laurea al conservatorio a luglio 2023.
F.F.: Anche così, però, la tua agenda era tutt’altro che vuota…
F.C.: Hai ragione, ma sai che c’è? Io penso che più cose fai, meglio è: ho sempre guardato con scetticismo quelli che agli open day dicevano: “Se vuoi entrare al classico, devi lascare tutti gli sport e tutte le attività parallele”.
Non è assolutamente vero perché, se la passione c’è, e se sei disposto a fare dei sacrifici – ad esempio limitare uscite e tempo libero –, un equilibrio si trova sempre.
F.F.: Per quanto riguarda invece il conservatorio Martini e, più in generale, la città di Bologna, come ti sei trovato? Ci sono spazi dedicati alla musica jazz in città?
F.C.: Tantissimi. Bologna è una città profondamente jazz, sotto ogni punto di vista. Tra gli artisti, mi piace ricordare, in questa occasione, il nome di Jimmy Villotti, scomparso pochi giorni fa: uno dei più grandi chitarristi della sua generazione. Anche gli spazi per esibirsi sono tanti: il Bologna Jazz Festival, uno dei più importanti eventi a livello italiano; La strada del jazz, che abbiamo già citato; e anche la rassegna Oltre il giardino, in Piazza Carducci, il Bravo Caffè, la Cantina Bentivoglio…
Anche il conservatorio è pieno di stimoli: è lì, ad esempio, che ho trovato un grande insegnante come il maestro Teo Ciavarella, un pianista che ha suonato e collaborato con Lucio Dalla, Virginia Raffaele, Vinicio Capossela… alla fine, Bologna è ancora una fucina di grandi talenti musicali. E noi siamo tutti, in qualche modo, figli delle osterie di Guccini, e degli altri cantautori.
È molto interessante questa città, soprattutto la sua scena giovane, che si esibisce in club più underground e che sperimenta questi nuovi generi tra il jazz, l’hip-hop e la musica elettronica.
F.F.: Proprio di questi generi ti occupi nella tua tesi di laurea, dove li hai definiti “ramificazioni di una musica universale”: ci spieghi meglio che cosa intendi dire?
F.C.: Ci sono due ragioni per cui parlo di musica universale: una è di tipo squisitamente musicale: il jazz è quel genere che, come ha detto Herbie Hancock (uno dei più grandi pianisti jazz di sempre ndr), ha più di tutti prestato se stesso ad altri generi, e che a sua volta ha preso in prestito da altri generi.
E come potrebbe essere altrimenti? Il jazz nasce dall’incontro tra gli spiritual e il blues, tra il sacro e il profano, con un apporto decisivo anche della musica classica europea per ciò che riguarda il contrappunto. Tutte le armonie che sono presenti nel jazz derivano da Bach, dal Romanticismo europeo; e nel jazz tutto questo bagaglio culturale si fonde in una maniera nuova, inedita, incredibile.
L’hip hop e la musica elettronica, che a prima vista potrebbero sembrare lontanissimi dal jazz, a guardare bene non sono così distanti: il primo è figlio dell’incontro tra il jazz stesso e la spoken word dei quartieri più disagiati dell’America di cinquant’anni fa; e la musica elettronica, con la sua ambizione di usare quattro forme d’onda per creare qualsiasi tipo di suono esistente nell’universo, condivide col jazz un potenziale espressivo (espansivo) immenso, teoricamente illimitato. Quando parlo di musica universale, sul piano teorico, intendo questo.
C’è poi un altro aspetto, di carattere geografico: il jazz è, insieme alla musica classica, quel genere che, ovunque tu vada nel mondo, viene praticato. Brasile, Venezuela, Stati Uniti, Corea, Giappone: dovunque c’è un jazz club dove un jazzista può entrare e – senza conoscere la lingua, il nome, il volto di nessuno – mettersi a suonare con qualcuno. Se ci si ferma a pensare, questa connessione, questa condivisione che solo il jazz sa creare è pazzesca.
F.F.: Nel 2022 hai cominciato uno dei progetti (finora!) più ambiziosi della tua carriera: l’album Early 17, il tuo disco d’esordio, con nove tracce. Quanto è stato difficile cimentarti in questa impresa? Che cosa ti ha dato?
F.C.: Registrare Early 17 è stato fantastico: è la cosa che mi ha fatto capire che voglio fare questo nella vita. Certo, suono da quando ho 4 anni, ho fatto le medie musicali, tanti anni di pianoforte classico, ho fatto il conservatorio… ma prima dell’album la musica rimaneva solo una grande passione, senza alcuna pretesa di diventare il progetto di una vita.
E invece, a gennaio 2021…
F.F.: 2021? Ma il disco non era uscito a marzo 2022?
F.C.: E invece hai capito bene. I tempi di lancio possono essere lunghi, e a volte un album che si registra a gennaio 2021 può tranquillamente uscire a marzo 2022.
Comunque, ti stavo dicendo che, prima di Early 17, avevo suonato parecchio, tra date e locali, senza però entrare in un vero e proprio studio di registrazione. E invece varcare quella soglia, circondato da tecnici, monitor, dati, suonare avendo un riscontro immediato di quello che facevo, costruire un progetto che sotto ai miei occhi, immaginarmi il titolo di copertina, le presentazioni, l’uscita dei singoli…insomma, c’è tutto un percorso di idee che ho cominciato a fare, e che mi ha davvero cambiato prospettiva.
F.F.: Parlando invece di persone ed esperienze ‘extra’, che cosa ti porti dietro nel tuo percorso artistico?
F.C.: Di sicuro le collaborazioni con alcuni giganti del panorama italiano con cui ho avuto l’onore di suonare. Due nomi su tutti: Paolo Fresu e Fabrizio Bosso, assieme a cui ho registrato In the Way of Silence. Se il jazz, come ho detto prima, è anzitutto dialogo, ‘parlare’ con maestri di questo calibro è un’esperienza che arricchisce per sempre.
Paolo Fresu, oltre ad avermi invitato per due anni consecutivi (2022, 2023) a partecipare al festival Time in Jazz da lui diretto, è anche presente in una traccia del mio album in uscita; andare in studio con un artista come lui è stata una grande emozione e un’ulteriore occasione di crescita.
D’altra parte, mi è sempre piaciuto affiancare l’attività concertistica a quella divulgativa: ogni volta che ne ho l’occasione, propongo, prima del concerto, una ‘presentazione musicale’. Una delle ultime, ad esempio, si chiama Jazz e Hip Hop, due generi fratelli, e affronta il semisconosciuto rapporto di parente che, come prima ti accennavo, lega questi due generi.
F.F.: Francesco, solo un’ultima domanda. Venerdì 22 dicembre esce questo il tuo nuovo singolo Distaccati: ennesimo frutto di una contaminazione, in questo caso con il mondo del cinema, e con un gigante come Fellini. Ci racconti com’è nata questa idea?
F.C.: Volentieri, anche perché la storia è, potremmo dire, una storia ordinaria, ‘di tutti i giorni’, ma non per questo meno interessante. Il 26 agosto del 2022 giocando a basket mi rompo un piede: devono operarmi, e passo qualche notte in ospedale.
Approfitto della sosta forzata per recuperare qualche classico del cinema, e decido di vedere La dolce vita, di Federico Fellini. Arriva il famosissimo monologo di Steiner, lo conosci? È dalle ultime parole del monologo che nasce tutto: “Dovremmo riuscire ad amarci tanto da vivere fuori del tempo, distaccati…distaccati…”. Questa parola mi è risuonata a lungo nell’animo. Ed è in quel momento che ha cominciato a prendere forma Distaccati.
Il pezzo è molto suggestivo e introspettivo, una ‘suite’, potremmo dire, di suoni elettronici. Si apre poi una sezione più ritmata, squisitamente elettronica. Il progetto di Distaccati si collega da vicino al nome e al concetto dell’album: Iki – Bellezza Ispiratrice, che uscirà il prossimo 19 gennaio, preceduto da un altro singolo in uscita il 5 gennaio, che presenta la collaborazione di Paolo Fresu e che dà il nome all’album, IKI – Bellezza Ispiratrice.
Devi sapere che la forma filosofica dell’iki si divide in tre parti: la prima è la seduzione, in particolare nel rapporto tra l’uomo e la geisha.
La seconda parte riguarda l’aspetto spirituale, dopo che la seduzione è conclusa.
Il terzo e ultimo punto, invece, è il distacco, la rinuncia, che non è una rinuncia ascetica e ‘negativa’ al mondo, ma un invito a valutare il bene e il male che accadono nella vita di tutti i giorni da una prospettiva più larga, più rigorosa – più distaccata, appunto.
Aprire l’album con Distaccati, oltre a omaggiare un mondo del cinema che amo sia sotto il profilo musicale che da un punto di vista visivo, è una sorta di tecnica di composizione circolare, ad anello.
F.F.: In critica letteraria si parlerebbe di Ringkomposition.
F.C.: Esatto, potremmo dire così. Distaccati è un po’ come l’uroboro che si morde la coda: la prospettiva necessaria per cominciare il viaggio all’interno dell’album, ma anche l’avvertimento da tenere a mente, una volta terminato l’ascolto.
Ascolta ora Distaccati, di Francesco Cavestri!
Intervista a cura di Francesco Faccioli, editing e immagini di Gioele Marangotto.
(In copertina, immagine tratta da Bologna Today, tutti i diritti riservati all’autore)