Classe 2000, Fosca Navarra è una giovane autrice napoletana. Afferma di essere la reincarnazione di Iginio Ugo Tarchetti e, forse, è proprio dal suo romanzo “Fosca” che nasce. Insomma, le parole le scorrono da sempre nel sangue. Così, dopo la pubblicazione di alcuni suoi racconti su varie riviste, è uscita la sua raccolta poetica d’esordio, “Perdutamente” (edizioni Ensemble, 2023). Giorgio Ruffino, con il supporto di Blu Di Marco, ha fatto una chiacchierata con Fosca per raccontare della sua ultima opera.
Giorgio Ruffino: Partiamo dall’inizio: come hai scelto di dedicarti alla scrittura e cosa ti spinge a scrivere nella vita di tutti i giorni?
Fosca Navarra: La scrittura è la mia passione e anche il mio sogno fin da quando ero bambina. In un tema delle elementari ho scritto che da grande avrei voluto fare la scrittrice. Dopo un periodo di separazione dalla lettura e dalla scrittura nel corso dell’adolescenza, a diciotto anni ho letto Gli indifferenti di Alberto Moravia e mi sono sentita di nuovo catturata da quel sogno di infanzia.
Penso che questa separazione temporanea mi abbia fatto capire veramente quanto fosse importante per me ritornare a quegli obiettivi. Così, sono tornata a scrivere. Cioè, non è che abbia deciso di riprendere a scrivere, potrei dire che sono stata risucchiata da qualcosa che fino a quel momento avevo cercato a tutti i costi di allontanare da me, per inseguire altri obiettivi.
Alla fine, credo che nella vita si scelga molto poco, e spesso le cose importanti capitano e basta.
G.R.: Ti ho scoperta grazie a “Ritratto dell’uomo che guardava le macchine”, un racconto che hai pubblicato sulla rivista online Altri animali. Da lì in poi ho letto vari tuoi scritti, in prosa e poesia, su altre riviste. Cosa rappresentano per te pubblicazioni di questo tipo?
F.N.: Le pubblicazioni online, secondo me, sono oggi il miglior modo per fare la cosiddetta “gavetta”. Le riviste in generale sono importantissime, innanzitutto per capire come funziona l’editing, perché ti permette di vedere per la prima volta una vera revisione.
E poi c’è anche da dire che una rivista tira l’altra, secondo me, nel senso che magari da una rivista ti leggono su un’altra rivista e ti chiedono di scrivere un racconto. Questo significa che si innesca un circolo virtuoso che rappresenta uno dei pochi modi sani, regolari e corretti di farsi conoscere, senza espedienti alternativi che lasciano il tempo che trovano.
G.R.: Sei una scrittrice emergente molto giovane rispetto al mondo letterario, ritieni di ricevere un trattamento diverso per questo motivo?
F.N.: Sicuramente rispetto all’età media sono molto giovane; però, se fossi un calciatore, per esempio, verrei considerata dell’età giusta, con anche parecchia esperienza.
Invece, nel mondo della letteratura accade questo fatto curioso per cui a quarant’anni si è ancora considerati dei ragazzini; il che da un certo punto di vista è anche positivo, perché significa che hai anche più tempo. Non dico di ricevere un trattamento diverso, però forse ci sono dei momenti o delle circostanze in cui questo può essere un punto di forza e altri in cui può essere un punto debole.
Ci sono momenti in cui la mia giovane età viene aggiunta a quello che ho da dire come se riuscire a dire determinate cose implicasse un certo grado di maturità; mentre, in altri contesti può capitare che venga presa meno sul serio per il fatto di essere giovane. Quindi, in certe situazioni sembra un lato positivo; in altre è solo un limite.
G.R.: Quali sono gli scrittori da cui prendi ispirazione, sia per la prosa che per la poesia?
F.N.: È una domanda che mi manda sempre molto in crisi, perché credo che i nostri veri modelli siano completamente inconsapevoli. Amo molti autori, ma non ho la pretesa di diventare come loro; per esempio, ho un legame particolare con Moravia, però non avrei mai l’ardire di pensare di poter arrivare al suo livello.
Credo che i modelli che abbiamo debbano essere interiorizzati nel modo più spontaneo possibile: riconoscerli è già un passo falso, secondo me.
G.R.: Hai qualcuno che ti senti di poter definire un maestro o una guida per il tuo percorso?
F.N.: Numerose persone hanno accompagnato il mio cammino. Sicuramente c’è questa presenza fondamentale per me preziosissima che è il mio editor, il mio più grande compagno di avventura in questo percorso, ossia Antonio Russo De Vivo. Lui è stato veramente un maestro per me, è una persona straordinaria, un professionista eccellente; e gli devo moltissimo perché è stato capace di indirizzarmi in un momento in cui io ero completamente estranea a questo mondo.
Credo che, per quanto riguarda queste dinamiche letterarie, sia molto importante avere qualcuno che le viva prima di te, e che sappia come indirizzarti e aiutarti.
G.R.: Napoli è la tua città, che importanza riveste all’interno della tua letteratura?
F.N.: Napoli è più importante per il mio cuore che per la mia letteratura. Non fraintendermi, amo questa città, ma in un modo un po’ atipico.
Intanto, non parlo il napoletano e odio molto quel genere di narrazione stereotipata che si sente tanto in giro. Quando parlo di Napoli cerco sempre di farlo in maniera marginale, o comunque di toccare punti inesplorati, perché la mia priorità non è parlare di una città che è stata narrata in tutti i modi, né andare a ripetere dei cliché. A me interessa parlare in modo un po’ più universale: se ci fosse qualcosa da dire su Napoli, vorrei fosse qualcosa che non è mai stato detto.
G.R.: Riesci a dare lo stesso valore alla prosa e alla poesia o hai una preferenza tra le due?
F.N.: Non ho una preferenza tra i due modi di scrivere, ho un approccio diverso. La prosa ha bisogno di molta più consapevolezza, organizzazione o, meglio, quando scrivo il romanzo in un certo senso posso dire “sto scrivendo un romanzo” e che lo sto scrivendo in modo molto libero, quasi col pilota automatico, come se non fossi io a scrivere.
Però, normalmente, ho l’impressione che per la prosa serva comunque un grado di attenzione maggiore per focalizzarsi su quelle che sono tante altre caratteristiche della prosa stessa. Perché la poesia per me è come un getto di pensieri ancora abbozzati, privi della struttura necessaria per la prosa. Questo significa che scrivere in prosa vuol dire avere a che fare con un mondo che viene a costruirsi; invece, la poesia non ha bisogno di poggiare su un mondo, su delle regole ben precise, su una realtà costruita da personaggi e da dinamiche specifiche, perché può fluttuare liberamente.
G.R.: La raccolta poetica “Perdutamente” (Edizioni Ensemble, 2023) rappresenta la tua opera di esordio. Dalla poesia omonima si capisce che il titolo fa riferimento a una voglia di rinascita; e infatti scrivi: “lì ricominciai perdutamente”. Definiresti questa raccolta un nuovo inizio o la fine di un percorso?
F.N.: Entrambe, perché non puoi iniziare un nuovo percorso se non ne finisce uno vecchio. Credo che per me questa raccolta significhi molto, perché mi ha permesso di poter prendere coscienza del fatto che stessi cominciando una nuova fase della mia vita.
Non credo che avrei potuto prendere congedo dalla mia adolescenza in una maniera diversa e più significativa, e in fondo è un po’ come dire “ecco, questa è la prima parte della mia vita: è stata densa, è stata folle e appassionante, ma adesso è giunto il momento di andare avanti”.
Dopo un punto si può iniziare un nuovo capitolo: è sempre la stessa storia, ma bisogna voltare pagina. Deve esserci un sigillo su quelle ultime parole, e volevo che quel sigillo fosse un libro.
G.R.: Perché tutte le sezioni della raccolta, ad eccezione di “Intermezzo”, hanno come titolo un avverbio di modo costruito con il suffisso –mente?
F.N.: Perché tutti odiano gli avverbi in –mente, e io volevo ridare loro una dignità. C’è qualche parte del dizionario che di solito non viene mai considerata nella scelta di un titolo? Eccola, e Perdutamente mi sembrava un titolo perfetto perché esprime esattamente quello che voglio dire.
G.R.: E, invece, cosa ci dici di “Intermezzo”?
F.N.: È proprio un intermezzo. Avevo per le mani diverse poesie che non sapevo bene come raggruppare, che volevo inserire nella raccolta e che mi sembravano completamente slegate dai macro argomenti del libro. Quindi, l’intermezzo è fatto di poesie che potremmo definire “in tono minore”, perché sono poesie che ho scritto con uno sguardo quasi più ironico.
Si tratta di un blocco molto distante dal resto della raccolta; quindi, volevo creare una separazione che fosse ben visibile e individuabile. Non è una vera e propria categoria all’interno del libro, né una categoria come le altre, ma è come un intervallo all’interno di uno spettacolo.
G.R.: Mi è piaciuta molto la poesia finale di “Perdutamente“, intitolata “La cura dei ricordi”, che sostanzialmente è una dichiarazione di poetica. All’interno del testo emerge una visione della poesia tutt’altro che stilnovista, ma come un qualcosa di macchinoso e pesante; scrivi: “piegare tutti gli angoli che posso. Scrivo lungo i bordi, copio, copio copio, torno indietro a certe inezie”. Perché vedi la poesia in questo modo così crudo?
F.N.: Non credo di intendere la poesia come qualcosa di crudo, credo di intendere il processo necessario al raggiungimento di una dimensione poetica come qualcosa di faticoso e impegnativo, e questo perché, se mi prefiggo un obiettivo, sicuramente dovrò attraversare un percorso per raggiungerlo. Così vale anche per qualcosa di apparentemente estemporaneo come la poesia.
Quando scrivo poesie mi sembra di fare un gioco, cioè mi metto lì e vedo se succede qualcosa, se mi viene in mente qualcosa di interessante. E, tuttavia, quello che colgo di questo processo, quando mi metto alla tastiera, è soltanto la punta dell’iceberg. Questo significa che tutte le profondità, tutti gli abissi di quello che avviene rappresentano un percorso faticosissimo di riconoscimento di sé stessi.
Ciò significa che io non posso arrivare a scrivere se prima non riconosco chi sono stata in passato, se non tasto con mano i dolori della mia infanzia e della mia adolescenza, se non mi metto alla tastiera e fingo con me stessa che sia soltanto un gioco, quando in realtà è un’avventura grandissima.
G.R.: Nella poesia “Gioia” parli di come hai vissuto troppi e pochi anni allo stesso tempo. In generale, in tutta la raccolta traspare questo senso di eccesso di vita per una ragazza così giovane. Ritieni che questo sia un fenomeno che coinvolga solo te, o ritieni che i giovani di oggi abbiano vissuto di più nell’arco dei loro vent’anni rispetto alle generazioni precedenti?
F.N.: Io ritengo che abbiano vissuto molto meno; però, non voglio passare per quella che parla al posto degli altri, è solo una mia idea. Mi sembra che molti giovani abbiano avuto una vita piuttosto tranquilla e ordinaria. Però non voglio generalizzare, ci sono anche molte vite impegnative, disastrose, traumatiche, come lo è stata in qualche modo anche la mia. Io volevo parlare in questo caso unicamente per quanto riguardava la mia esperienza, perché effettivamente ho sofferto moltissimo, più di quanto forse avrei dovuto e voluto in 23 anni.
Tuttavia, effettivamente, mi sono resa conto che, se non avessi sofferto così tanto, magari oggi non avrei avuto qualcosa da dire. Quindi, è una domanda che mi sono posta più volte e a cui ho dato diverse risposte nel corso del tempo: se potessi tornare indietro, vorrei ancora questi miei troppi e pochi anni, oppure no? Ci sono stati momenti dolorosi della mia vita in cui avrei voluto rifare tutto e avere una vita ordinaria; però oggi, col senno del poi, sto raccogliendo qualcosa.
Mi piace pensare che tutto questo dono venga da traumi passati, e che anche loro abbiano avuto un senso nel percorso; altrimenti, sarebbe impossibile andare avanti.
G.R.: Quindi, ora diresti che sei in una fase positiva della tua vita, nonostante quello che hai dovuto affrontare?
F.N.: Questo è il periodo migliore della mia vita, rispetto – ovviamente – alle sofferenze che ho vissuto in passato. Però credo che sia il periodo migliore della mia vita per il semplice fatto che ci ho sempre creduto.
G.R.: Trovi che l’abbandono, che è uno dei temi portanti della tua raccolta poetica, sia una tappa fondamentale per crescere?
F.N.: Io non credo che ci siano dolori fondamentali per crescere, lo si può fare anche nella più completa quiete e serenità. Tuttavia, credo che vivere un abbandono e superarlo possa darti qualcosa in più per affrontare la vita, come se aver combattuto una battaglia in un certo senso poi potesse lasciarti in dono le armi che hai utilizzato. E, quindi, credo non tanto che i dolori ci servano a crescere, ma che possano aiutarci a rimanere in piedi qualora dovesse accadere qualcosa di imprevisto.
G.R.: È per questo che apri la raccolta con una poesia su Arianna?
F.N.: Apro la raccolta con una poesia su Arianna perché, innanzitutto, comincia con un’alba. Un’alba che però è un’alba dolorosissima, quella in cui viene abbandonata. Arianna viene lasciata sull’isola di Nasso e in fondo rappresenta me che cerco di parlare attraverso il suo personaggio. Mi piaceva l’idea di portare un filo che partisse da Arianna abbandonata e folle di dolore e si concludesse con l’ultima poesia; un filo che corre lungo i sessanta componimenti fino a La cura dei ricordi, dove c’è una sorta di accettazione del proprio passato, anche di quell’abbandono, anche di quella follia.
G.R.: Hai già anticipato che il tuo primo romanzo sarà incentrato sulle varie reincarnazioni di una gatta? Da dove nasce questa idea?
F.N.: Inizialmente la gatta era legata al proverbio delle molte vite che i gatti possono avere: poi, piano piano, con il tempo mi sono resa conto che non c’è un animale più simile a una donna di una gatta. Il motivo lo spiego all’interno del romanzo: ha a che fare con il modo in cui le donne vengono private della loro naturale libertà e vengono addomesticate dalla società.
Blu Di Marco: Torniamo a “Perdutamente”; hai detto che questa raccolta chiude una fase della tua vita e ne apre un’altra: volevo sapere se ci sia stato un evento particolare o qualcosa che ti abbia fatto capire che era arrivato il momento di voltare pagina.
F.N.: Credo che questo libro abbia significato molto per me e che in un qualche modo mi abbia portata alla decisione. Quando decidi di esordire, stai accettando direttamente le tue stesse parole, stai accettando i tuoi messaggi. Quando pubblichi il tuo primo libro è come se stessi dicendo “ho detto molto in questi anni e finalmente trovo delle parole che reputo giuste, che reputo pronte a uscire nel mondo”. E penso che questo sia un passo in avanti verso l’età adulta.
B.D.M.: Quando hai sentito che le tue parole potevano finalmente uscire allo scoperto?
F.N.: Quando ho sentito che non me ne sarei pentita.
B.D.M.: Hai detto che c’è stato un momento in cui proprio da piccola hai avuto una separazione dalla lettura e della scrittura. Sai a che cosa è dovuto?
F.N.: È dovuto sicuramente al fatto che in quel periodo ero convinta di voler diventare una pittrice. Ero convinta che avrei fatto Belle Arti e che avrei seguito tutt’altra strada. All’epoca disegnavo, cosa che faccio ancora oggi, ma inizialmente avevo progetti differenti e volevo concentrarmi solo su quello.
Mi ero molto scoraggiata al pensiero della letteratura, ero convinta che non ci fosse più molto da dire al mondo. Poi, però, ho letto Gli indifferenti e mi sono appassionata così tanto alla storia, ai personaggi, a tutto quello che c’era scritto, che mi sono detta “non mi importa se non c’è più niente da dire, lo lo voglio dire lo stesso”.
B.D.M.: Hai detto che scrivi al computer le tue poesie. Le scrivi al computer subito nel momento in cui hai l’ispirazione o le scrivi prima a mano e poi le trascrivi al computer?
F.N.: No, non so scrivere a mano. Funziona semplicemente come la fame o i bisogni corporali.
Mi metto alla tastiera e vedo se esce qualcosa, in caso contrario ci riprovo più tardi. È una cosa molto fisiologica, perché è come se ci fosse un organo al mio interno deputato allo svuotamento e alla raccolta da qualcosa di esterno, di sostanze che poi vanno a fare la poesia quando si svuotano. È una cosa strana da dire, però per me è come se ci fosse per uno spazio libero nel mio corpo che si occupa solo della poesia.
B.D.M.: Si è diffusa l’idea che scrivere al computer sia un po’ impersonale rispetto alla scrittura su carta e che i veri scrittori debbano utilizzare prima la penna, tu non la pensi così?
F.N.: No, secondo me è molto soggettivo perché io, per esempio, quando scrivo a penna, tendo a cancellare molto e questa cosa mi innervosisce e mi dà l’idea di non fare niente; e, quindi, butto il quadernino. Invece, quando scrivo al computer è come se avessi tutto più sotto controllo, poter cancellare nell’immediato mi tranquillizza.
G.R.: Sono contento che tu abbia parlato di questa visione della scrittura come un bisogno fisiologico, l’ho letto in varie tue interviste ed è una bella frase.
F.N.: Ormai è diventato il mio motto.
Intervista a cura di Giorgio Ruffino e Blu Di Marco, con la collaborazione di Beatrice Russo. Editing e revisione del testo di Benedetta Del Re.