Convince pienamente il primo film diretto da Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”. Tra trovate registiche interessanti e una sceneggiatura d’impatto, la regista riesce perfettamente a riattualizzare questioni più che mai urgenti. La pellicola porta a riflettere, con grande arguzia, su temi quali la violenza, l’autodeterminazione femminile e la libertà.
Era la sua prima prova come regista e Paola Cortellesi non ha deluso. La nota attrice, che ha co-scritto, diretto e interpretato il suo ultimo film C’è ancora domani, è stata promossa a pieni voti da critica e pubblico.
Gli incassi straordinari di queste prime settimane dimostrano il successo avuto dalla pellicola, ma anche solo con una visione al cinema è facile capire i motivi dei plausi ricevuti. Il lavoro della Cortellesi è un’assoluta perla nel marasma del cinema contemporaneo, che troppo spesso scade nell’intrattenimento facile e ben poche volte si dedica a contenuti più impegnati.
Sia chiaro: il film della Cortellesi ha anche le sue punte di comicità e leggerezza (e questo è uno dei suoi punti di forza), ma spicca per il modo con cui tratta tematiche come la parità di genere e il diritto al voto.
Tra neorealismo e presente
Da un punto di vista stilistico, la caratteristica principale della pellicola è il formato in bianco e nero. C’era da aspettarselo per un film ambientato nell’Italia del secondo dopoguerra, contesto nel quale Delia (Paola Cortellesi) si trova a prendersi cura di una famiglia capeggiata dal marito Ivano (Valerio Mastandrea), despota e violento.
Paola Cortellesi prende così lo spettatore per mano e lo conduce direttamente nell’Italia degli anni ’40. La regressione negli ambienti di borgata, il linguaggio popolare spiccio dei personaggi e certi luoghi comuni – come le chiacchiere delle comari nel cortile o il topos della famiglia numerosa – sono di chiaro stampo neorealista.
Si possono addirittura riconoscere dei punti in comune con film come Roma Città Aperta (1945) di Rossellini, primo fra tutti per il contesto della capitale liberata.
Ma la regista non si è fermata qui: il film, infatti, non rimane solo la cartolina di un passato lontano, ma con grande abilità viene riattualizzato da una colonna sonora a tratti contemporanea. La scelta a riguardo non è mai casuale e il testo dei brani si sposa perfettamente con la diegesi del film.
Lo spettatore passa da autentici classici della canzone italiana, come La sera dei miracoli di Lucio Dalla, a B.O.B. degli Outkast, pezzo particolarmente ritmato che accompagna la climax della sequenza finale.
La violenza
L’impianto neorealista viene abbandonato anche in alcune scene centrali. Questa scelta emerge soprattutto nel modo di trattare la violenza, che non è mai rappresentata in modo esplicito, come ci si potrebbe aspettare da una classica sceneggiatura di un film neorealista.
Nella prima vera e propria lite tra Ivano e Delia, ad esempio, ci immagineremmo una scena brutalmente cruda non appena il marito alza le mani sulla donna, ma ciò non avviene. La regista ci sorprende: Ivano picchia Delia, ma lo fa a ritmo di musica, esasperando i suoi gesti che improvvisamente diventano teatrali passi di danza a ritmo di Nessuno di Musica Nuda.
L’unico schiaffo (con tanto di rumore secco) lo vediamo solo nella primissima scena: la surreale gratuità del gesto (Delia ha solo augurato il buongiorno al marito appena sveglio) sembra essere un tetro presagio, ma Paola Cortellesi ci ha appena ingannati.
Per tutto il film, l’aggressività e il senso di oppressione sono suggeriti per mezzo di allusioni. La violenza permea le scene: la avvertiamo quando Ivano chiude porte e finestre prima dei suoi soprusi, nel suo linguaggio verbale e nella mimica facciale di Delia e di sua figlia Marcella (Romana Maggiora Vergano).
A tal proposito, una nota di merito va proprio all’interpretazione di Romana Maggiora Vergano: i suoi sguardi carichi di tensione e drammaticità in primo piano o mezzo busto, insieme a quelli di Paola Cortellesi, sono un assoluto valore aggiunto all’opera.
Ivano: lo specchio del patriarcato…
Valerio Mastandrea si è superato nell’interpretazione di Ivano. Il personaggio che porta in scena è il classico marito dispotico, violento e ignorante, ma non per questo è una macchietta.
Gli sguardi crudeli e la gravità dei gesti con cui maltratta la moglie restituiscono accuratamente il clima di tensione a cui Delia viene sottoposta ogni giorno. Ivano è il perfetto specchio del patriarcato che ieri, come oggi, non ha cambiato il suo modus operandi: la donna deve obbedire e “se deve sta’ zitta”.
Ma Ivano, purtroppo, non è una mosca bianca: suo padre Ottorino si comporta allo stesso modo ed è la vera origine del sistema patriarcale che vige in casa di Delia. Il nonno rappresenta, infatti, un sistema di valori che sotto il fascismo (periodo nel quale Ivano è cresciuto) si sono esasperati. Per questo, Ivano, al cospetto di Ottorino, appare come normalmente non è mai: remissivo, insicuro e debole.
Il modo con cui il nonno rimprovera il padre di famiglia è la chiave di volta che ci fa capire perché in fondo la violenza di Ivano sia grottesca. In virtù di questo, la morte del patriarcato (o perlomeno un primo passo verso il suo superamento) si ha proprio con la morte (biologica) del nonno. Il giorno dopo Delia, andando a votare, sancirà il passaggio definitivo a una nuova epoca.
…che è ovunque
Le dinamiche patriarcali proposte da Ottorino e Ivano ci sono anche là fuori, nel mondo di tutti i giorni. A lavoro, Delia percepisce uno stipendio molto inferiore rispetto a quello dello stagista appena assunto e, quando chiede al suo capo spiegazioni in merito, riceve una risposta lapidaria: “Perché lui è omo“.
Quella società, d’altronde, funziona così. Il problema della disparità di genere non esiste e, anzi, la presupposta superiorità dell’uomo è accettata come un dogma. Le donne sono oggetti o al massimo semplici casalinghe, come testimonia questa frase di Ivano, che rivolgendosi alla figlia esclama:
Se penso che quanno te ne andrai non ce sarà più ’na donna dentro a ’sta casa.
Anche con una simile frase la figura di Delia, in quanto donna, viene totalmente sminuita.
Le donne non possono avere una loro identità e dipendono in tutto e per tutto dai mariti. Se provassero a costruirsi una vita fuori dalle mura domestiche, inevitabilmente, non andrebbero molto lontane.
Pur sapendo di vivere male, accettano remissivamente la loro condizione. Sono consapevoli che gli schiaffi sono dolorosi, ma scappare senza una meta, forse, ancora di più. Delia, quando la figlia le dà un simile consiglio, riesce solo a rispondere, rassegnata: “E ‘ndo vado?”
William, Marisa e Nino: un mondo che cambia
Se gran parte del mondo vive ancora nel bigottismo, è pur vero che esiste anche una certa società che sta iniziando a cambiare. Nino, William e Marisane sono chiari esempi e provano di continuo a convincere Delia a salvarsi dal suo incubo senza fine.
Nino sarebbe una possibile via di fuga verso il Nord Italia e il simbolo di un amore genuino e rispettoso. La scena in cui lui e la protagonista del film mangiano della cioccolata insieme, sporcandosi i denti come bambini, è una delle più toccanti del film.
Un mirato uso del dolly circolare permette di isolare i personaggi dal mondo esterno in una bolla di innocente spensieratezza. Ciò di cui in fondo, per motivi diversi, avrebbero bisogno entrambi.
La cioccolata è un simbolo fondamentale che riporta all’uomo che l’ha regalata a Delia: William. Quest’ultimo è un soldato americano che cerca in tutti i modi di aiutare la donna in quanto capisce la sua condizione familiare sin dall’inizio.
L’incomunicabilità tra i due (vista la barriera linguistica) è sintomo della distanza tra due mondi ancora troppo lontani. L’America liberatrice ha riconosciuto da più tempo il problema della violenza di genere e cerca di ispirare anche quell’Italia appena uscita dal ventennio fascista.
Oltre alla cioccolata, un altro simbolo dell’America liberatrice sono le sigarette, le stesse che Marisa e Delia, quasi con fare fanciullesco, fumano in una delle scene più iconiche della pellicola.
Anche in questo caso, la portatrice di quel simbolo è Marisa, che più volte invita l’amica a lasciare “quel farabutto di Ivano”. La migliore amica di Delia, simpatica, sveglia e schietta, è un esempio di donna emancipata e sicura di sé che fino alla fine supporta la protagonista nella sua battaglia.
Madre e figlia: l’unione fa la forza
Il fiore all’occhiello del film resta in assoluto il rapporto tra Delia e Marcella. Quello della relazione madre-figlia, d’altronde, è un tema molto caro a Paola Cortellesi che, in occasione dei suoi 50 anni, ha affermato di aver dedicato il film a sua figlia Lauretta.
La solidarietà femminile che la regista ha cercato di trasmettere alla figlia è un po’ la stessa che c’è tra Delia e Marcella. Inizialmente, è Marcella quella più forte che cerca di risvegliare la coscienza della madre, portandola a riconoscere gli abusi di cui è vittima quotidianamente. “Non vali niente” le dirà la figlia almeno due volte, nel tentativo di suscitare un moto d’orgoglio in Delia.
Quando Marcella si sta per sposare con Giulio, però, è Delia ad accorgersi che qualcosa non va e a salvare la figlia. Osservando gli atteggiamenti sempre più possessivi del promesso sposo, la madre vede in lui alcuni comportamenti analoghi a quelli di Ivano e decide di proteggere la figlia.
Giulio, all’apparenza un “bravissimo ragazzo” (ricorda qualcosa?), è in realtà l’ennesimo uomo abusante che condannerebbe la propria moglie a un matrimonio infelice, influenzato dai retaggi culturali con cui è cresciuto.
D’altra parte, Ivano approva l’unione per questioni economiche: la famiglia di Giulio è benestante. E allora Delia interviene distruggendo insieme a William il bar della famiglia di Giulio, che costituisce la loro unica grande fonte di ricchezza. Il vero motivo catalizzatore del matrimonio viene così a mancare e Marcella non si sposa più.
La scena finale è un po’ la sintesi commovente di questa unione così forte. Marcella consegna alla madre la tessera elettorale che le era caduta in casa e così permette a Delia (ma, indirettamente, anche a sé stessa) la sua piena realizzazione.
L’epilogo è il trionfo di questo inscindibile rapporto che assurge, allo stesso tempo, alla vittoria di tutte le donne italiane. L’intenso sguardo d’intesa tra madre e figlia suggella meravigliosamente questo concetto.
“C’è ancora domani” per cambiare le cose
Nel referendum del 2 giugno 1946, 13 milioni di voti, sui 25 complessivi per la Repubblica, sono stati da parte di donne. Il dato evidenzia quanto la loro parola fosse stata sottovalutata fino a quel momento.
Quell’urlo di libertà si esprime silenziosamente al termine del racconto. Votando per la Repubblica, danno finalmente una svolta al Paese e, come un corpo comune, difendono Delia nell’ultima scena. Ivano, sopraffatto dagli sguardi, non può che accettare la sconfitta. È giunto il tempo di chi “a bocca chiusa” – titolo dell’omonima traccia di Silvestri che accompagna le immagini – si ribella.
Il film manda un messaggio chiarissimo e lo fa con un lieto fine che, però, ne pretende uno anche nella vita reale. In termini di emancipazione femminile, sono stati fatti dei grandi passi da quei lontani anni Quaranta, ma ne restano altrettanti, se non di più, da compiere anche oggi.
La violenza sulle donne esiste e i dati lo testimoniano in maniera allarmante. Il femminicidio di Giulia Cecchettin è l’ennesimo caso in cui un “bravo ragazzo” (come Giulio, ma sicuramente anche come Ivano da giovane) uccide una donna.
Oltre che errato, sarebbe semplicistico definire questi uomini come “mostri”, come se fossero solo una parte in difficoltà della nostra società, in quanto metteremmo in atto un fenomeno di de colpevolizzazione: si tratta semplicemente di uomini. Ma allora perché arrivano a gesti così estremi?
Il motivo è presto detto: al di là dei casi di femminicidio, la degradazione della donna è un fatto socialmente accettato. Lo è a tal punto che non è mai l’uomo il problema. Anzi, in qualche modo egli riesce a diventare la vittima, al grido di “Non tutti sono così”.
Piuttosto, è la donna che sbaglia, che “non fa abbastanza per evitare il peggio”. Alla fine, gli uomini sono tutti bravi ragazzi e, se violenti, sono solo “troppo stressati” o “sotto pressione”, come nel caso di Turetta, no?
Lo sai com’è fatto, è nervoso. Ha fatto du’ guere.
Delia, parlando di Ivano.
Martino Giannone
(In copertina e nell’articolo, immagini tratte dal film C’è ancora domani)