Riportiamo il discorso fatto da Insaf Dimassi in occasione della prima edizione di YoungFluence, il 25 novembre 2023. Il tema centrale è la violenza di genere, a partire dalle definizioni di patriarcato e di femminismo, fondamentali per che dobbiamo assumerci tutte le nostre responsabilità, unirci e lottare insieme.
È particolarmente delicato per me intervenire e affrontare il tema del patriarcato e della violenza di genere.
In questa situazione la paura di tralasciare qualcosa di importante, di non comunicare adeguatamente l’urgenza della questione e di non rendere giusto omaggio alle sorelle che quotidianamente combattono contro la violenza di genere e alle sorelle che hanno perso la vita, perché uccise, si fa sentire.
Oggi celebriamo la Giornata contro la violenza sulle donne e mi scuso se inizio con un fatto personale. Oggi è anche il compleanno di mia madre; unendo questi due eventi significativi, nella mia mente non posso fare a meno di riflettere su una grave violenza che lei ha subito da parte della società.
Mi permetto di iniziare con una premessa: mia madre è donna, straniera e musulmana. Molti anni fa, quando ero adolescente, mio nonno [materno, ndr] è venuto a mancare; come molte persone in lutto, per trovare conforto, mia madre ha compiuto un gesto privato e intimo, si è rifugiata nella sua religione decidendo di indossare il velo. Ricordo le discussioni in famiglia quando mio padre le disse che poteva fare come desiderava ma che tutto sarebbe cambiato intorno a lei, la gente l’avrebbe guardata e giudicata diversamente pensando che fosse stato lui a costringerla.
Questo ha portato ad un cambiamento radicale nel nostro modo di vivere in Italia.
Ero un’adolescente, ma le parole sessismo e razzismo mi erano chiare, le ho viste agire con una ferocia inaudita. Le persone le dicevano di ribellarsi a mio padre, perché in questo Paese un uomo non può obbligare una donna in nessuna cosa.
La gente la guardava con compassione, le diceva che aveva dei capelli “così belli” e che prima era “così bella”.
La gente parlava più lentamente, come se indossare il velo l’avesse resa improvvisamente analfabeta e meno capace di esprimersi nel suo impeccabile italiano. Poi arrivò il colpo più duro: la ricerca di lavoro.
Sebbene trovare un impiego nella ristorazione fosse facile ai tempi, improvvisamente divenne impossibile. Cresciuta in un piccolo paese di montagna con 19mila abitanti e molte persone anziane, ricordo quando tenne un colloquio con una grande azienda bolognese che vendeva prodotti medici.
Al termine del colloquio le dissero chiaramente “se vuoi lavorare devi toglierti il velo: questo è un lavoro che devi fare entrando in casa della gente per mostrare i prodotti” – era una sorta di porta a porta – “e le persone si potrebbero spaventare”. Alla fine, mia madre si tolse davvero il velo, ma non perché lo volesse lei, bensì perché il mondo e la società la costrinsero a farlo.
Perché ho deciso di condividere questo aneddoto personale nel contesto della violenza di genere, della lotta al patriarcato e del femminismo? Perché non può esistere un femminismo che non sia transnazionale e intersezionale.
Il femminismo transnazionale è un approccio che riconosce che le questioni legate al genere e alla violenza di genere non conoscono confini nazionali, attraversano barriere geografiche, culturali e sociali, mettendo in evidenza che le donne in tutto il mondo affrontano sfide simili legate alla disuguaglianza di genere e alla violenza.
Il femminismo intersezionale riconosce che l’esperienza delle donne è modellata non solo dal genere, ma anche da altri fattori come l’etnia, la classe sociale, l’orientamento sessuale ed altri elementi che si intersecano tra loro. Le donne possono affrontare forme multiple di discriminazione e oppressione e un approccio intersezionale considera tutte queste dimensioni per comprenderne appieno le complessità.
Per fare un esempio: una donna bianca e occidentale è oppressa dal sistema in quanto donna, ma una donna nera è oppressa in quando donna e in quanto persona razzializzata, quindi sperimenta una doppia forma di oppressione; una donna nera e lesbica sperimenta tre forme di oppressione, una donna nera lesbica e povera ne sperimenta quattro; una donna nera, lesbica, povera e disabile ne sperimenta cinque, e così via.
Le disuguaglianze si sommano e questo approccio al femminismo ne tiene conto per evitare che la lotta sia settorializzata, omologata e statica.
Il femminismo transnazionale e intersezionale ci invita a guardare oltre i confini nazionali e a considerare le molteplici sfaccettature sistemiche, ci sprona a lottare non solo per i diritti delle donne nel nostro contesto locale, ma ad essere solidali con tutte le donne, ovunque si trovino, riconoscendo e affrontando le diverse forme di discriminazione che possono subire.
Quindi, il femminismo transnazionale e intersezionale rappresenta un richiamo urgente a riconsiderare le nostre prospettive e ad abbracciare una lotta comune. Possiamo davvero permetterci di avere una lotta femminista che non sia intersezionale? Possiamo permetterci una lotta femminista che non sia anti-razzista?
Nel 1989 l’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw, coniando il termine intersezionalità, teorizzò che queste due linee devono incrociarsi per promuovere una lotta collettiva, coinvolgendo non solo coloro che godono di privilegi ma anche coloro che subiscono oppressione.
Verso la fine degli anni Settanta gruppi di femministe nere e lesbiche presero coscienza di subire una doppia oppressione, sentendosi discriminate anche dalle loro compagne bianche ed eterosessuali. Solo negli ultimi anni anche in Italia il dibattito sul femminismo intersezionale si è accesso rivelando i differenti strati di oppressione possibili.
L’intersezionalità significa confrontarsi con la realtà e aprire gli occhi su come le discriminazioni interagiscono tra loro. Le donne non sono tutte uguali e quindi la lotta contro il patriarcato non può prescindere dal dibattito sull’anti-razzismo. Dobbiamo riconoscere che le sfide che le donne affrontano sono complesse e intrecciate e soltanto adottando un approccio transnazionale e intersezionale possiamo sperare di costruire un futuro più equo e giusto per tutte le donne, indipendentemente dalla loro provenienza.
In questi giorni abbiamo una voce importantissima che sta portando avanti la battaglia femminista con una forza e dignità incredibili, sto parlando di Elena Cecchettin, la sorella di Giulia Cecchettin la 105° vittima di femminicidio nel nostro Paese da gennaio ad oggi.
Cito Michela Murgia per ricordarvi che la parola femminicidio non indica il sesso della morta bensì il motivo per cui è stata uccisa. Elena Cecchettin sta facendo una cosa rivoluzionaria, invece che lasciarsi dipingere e strumentalizzare come la donna fragile che soffre e si chiude in casa per la perdita della sorella, sta utilizzando questo spazio per parlare a chiare lettere di patriarcato e di violenza di genere; sta utilizzando questa tragedia per richiamare l’attenzione su un problema sistemico, per far scendere le persone in piazza, per farci assumere le nostre responsabilità comuni, per parlare di cultura dello stupro.
La cultura dello stupro è un concetto che si riferisce a un ambiente sociale in cui le violenze sessuali sono normalizzate, giustificate o addirittura ignorate, non è solo una questione di atti individuali ma riguarda le norme culturali e sociali che perpetuano e minimizzano la violenza sessuale.
Possiamo osservare la cultura dello stupro in molte forme, dalla trivializzazione delle violenze sessuali nei media, alle narrazioni che colpevolizzano le vittime anziché responsabilizzare gli aggressori, si manifesta, inoltre, nelle strutture istituzionali che spesso non riescono a punire adeguatamente gli autori di violenza sessuale contribuendo così a mantenere un clima in cui il rischio di impunità alimenta ulteriori aggressioni.
Affrontare la cultura dello stupro è parte integrante della lotta femminista, significa sfidare le norme culturali che consentono la perpetuazione della violenza sessuale e impegnarsi nella creazione di contesti in cui le vittime sono ascoltate, credute e sostenute anziché giudicate.
Solo abbracciando l’intersezionalità e riconoscendo le molteplici dimensioni della discriminazione possiamo sperare di eradicare la cultura dello stupro e costruire una società più sicura e più rispettosa per tutte.
Elena Cecchettin invece che tacere ha scelto di combattere, invece che piangere ha scelto di alzare la voce, invece che indossare l’abito del lutto ha mantenuto la sua identità e la sua libertà indossando vestiti dark e le borchie, ha detto ad alta voce che Filippo Turetta non è un mostro ma un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro; che il femminicidio non è un delitto passionale ma di potere, è un omicidio di Stato perché lo Stato non ci tutela e non ci protegge.
Il femminicidio non è un delitto di Stato è un delitto di potere. Di fronte a queste parole, lucidissime e fortissime, figure istituzionali sono intervenute per attaccarla sul personale perpetuando proprio la cultura dello stupro, accusandola per come era vestita, dandole della satanista, giudicando il suo modo di vivere il lutto, dicendo che stesse facendo propaganda politica e preparando la sua carriera politica.
Parole che sono state rivolte ad altre figure femminili che hanno scelto di non piegarsi di fronte al dolore, ma di utilizzare il proprio spazio per alzare la voce, mi vengono in mente Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano Cucchi e Lucia Annibali sfregiata con l’acido dall’ex compagno.
Elena Cecchettin richiama l’attenzione su un tema molto importante, la medicalizzazione della violenza di genere, lei dice che Turetta non era malato, non era pazzo, non era un deviato, non era disturbato. Gli psicologi ci insegnano che la medicalizzazione della violenza di genere, cioè l’attribuire patologie psichiatriche a chi compie questi atti di violenza, è solo un modo per lavarsi di dosso la responsabilità collettiva e sistemica, per smarcarsi e non identificarsi nei carnefici, per creare una linea netta tra noi e loro, loro i pazzi e i cattivi, noi i sani e i buoni, tutto questo è sbagliato.
La cattiveria e la violenza non sono patologie, non sono caratteristiche disumane sono prettamente umane e additare come malato chi compie queste violenze serve a noi per rifugiarci nella nostra ignavia e omertà e non fa altro che alimentare uno stigma nei confronti di persone portatrici di malattie e disturbi psichiatrici.
In questi giorni ho letto tantissimi discorsi, forti e coraggiosi, da parte di uomini che si assumevano la loro responsabilità di genere, in quanto beneficiari in prima istanza dei privilegi del patriarcato e in quanto vittime, anche loro, del sistema patriarcale, perpetuando comportamenti maschilisti o tacendo di fronte ad atteggiamenti maschilisti e sessisti compiuti dai loro amici, conoscenti o parenti.
D’altra parte, ho letto anche tanti uomini che, sentendosi attaccati e non volendo essere accostati a criminali e assassini, sono andati sulla difensiva dicendo: “Io non mi vergogno di essere uomo, io non mi vergogno di quello che ha fatto Turetta, perché io non ho nulla che vedere con un assassino”.
Questo è un punto molto importante, nessuna e nessuno di noi vi chiede di vergognarvi in quanto uomini; essere nati uomini non è una colpa, non si sta attaccando un intero genere, ma si sta cercando di mettervi di fronte ad una responsabilità collettiva, il sistema patriarcale viene alimentato sia dagli uomini che dalle donne ma il privilegio ricade su una categoria ben precisa: l’uomo bianco etero cisgender.
Qui vi si chiede si decostruirvi, di fare questo lavoro faticosissimo di lavorare su di voi, di ragionare su tutte quelle volte che avete giudicato una donna per come era vestita, di tutte quelle volte che avete fatto avance non richieste, di tutte quelle volte che avete usato termini sessisti come “puttana” o “zoccola”, di tutte quelle volte che avete fatto catcalling, di tutte quelle volte in cui avete toccato una donna senza il suo consenso, solo per scherzo, di tutte quelle volte in cui avete controllato il cellulare alla vostra ragazza, in cui le avete detto che non poteva andare in discoteca da sola o che non poteva vestirsi in un certo modo.
La lista è infinita e se non siete mai stati voi, la responsabilità è vostra se l’avete visto o sentito fare ma non avete detto nulla, se avete riso ad una battuta sessista, se avete preferito voltarvi dall’altra parte per non essere esclusi dal gruppo o per non essere additati come meno virili.
Non bastano i “io tratto bene mia moglie, la mia ragazza, mia sorella”, bisogna intervenire anche nelle situazioni che non ci riguardano direttamente.
Avrei potuto parlare di tante cose questa mattina: di aborto, di segregazione orizzontale, di tetto di cristallo, del fatto che gli uomini vengono chiamati dottori e noi donne signorine, dell’occupazione, del lavoro di cura scaricato sulle donne, della figura di madre e di tante altre cose.
Però credo che oggi fosse imprescindibile dirci a chiare lettere che cos’è il patriarcato e che cos’è il femminismo, ribadirlo ad alta voce, assumerci tutte le nostre responsabilità, unirci e lottare insieme.
Insaf Dimassi
Trascrizione a cura di Annarita Donatelli, supervisione di Beatrice Russo.
(In copertina Insaf Dimassi, foto di Floriana Soranna per Giovani Reporter)