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Faccia a faccia con i Presocratici – Intervista a Sergio Givone

Presocratici Sergio Givone

A margine del secondo incontro della rassegna di eventi “La voce degli antichi”, all’oratorio di San Filippo Neri (Bologna), abbiamo avuto l’opportunità di fare alcune domande a Sergio Givone, professore emerito di Estetica all’università di Firenze. Il tema dell’incontro verteva sul suo ultimo libro, dal titolo “I Presocratici, ritorno alle origini” (Il Mulino, 2022).


La voce degli antichi deve essere sempre veicolata, prima di tutto, dalla voce del vivi, in un difficile equilibrio tra correttezza filologica e necessità di divulgazione. La questione, per Federico Condello, moderatore di questa rassegna, non è avere o meno delle lenti addosso, quando si guarda al mondo classico, perché tanto le abbiamo in ogni caso: quello che distingue un osservatore critico e vigile da un osservatore passivo e ingenuo è la consapevolezza di quali lenti si stiano indossando.

Di conseguenza, la collana “La voce degli antichi” – e di conseguenza la rassegna all’oratorio di San Filippo Neri – comprende e presenta una grande varietà di autori, di epoche e di approcci diversi; come sostiene Condello, i volumi hanno una linea editoriale molto forte e al tempo stesso non rinunciano e non tolgono spazio anche al taglio personale, cifra stilistica dei singoli autori. Nel giro di quattro serate e di quattro libri, si passa da Omero a Tucidide, dai Presocratici a Lucano.

E, dunque, nella pluralità di voci di questa collana e di questa rassegna, è naturale che un filosofo come Sergio Givone ponga certi interrogativi ai testi antichi, che un filologo e storico come Luciano Canfora ne ponga altri, che una studiosa e scrittrice come Antonella Prenner scelga una chiave più autobiografica, e che un antichista con attenzione agli aspetti della ricezione contemporanea come Giorgio Ieranò cerchi e trovi altri aspetti ancora.


Ritorno alle origini

Sergio Givone è professore emerito di Estetica all’università di Firenze; tra i suoi libri bisogna ricordare Storia del nulla (Laterza, 2003), Metafisica della peste (Einaudi, 2012) e i recenti Sull’infinito (Il Mulino, 2018) e Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, 2019).

Nell’incontro, moderato da Federico Condello, Givone ha parlato della rivoluzione compiuta dai pensatori cosiddetti presocratici in quel momento di rottura e in un certo senso di continuità rispetto al mondo sapienziale greco precedente, nell’orizzonte culturale che in genere viene studiato nei limiti del passaggio dal μύθος al λόγος.

Un ritorno alle origini, quello che presenta l’autore del libro, ma in un solo senso: quello di ritorno alle radici del pensiero occidentale, a quel momento in cui la ragione ha iniziato a formarsi sulle ceneri del mito e della religione.

I-presocratici-Ritorno-alle-origini

Altro che ritorno alle origini! Ritorno sì, ma semmai al futuro, anzi, all’eterno.

I Presocratici, ritorno alle origini (p. 35).

Davide Lamandini: Sergio Givone, nel libro parla della possibilità di interpretare i presocratici come una prefigurazione di alcuni esiti della scienza contemporanea; e su questo è facile il collegamento con Carlo Rovelli e il suo Che cos’è la scienza: La rivoluzione di Anassimandro (Mondadori, 2011). E forse è un po’ anche la prospettiva sulla quale si fonda la selezione degli autori di I Presocratici, ritorno alle origini, dunque cos’è che ci permette o ci impedisce di storicizzare il pensiero scientifico contemporaneo occidentale e la rivoluzione operata dai presocratici?

Sergio Givone: La tesi di Carlo Rovelli è esattamente questa: i presocratici sono i primi scienziati moderni, non tanto sapienti, ma proprio scienziati. Ad esempio, Anassimandro è stato il primo a capire che la terra è una sfera che galleggia nell’universo: perché non cade? Perché non c’è nessuna ragione per cui cada, dice Rovelli interpretando correttamente Anassimandro.

Se l’universo è infinito, qualsiasi corpo è equidistante dal punto di attrazione massima; quindi, tutti i punti che dovrebbero rappresentare una sorta di attrazione di questo corpo che galleggia nell’infinito, essendo equidistanti e avendo la stessa forza attrattiva, fanno sì che in realtà ogni corpo stia dov’è, compia le orbite che compie. Tutto rimane in piedi senza bisogno di immaginare i fondamenti delle strutture.

Gli scienziati ragionano in questo modo, e Anassimandro da questo punto di vista ha anticipato la scienza moderna. Tuttavia, Anassimandro, nel momento in cui fa una determinata fenomenologia – cioè, descrive uno stato di cose (ad esempio, il fatto che i mortali vengano dal non essere e ricadano poi nel non essere, e debbano restituire quel tanto di essere che hanno preso per sé) – fa anche una cosa in più, cioè introduce un concetto che viene visto come estraneo dalla scienza moderna e contemporanea, ossia il concetto di colpa, di violenza, di sopraffazione.

Quindi è vero che Anassimandro, in un qualche modo, anticipa la scienza moderna; ma è anche vero che ha fatto anche un altro mestiere: era un sapiente e poneva domande sul senso della vita, su cosa sia bene e cosa sia male, e così via. Da questo punto di vista – con buona pace di Rovelli, che a suo modo ha ragione – esiste una distanza incolmabile tra il sapiente e lo scienziato, come tra il mondo antico e il mondo moderno.

D.L.: Ha definito la filosofia dei presocratici come un “pensiero del disincanto” (p. 11) e il loro sguardo come uno “sguardo disincantato sul mondo” (cap. 3); e ha descritto il passaggio da loro rappresentato – che è poi l’epocale passaggio dal μύθος al λόγος – in questi termini: “non è più la Sfinge che interroga Edipo, ma è Edipo che interroga la Sfinge” (p. 8). Cosa rende l’approccio di questi pensatori dell’inizio e della fine così scandaloso per il loro tempo?

S.G.: L’approccio è scandaloso perché ateistico, perché si affida a un discorso (λόγος) che non ne vuole più sapere del divino. Il disincanto è, in effetti, un elemento con cui bisogna fare i conti e che spiega questo atteggiamento che è loro caratteristica peculiare in tutto il mondo, non solo in quel piccolo e doppio angolo di Grecia (Ionia e Magna Grecia).

Solo loro invitano a leggere il mondo con gli strumenti della ragione, senza ricorrere ad altro. Però, il λόγος di cui fanno uso è un λόγος ancora carico di risonanze, di echi precedenti che pertengono al mondo religioso, non ancora disincantato – al μύθος, appunto. Un buon esempio è il termine λόγοι, plurale di λόγος, che per i Greci dell’epoca di Anassimandro è il divino, corrisponde a θεοί. E questo perché non si è ancora operata quella frattura che, per noi, a partire dall’Illuminismo è così scontata tra ragione e religione.

Lo spiega Wilamowitz-Moellendorff, commentando l’incipit del Vangelo di Giovanni – “in principio era il λόγος” – dicendo che questa frase si trova anche nei misteri eleusini, i misteri di una grecità già moderna, alessandrina, ma che rimandano ai riti orfici molto più antichi.

Wilamowitz legge questa frase come se questo discorso (λόγος) fosse non un sostantivo, come effettivamente è, ma un avverbio: “in principio era divinamente”, cioè in principio era l’essere e il modo di essere dell’essere era il divino stesso. In principio si manifestava come luce divina, come qualche cosa oltre rispetto a un uomo che era poco più di un animale.

Ora, che sia giusta o meno questa lettura, sottolinea la profonda affinità che c’è tra λόγος e divino – e in fondo in Talete persiste in questa idea che il λόγος sia qualcosa di più di quella che noi chiamiamo “ragione strumentale”. Per lui, invece, è l’anima stessa del mondo.

D.L.: Lei ha appena citato una parola, λόγος, terribile per un traduttore, perché portatrice di una molteplicità di significati pressoché inesprimibile in un’altra lingua. Vorremmo allora entrare nello specifico del frammento B 53 di Eraclito, dove lei non ha tradotto il primo termine, πόλεμος. Da dove deriva questa scelta?

S.G.: Perché, in greco, πόλεμος esprime anche qualche cosa di unitario in una parola che di suo è certamente contraddizione, opposizione, conflitto. Nel momento in cui parlo di guerra, parlo anche di pace; se dico lacerazione, intendo anche guarigione. La parola πόλεμος non si oppone alla pace, ma porta la pace dentro di sé: la pace altro non è che il risultato del conflitto, e, se non c’è conflitto, non c’è pace.

Polemos (πόλεμος) di tutti è padre, di tutti è re, e fa che gli uni appaiano come dèi, gli altri come uomini, gli uni come schiavi e gli altri come liberi.

Eraclito (trad. di Sergio Givone, p. 96)

Non è l’altro dal conflitto, non è che bisogna smettere di fare la guerra per vivere in un mondo pacificato, è la guerra stessa che è guerra e pace. Eraclito, che è presocratico, ma legato all’antica sapienza greca, sapeva che i due sono uno, che l’uno è fatto di due che si oppongono ma sono uno, e questo per noi è terribilmente difficile da esprimere con parole moderne.

Intervista a cura di Elettra Dòmini, Francesco Faccioli e Davide Lamandini


L’intervista a Sergio Givone è stata realizzata in collaborazione con l’Oratorio di San Filippo Neri e la casa editrice Il Mulino:

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Sull'autore

Classe 2000. Mi piacciono le storie, qualsiasi sia il mezzo che le fa circolare o la persona che le racconta. Credo nella letteratura, nel tempo che passa e nelle torte al cioccolato per le giornate più tristi. Aspetto con impazienza domani e, nel frattempo, leggo, scrivo e traduco qualche lingua morta persa in un passato lontanissimo.
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