La precettazione parziale disposta dal Governo per lo sciopero dello scorso 17 novembre è stata da molti accolta come un atto eversivo. Ma nel 2023 ha ancora senso astenersi dal lavoro nell’ambito dei servizi pubblici? Oppure è giusto fare una riflessione su quello che sembra essere divenuto un tabù ideologico?
Lo sciopero è stato storicamente un’arma fondamentale, forse quella per eccellenza, nella rivendicazione dei diritti dei lavoratori.
L’astensione dal lavoro, infatti, si è rivelata un formidabile strumento di lotta contro il datore di lavoro che, piegato dalle inevitabili conseguenze sull’attività e la produzione della propria azienda, è stato costretto a concedere maggiori diritti e salari più dignitosi.
Spesso, questa lotta è sfociata nel sangue: per ricordare questi morti e il senso della loro protesta, si è istituito il Primo Maggio la Festa dei lavoratori.
È interessante interrogarsi, oggi, sul ruolo che lo sciopero riveste nelle lotte sociali. Il dibattito è stato riaperto dalle vicende relative alla recente catena di scioperi culminata in quello del 17 novembre, indetto da CGIL e UIL (impropriamente definito ‘generale‘ da molti, come CGIL e Il manifesto) per diverse di categorie di lavoratori contro la legge di bilancio ora in discussione al Parlamento.
Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, dopo un lungo tira e molla ha disposto la precettazione parziale per i dipendenti del trasporto pubblico locale, riducendo l’astensione da 8 ore a 4 ore.
Tale decisione ha suscitato vaste polemiche da parte delle opposizioni e dei sindacati, che hanno accusato il governo di calpestare un diritto fondamentale, riconosciuto dall’articolo 40 della Costituzione. In alcuni casi si è arrivati ai ferri corti, come quando il segretario della CGIL Maurizio Landini, ospite a La7, ha affermato che Salvini “in vita sua non ha mai lavorato”.
Ma, al di là dei comprensibili strali, lo sciopero è davvero ancora oggi uno strumento sacrosanto di tutela sociale, o rappresenta solo un totem ideologico, utilizzato in maniera interessata e agitato a mo’ di spauracchio?
Lo sciopero oggi: il caso dei servizi pubblici
Prendiamo ad esempio il caso del TPL (trasporto pubblico locale), oggetto del contendere nelle cronache recenti: periodicamente, capita che uno studente od un lavoratore fuorisede, che il venerdì desidera solo tornare nel luogo d’origine per passare il weekend in pace, debba fronteggiare i molteplici disagi causati dall’astensione dal lavoro di ferrovieri o conducenti di autobus.
Le motivazioni di questi scioperi dei servizi pubblici sono spesso alquanto ‘curiose’, e di certo non molto pertinenti alle proprie condizioni di lavoro: lo sciopero del trasporto pubblico dello scorso 17 febbraio, indetto da USB (Unione Sindacale di Base) e SI Cobas, chiedeva, tra le altre cose, “il libero esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali”, nonché “il blocco delle spese militari e dell’invio di armi in Ucraina”!
Anche a trascurare l’inquietante ricorrenza di queste manifestazioni nella giornata di venerdì, non si può fare a meno di notare una marcata motivazione politica alla base di questi scioperi, piuttosto che la presenza di precise rivendicazioni dei lavoratori.
In effetti, anche nello sciopero di questo 17 novembre a motivazioni di buonsenso (e.g. sicurezza sul lavoro e aumento dei salari contro l’inflazione) se ne mescolano altre più demagogiche, come la soppressione della legge Fornero.
Al di là delle ragioni, però, di fronte allo sciopero del servizio pubblico sorge spontanea una domanda: ha davvero senso scioperare contro lo Stato, che in definitiva consiste nei cittadini stessi?
Mentre uno sciopero contro privati è sensato nella misura in cui crea un danno all’imprenditore, nel settore pubblico tale danno ricade sulla collettività intera, generando inevitabilmente frustrazione e astio tra la gente; e questo risentimento va a scapito delle cause promosse dalla protesta.
La protesta ha spesso delle buone ragioni, che però vengono offuscate da un metodo discutibile: un discorso simile a quello che si può fare per i blocchi statali o gli imbrattamenti promossi dagli attivisti di Ultima Generazione.
La normativa in effetti tiene già conto di questo ragionamento: la legge 146/1990 disciplina il diritto allo sciopero per quei servizi “volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione”.
Proprio a garanzia di tali diritti, sono previste delle fasce tutelate nelle giornate di astensione, e la facoltà del Governo in carica di precettare i lavoratori.
In questo senso il governo Meloni, esercitando il potere di precettazione nei confronti dello sciopero del 17 novembre, non ha fatto altro che rispondere con un atto politico ad un metodo di lotta, lo sciopero, che viene assumendo sempre più netti contorni politici.
Il sindacato oggi
Merita una riflessione anche il ruolo dei sindacati nell’Italia di oggi. A loro si devono molte delle più importanti conquiste sociali del passato. Oggi, invece, il loro ruolo non sembra più così incisivo.
Le organizzazioni dei lavoratori, paradossalmente, sembrano troppo sbilanciate a tutelare il non lavoro. Da una parte, infatti, promuovono riforme al limite del populismo, come sulle pensioni; e ciò è anche ragionevole, se si pensa che la maggioranza assoluta dei tesserati a CGIL e CISL è composta da persone a riposo!
Dall’altra parte, i sindacati tendono sempre più a privilegiare assegni di disoccupazione e reddito di cittadinanza, anziché spingere sull’occupazione di giovani e donne, che sono le categorie più fragili nel contesto lavorativo.
Le associazioni sindacali, inoltre, promuovono una visione assistenzialista del posto statale, usato come strumento di welfare e difeso a ogni costo, con buona pace della conclamata inefficienza della nostra Pubblica Amministrazione (salvo poche lodevoli eccezioni quali scuola e sanità, che pure devono subire tagli su tagli) e della sostanziale impossibilità di licenziare un dipendente fannullone.
Un interessante compendio della visione sindacale della società si può osservare nella “contromanovra” proposta dalla CGIL in alternativa alla legge di bilancio attualmente in discussione: un insieme di proposte confuse, finanziate da fondi inesistenti (mancano oltre 73 miliardi per il progetto!), e in ogni caso inutili per la ripresa strutturale dell’Italia.
L’unica utilità del sindacato sembra essere diventata il tornaconto personale dei suoi dirigenti, che lo usano spesso come trampolino di lancio per lidi più prestigiosi.
Tanto per fare un esempio, i due predecessori dell’attuale segretario della CGIL Landini, ovvero Guglielmo Epifani e Susanna Camusso, sono in seguito divenuti entrambi parlamentari; il primo nel 2013 è addirittura stato, per qualche mese, segretario del PD.
Uno sguardo al futuro
Il mondo del lavoro in Italia è un’autentica giungla, fatta di posti precari, salari da fame, poca o nessuna sicurezza, orari e condizioni disumani. In tutto questo, il lavoratore è di fatto lasciato solo, poiché i sindacati non hanno più la forza di difenderlo e la lungimiranza di fare scelte al passo con i tempi.
L’uso del diritto allo sciopero è solo uno dei sintomi di tale crisi. Il mondo del lavoro è profondamente cambiato negli ultimi decenni, anche grazie (e a causa) alla globalizzazione; ma le sigle sembrano non essersene accorte, con il risultato che le grandi multinazionali hanno potuto spadroneggiare su milioni di lavoratori.
La rinascita del nostro Paese, invece, deve cominciare da un maggior pragmatismo da parte dei sindacati italiani, che devono porsi come obiettivo l’aumento strutturale dell’occupazione e della produttività, e non la mera sussidiarietà del lavoratore.
Riccardo Minichella
Che senso ha uno sciopero dei servizi pubblici nel 2023? è un articolo di Riccardo Minichella. Clicca qui per leggere altri articoli dello stesso autore!