Cultura

Tina Merlin – La Cassandra del disastro del Vajont


Per i 60 anni dal disastro industriale del Vajont ricordiamo la giornalista Tina Merlin, inviata dell’Unità che denunciò i pericoli costituiti dalla diga e diede voce agli abitanti di quelle vallate contro l’omertà di un sistema basato sulla speculazione più sfrenata.


“La costruzione del bacino costituisce ed è considerata dagli abitanti un serio pericolo per il paese (ndr Erto), in quanto la zona è costituita da terreno franoso. Preciso che il paese è sorto su una valle riempita da terreno franato e quindi le erosioni sono assai pericolose”.

Questa è parte della deposizione che Celeste Martinelli, contadino di Erto, rilascia a favore di Tina Merlin, giornalista dell’Unità, durante il processo intentato dai dirigenti della SADE (Società Adriatica Di Elettricità) a lei e al quotidiano nel 1959.

Secondo l’accusa, l’articolo che Tina Merlin ha pubblicato il 5 maggio 1959 a proposito della gigantesca frana che era precipitata a Erto contiene “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”.

Il processo, che si conclude con l’assoluzione, accerta che i pericoli che Tina denuncia non sono fittizi, ma reali.

Nonostante questo, la voce della giornalista veneta rimane inascoltata per anni, non solo fino alle disastrose conseguenze che oggi portano il nome di Disastro del Vajont.

Merlin racconterà l’intera vicenda del disastro nel libro Sulla pelle viva pubblicato nel 1983, esattamente vent’anni dopo la tragedia. Ma esaminiamo i fatti dal principio.

Diga del Vajont nel 1963. Foto: Wikimedia Commons.

L’inizio dei soprusi

Al tempo del processo, era da 3 anni che Tina Merlin, inviata dell’Unità di Belluno, si stava occupando della situazione del piccolo comune sparso di Erto e Casso, situato nella valle del Vajont al confine occidentale della provincia di Pordenone (Friuli Venezia Giulia). Gli abitanti erano in difficoltà a causa degli espropri messi in atto dalla SADE, che nel 1957 aveva cominciato i lavori per la creazione di un grande bacino artificiale sbarrato da una diga.

Seguendo la notizia degli espropri e del disappunto dei valligiani, Tina Merlin si interessò al caso, cominciando a parlare con i montanari del luogo per ascoltare le loro preoccupazioni.

in poco tempo, venne a scoprire che la SADE aveva acquistato i terreni per la sua diga a un prezzo molto più basso rispetto al valore di mercato. La società era riuscita a imporre un vero e proprio ricatto ai contadini: o accettavano le cifre imposte dal monopolio, oppure subivano gli espropri “di autorità”, in nome della “pubblica utilità”.

Nonostante la pressione esercitata dalla SADE, che al tempo era un colosso nel campo dell’energia italiana, Tina Merlin si mise subito a scrivere per dare voce agli abitanti delle piccole frazioni di montagna.

Come riportò nell’articolo di domenica 13 ottobre 1963, sempre sul quotidiano comunista: “Non era lotta contro il progresso, ma contro chi in nome del progresso si riempiva il portafoglio a spese altrui”.

Articolo di Tina Merlin del 5 maggio 1959. Foto: Corriere delle Alpi.

Prima del disastro: la preparazione ai lavori

Intanto i lavori per la costruzione della diga procedevano spediti e con essi crescevano i disagi per i residenti. Ad esempio, la realizzazione del lago artificiale avrebbe scollegato alcune frazioni di Erto dal centro dell’abitato.

Gli ertani chiesero così la costruzione di una passerella per collegare i due versanti. La SADE inizialmente sembrò accogliere la richiesta degli ertani; ma poi, grazie al suo potere e alle amicizie tra i funzionari dello Stato, ottenne un’altra concessione dal Ministero, che esonerò l’azienda dalla costruzione della passerella.

Al suo posto, SADE avrebbe costruito una strada di circonvallazione, di fatto un “lungo e accidentato percorso” (13/10/1963) realizzato sul Monte Toc, soggetto a numerose frane.

Gli ertani si opposero e l’amministrazione comunale inoltrò un promemoria al Genio civile di Belluno affinché il Ministero dei lavori pubblici venisse informato della situazione. Non si ottenne nulla però, e la SADE poté cominciare a costruire la strada. 

Le prime frane e il processo

Fu appunto durante questi lavori che cominciarono a verificarsi le prime frane. Quella del 22 marzo 1959 fu la più significativa: una massa di 3 milioni di metri cubi crollata dai monti Castellin e Spiz precipitò nel bacino artificiale Pontesei, provocando un’onda che sormontò la diga di almeno 7 metri. Quel giorno ci fu una vittima, l’operaio Arcangelo Tiziani

Gli ertani, però, non si persero d’animo nel denunciare l’ingiustizia degli espropri e nel mostrare la loro preoccupazione per quanto riguardava la costruzione della diga. Il 4 maggio del 1959, riuniti in assemblea, costituirono il Consorzio per la difesa della valle ertana, cui aderirono 136 capifamiglia.

Tina Merlin
La diga nel 1963, pochi mesi prima del crollo. Fonte: Wikimedia.

Tra di loro c’era anche Tina Merlin, che per l’occasione scrisse l’articolo (pubblicato il giorno dopo, 5 maggio) per il quale SADE le fece causa.

La denuncia, però, non intimorì la giornalista, che continuò a scrivere articoli in cui descriveva la formazione di fenditure sul monte Toc. Quei pezzi costituirono probabilmente – come affermato in seguito dalla giornalista – la sua più consistente difesa al processo, insieme alle testimonianze dei contadini di Erto, arrivati a Roma per schierarsi dalla sua parte. Il Tribunale non potè negare l’evidenza: i fatti denunciati erano veri, il pericolo era reale. Nemmeno la sentenza di un tribunale, tuttavia, venne ascoltata. 

Cronaca di un disastro annunciato

Il 4 novembre 1960, a un mese dall’immissione delle acque nel bacino del Vajont, un’enorme frana (di circa 700 mila metri cubi di terra) si staccò sulla sponda sinistra del Toc – poco sopra la diga – e cadde nel lago artificiale. Gli ertani, allarmati, non si stupirono affatto dell’accaduto: quel monte si chiama ‘Toc’ proprio perché in friulano questo termine significa marcio. E, come il monte, tutto il paese di Erto poggiava su terra argillosa, la quale, come confermavano i geologi, non era adatta per la costruzione di un bacino idrico artificiale.

Immagine del Monte Toc, oggi. Fonte: Wikimedia.

Il materiale franato fece alzare il livello dell’acqua di un metro e dieci centimetri, ma non ci fu nessuna vittima. Un puro caso, secondo Merlin. Come riportato in un suo articolo pubblicato tre giorni dopo: “La frana ha fatto sollevare un’immensa colonna d’acqua che ha spezzato come fuscelli i muri delle case ancora in piedi. Ora non si vedono più e sembra che non siano mai esistite”.

Con questo articolo, la giornalista veneta cercò, ancora una volta, di inviare un chiaro segnale di allarme: si parlava di un “pericolo incombente” creato dai continui cedimenti del terreno, nonché da larghe fenditure apertesi nella terra ed estese per diversi chilometri nella zona. Anche in questo caso, tuttavia, le parole della giornalista caddero nel silenzio delle istituzioni.

Trafiletto pubblicato sull’Unità locale l’8 novembre 1960. Foto: Archivio dell’Unità.

L’inizio della fine

Tre mesi dopo, in un articolo del 21 febbraio 1961, Merlin denunciò che il danno si era fatto irreparabile: “Una enorme massa di 50 milioni di metri cubi di materiale, tutta una montagna sul versante sinistro del lago artificiale sta franando. Non si può sapere se il cedimento sarà lento o se avverrà con un terribile schianto”.

Come ebbe modo di constatare anche il geologo austriaco Leopold Müller, la frana in corso non poteva più essere fermata. Quel che si poteva fare, semmai, era provare a gestirla. La SADE, però, non si fermò nemmeno dinanzi al parere di geologi esperti. I dirigenti volevano ottenere un grande risarcimento dallo Stato, così velocizzarono le procedure per concludere i lavori in tempo.

La diga, oggi. Fonte: Wikimedia.

Nel 1961, su incarico della SADE, il direttore dell’Istituto di Idraulica di Padova, Augusto Ghetti, mise a punto un modello di diga in scala 1:200 per testare gli effetti della frana.

Secondo questo modello, l’invaso non avrebbe dovuto superare i 700 metri, altrimenti, in caso di frana, si sarebbe creata un’onda d’acqua nel bacino che avrebbe sormontato la diga, provocando conseguenze disastrose.

Ghetti scrisse nella sua relazione che già la quota di 700 metri poteva considerarsi “di assoluta sicurezza nei riguardi anche del più catastrofico prevedibile evento di frana”. A partire dal marzo 1963, a seguito della nazionalizzazione dell’azienda (confluita nell’Enel), i nuovi dirigenti decisero, nonostante gli avvertimenti di Ghetti, di portare l’invaso a 715 metri

Questo causò un’accelerazione dei movimenti della frana, già individuata da Muller. 

Si diede allora inizio allo svaso, che tuttavia non poté fermare il corso degli eventi. Il 9 ottobre 1963 la frana, lunga oltre 2 kilometri, precipitò nel bacino del Vajont.

Le onde generate spazzarono via diverse località nella zona di Erto, causando la morte di circa 2000 persone

Il paese di Longarone distrutto. Foto: Archivio Fotografico del PCI.

Il dolore di una tragedia evitabile

L’11 ottobre, due giorni dopo la tragedia, L’Unità pubblicò un articolo di Tina Merlin sull’accaduto. “È stato un genocidio”. Queste furono le parole di Tina. Non erano di resa o di sconforto, non erano dovute (solo) alla disperazione: erano grida di rabbia, le grida dei sopravvissuti. “Genocidio quindi, da gridare ad alta voce a tutti, affinché il grido scuota le coscienze del popolo […], la cui pelle non conta mai niente di fronte ai dividendi dei padroni del vapore”.

Nell’articolo la giornalista si disse piena di rimorsi “per non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsima allo stesso tempo concluse: “Oggi, tuttavia, non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa.

Le difficoltà non terminarono, però, in seguito alla tragedia. I responsabili del disastro cercarono in ogni modo di nascondere la verità. Si voleva far credere che tutto fosse stato causato da un evento naturale. Tina Merlin, che aveva denunciato fin da subito le irregolarità dovute alla costruzione della diga, non si stancò mai di ripetere che non si trattava di una casualità: dietro a quella tragedia c’era la mano dell’uomo, c’era il potere della SADE.

Lapide commemorativa delle vittime. Foto: Wikimedia.

Per via di questo impegno a sostegno delle popolazioni colpite, Tina venne messa all’indice dal mondo mediatico: Indro Montanelli accusò la giornalista di essere “uno sciacallo sguinzagliato dal partito comunista per fomentare odio”; allo stesso modo, Giorgio Bocca sminuì il lavoro della Merlin, sostenendo che la tragedia non fosse dovuta a colpe umane. 

Pochi giorni dopo il disastro la giornalista dell’Unità fu intervistata dalla televisione pubblica francese, ma in Italia, dopo le forti pressioni del governo Leone I, l’intervista fu censurata. Oggi, però, nonostante i tentativi di nascondere fino alla fine la verità, sappiamo che la tragedia del Vajont è stata causata da un disastro industriale, e non dalla natura. Sappiamo chi sono i colpevoli e anche che la Legge avrebbe potuto e dovuto fare di più.

Tutto questo grazie a una giornalista partigiana che ha seguito la vicenda “con passione non soltanto di giornalista, ma di figlia di questo popolo contadino e montanaro” (11/10/1963), oppresso dalle ingiustizie del potere. Si può concludere con le stesse parole dell’articolo del 13 ottobre 1963:

Non sono né più brava né più coraggiosa di tanti miei colleghi. Non volevo diventare così tragicamente famosa quando scrivevo contro la SADE. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita.

Tina Merlin, 13 ottobre 1963.

Riccardo Gardi

(In copertina, foto dall’Unità)


Tina Merlin – La giornalista del popolo che scrisse la verità sul disastro del Vajont è un articolo di Riccardo Gardi che parla di Verità. Per maggiori apprendimenti su questa tematica visita il nostro percorso tematico dedicato!

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