
Il 18 novembre 2023 un’altra sorella ci ha lasciate, uccisa dal figlio sano di una società malata che continua a preferire un regime di terrore per le donne piuttosto che un’educazione per gli uomini.
La scomparsa di Giulia
Giulia Cecchettin, scomparsa lo scorso 11 novembre, è stata ritrovata senza vita a mezzogiorno e mezza del 18 novembre nel lago di Barcis.
Da quando ho saputo della sua sparizione, ho pensato a lei ogni giorno, a situazioni alternative che non contemplassero la sua morte. Anche se devo ammettere che, viste le numerosissime notizie di femminicidi e di violenze, purtroppo ormai sono giunta ad un punto in cui se una donna sparisce, penso subito al peggio.
La cosa più sconvolgente è che centinaia, anzi migliaia, di persone oltre a me sapevano già cosa fosse successo, ancor prima che i giornali dessero la notizia del suo ritrovamento.
D’altronde, perché mai si sarebbe dovuta allontanare di sua spontanea volontà? Aveva una famiglia, degli amici che la amavano e il 16 novembre sarebbe dovuto essere il suo giorno: il giorno in cui si sarebbe laureata all’università di Padova, nella facoltà di ingegneria biomedica.
Dire che provo amarezza sarebbe riduttivo, ma non c’è più spazio per la sofferenza: in realtà, il sentimento predominante è la rabbia.
Parlando con molte mie sorelle, la domanda più scontata, ma anche quella più difficile a cui rispondere, è stata “Perché?”. Perché un ragazzo così giovane, di fronte a una delusione d’amore come tante, non vede altra soluzione che uccidere la ragazza che non lo ama più?
Perché una persona che ha tutta la vita davanti non riesce a sopportare un rifiuto senza passare alla violenza?
La normalizzazione della violenza di genere
Mentre scrivo queste parole e la mia rabbia aumenta, vi dirò che l’unica conclusione a cui siamo giunte è che ormai la violenza è così scontata e gratuita che non c’è una ragione dietro a tanto strazio.
La malattia di questa società aumenta e si espande a macchia d’olio, arrivando anche ai ragazzi più giovani. Noi siamo le prede, loro i cacciatori. E se ci sottraiamo, siamo noi a doverne pagare le conseguenze.
Il fattore culturale è sicuramente l’elemento preoccupante. Mi ha particolarmente colpita un frammento di intervista fatta al padre dell’assassino di Giulia. Parlando della loro dinamica di coppia, ha dichiarato: “[…] mio figlio a volte era un po’ possessivo, ma non in modo patologico, come lo descrivono. Era geloso come lo sono i ragazzi a quell’età, non in modo da farci allarmare, insomma”.
Ad essere responsabili non sono solo i genitori, che potrebbero essere più in difficoltà nel riconoscere dei segnali preoccupanti.
Ad essere colpevole è lo Stato stesso: è dal 2014 che una proposta di legge ordinaria incentrata sull’istituzione di percorsi didattici e programmi di educazione alla parità di genere, all’affettività e alla sessualità consapevole è in corso di esame da parte della Commissione. Mentre aspettiamo, ogni due giorni (circa) viene uccisa una donna.
Il ruolo dei media
Oltre a tutto ciò, quello che ho trovato più rivoltante è stata la narrazione dei media di questa vicenda. Infatti, Filippo Turetta è un ventenne universitario con una famiglia e una vita perfettamente ordinaria, che non frequenta “brutti giri” e che non ha alcun lavoro sospetto.
Sarebbe stato fin troppo bello se i giornali avessero preso questo elemento e l’avessero reso la morale di cui abbiamo davvero bisogno: questa mentalità violenta potrebbe essere davvero in chiunque, a prescindere dal suo ambiente, dalla sua religione o dal colore della sua pelle.
Invece, i titoli beceri si moltiplicano ora dopo ora, riproponendo in tutte le salse la retorica del “bravo ragazzo” che addirittura si trovava in cura dallo psicologo per superare la delusione della rottura e l’essere indietro con gli esami universitari.
La colpevolizzazione delle vittime
Un altro tema che non fa altro che alimentare il regime di paura costante in cui siamo circondate è che tutte queste tragedie, secondo molti, dovrebbero “insegnarci qualcosa”. Ad esempio, che non si va all’incontro con gli ex fidanzati, perché potrebbe essere l’ultimo; o che non dobbiamo mostrarci accomodanti o amichevoli con chi abbiamo lasciato, per non dare false speranze.
Intorno a questi falsi insegnamenti vi è in realtà una vera e propria ipocrisia di fondo, che non fa altro che deresponsabilizzare ulteriormente chi davvero commette l’errore, ossia chi uccide.
Infatti, osservando una situazione in via ipotetica, è sempre colpa della vittima: se si allontana subito è “esagerata” e se dà poca confidenza perché ha riconosciuto dei segnali allarmanti è “prevenuta”.
La società patriarcale che ci circonda punterà sempre il dito sulla donna e dirà che ha sbagliato, occorre riconoscerlo ed esserne consapevoli.
Cosa ci resta?
Nonostante tutto questo, sopravvive la speranza di vedere nel breve termine una maggiore attenzione sul tema; sogno un Paese in cui chiedere aiuto ed essere ascoltate sia semplice, o anche solo possibile, senza che denunciare sia un rischio per le donne.
A lungo termine, invece, sogno una generazione che, stanca di tanta violenza, sia più consapevole e impari a mettere a fuoco un problema che ormai ha raggiunto delle dimensioni immense.
Vorrei concludere con quanto detto in un’intervista da Elena, la sorella di Giulia, che, nonostante l’angoscia e l’incertezza di poter riabbracciare sua sorella, ha voluto lasciarci queste parole:
Per me è importante parlare soprattutto alle ragazze, più soggette alla violenza di genere: se vi riconoscete in situazioni dove non vi sentite sicure o vi sentite pressate, schiacciate, e non sentite che la vostra liberà sia piena a causa di un partner, chiedete aiuto. Non è mai vostra la colpa, in alcun modo.
Elena Cecchettin
Federica Marullo
(In copertina, immagine da Freepik)