Cinema

È un cinema di vecchi, da Scorsese all’Italia – Chi ci salverà?

Registi storici italiani

In una calda giornata di maggio, in una cittadina a ridosso del mare di nome Cannes, in una stanza colma di giornalisti, un annunciatore emozionato presenta gli ospiti della conferenza stampa più attesa dell’anno. Tra di essi, monsieur Martin Scorsese, regista che ha più volte salvato il cinema mondiale. E come lui tanti altri, anche in Italia – mai i giovani.


Questo eterogeneo gruppo di star e nativi americani si trova a Cannes per presentare al festival l’ultimo lavoro di Martin Scorsese: Killers of the Flower Moon (2023).

Si tratta di un thriller epico di più di tre ore sull’ascesa economica e la conseguente caduta della Nazione Osage, una tribù di indiani d’America che ebbe la fortuna di scoprire il petrolio nel sottosuolo della loro riserva in Oklahoma all’inizio del XX secolo.

Alla conferenza, le domande dei giornalisti sono numerose e coprono una vasta gamma di argomenti, tentando di discutere ogni aspetto rilevante del film.

Leonardo DiCaprio e Lily Gladstone in una scena del film (Foto: Festival de Cannes).

Si parla di cinema, di storia, di attualità, di comunità indigene e delle carriere delle persone sedute al banco.

Fra tutte le domande, le più interessanti sono proprio quelle rivolte al regista: per esempio, è significativo l’intervento di un giornalista canadese che chiede a Scorsese come mai abbia scelto di girare un film del genere alla sua età. Al che egli risponde sardonicamente: “What else can I do?”, facendo ridacchiare l’intera sala.

L’incredibile coraggio di Martin Scorsese

Il regista di Taxi Driver (1976) ha ormai ottant’anni e non ha il tipico viso di quei bellocci hollywoodiani che affollano i talk show.

La sua faccia è simpatica come quella di alcuni suoi personaggi e gravata da molte rughe. I capelli sono bianchi come il marmo, né brizzolati né tinti di nero. Ha due grandi occhiali con la montatura spessa, è molto basso e un po’ tarchiato, dalla voce stridula.

Martin Scorsese (Foto: Brigitte Lacombe).

Ogni volta che lo osservo, mi stupisco del suo aspetto ordinario e penso che, se non sapessi chi è, lo identificherei più facilmente con un signore anziano seduto al bar di un paese siciliano piuttosto che con “our nation finest filmaker“, come una giornalista nella conferenza stampa di Cannes ha voluto definirlo.

Eppure, Scorsese non è per niente uno di quei vecchi che leggono il giornale e giocano a bocce nella calura estiva. È un uomo ancora lontano dal suo pensionamento, ricchissimo, ma che ancora non si arrende all’immobilità, e che sceglie di produrre, dirigere e scrivere pellicole di grande coraggio e impegno sociale.

In questo modo, un grande regista con alle spalle numerosi capolavori quali Taxi Driver (1976), Toro Scatenato (1980) e Quei bravi ragazzi (1990) si è rimesso in gioco e ha diretto, dopo i suoi settant’anni, pellicole quali The Wolf of Wall Street (2013) e Killers of the Flower Moon (2023), di pregio non minore rispetto ai suoi precedenti lavori.

E l’incredibile coraggio di altri vecchi

Se ciò non fosse abbastanza sconvolgente, bisogna ricordare che Scorsese non è l’unico a combattere l’avanzare dell’età.

Spielberg ha settantasei anni, eppure, con cadenza quasi annuale, esce al cinema con film sempre più avvincenti e spettacolari, rinnovandosi e cambiando genere praticamente a ogni nuovo lavoro.

Steven Spielberg (Foto: Il Fatto Quotidiano).

E così hanno scelto di fare anche altri registi: Ridley Scott, Roman Polanski, Clint Eastwood e soprattutto Francis Ford Coppola, che da tempo si è imbarcato in un’impresa simile a quella che tentò più di quarant’anni fa con Apocalypse Now (1979), investendo perfino un’ingente parte del proprio patrimonio per portare a termine il kolossal Megalopolis, di prossima uscita.

Gli anziani del cinema italiano

Questi vecchi sono gli stessi uomini che rivoluzionarono il cinema statunitense negli anni Settanta con la Nuova Hollywood, quelli che portarono nei loro film narrazioni più mature e introdussero generi nuovi, altrimenti sconosciuti nel panorama americano.

Oggi, allo stesso modo, portano una nuova ventata di idee e di cambiamento nel cinema contemporaneo. Sebbene meno energici di prima, la loro esperienza e reputazione li hanno resi praticamente degli intoccabili monumenti nazionali e delle infallibili macchine di successi al botteghino.

Alcuni dei protagonisti della Nuova Hollywood. Da sinistra Martin Scorsese, Steven Spielberg, Francis Ford Coppola e George Lucas (Foto: The Vision).

C’è da dire, però, che questo processo non ha coinvolto soltanto i cineasti statunitensi. Lo stesso fenomeno, in proporzione minore, è accaduto anche dentro il cinema italiano. Vecchi e affermati cineasti hanno innovato il cinema nostrano, seppur con un successo più tiepido nelle sale e con un altalenante interessamento della critica.

Cionondimeno queste pellicole, girate da vecchi “mostri” del cinema italiano, possono essere considerate felicissime sperimentazioni a coronamento di eccellenti filmografie. E gli eventuali insuccessi rivelano qualcosa più su di noi che su di loro. I loro film restano film coraggiosi che sarebbe giusto recuperare, affinché non siano vittime di una seconda disfatta oltre quella commerciale: l’oblio.

Ermanno Olmi

Bisognerebbe entrare nella testa di uno come Ermanno Olmi per capire cosa lo ha spinto, all’età di settant’anni, dopo un passato di film di ambientazione per lo più realista e contemporanea, ad andare a girare un film come Il mestiere delle armi (2001), la vera storia del condottiero Giovanni delle Bande Nere che, con i suoi mercenari, si oppose all’avanzata dei lanzichenecchi nel XVI secolo.

Ermanno Olmi registi Italia.
Ermanno Olmi (Foto: Rai Cultura).

Girato tra l’Italia e la Bulgaria, è un film come ne esistono pochi nell’orizzonte del cinema italiano. Servendosi di un episodio storico dimenticato, Il mestiere delle armi racconta i cambiamenti tecnologico-strategici della rivoluzione militare cinquecentesca, evidenziando il passaggio da un antico stile di combattimento (con spade e cavalieri) a un nuovo modo di fare la guerra (con cannoni e baionette).

È un film inevitabilmente lento in cui la vera protagonista dell’opera è la morte, che può sopraggiungere con lentezza o nella frazione di uno sparo. Anche la guerra viene rappresentata così: fatta di attese, paranoia e malattia, piuttosto che di azione vera e propria.

Fu una scommessa che si rivelò vincente, tanto che la pellicola, forse aiutata dal senso di novità generato nella critica, vinse ben quattro David di Donatello.

Probabilmente convinto di poter replicare un tale successo, Olmi andò in Montenegro l’anno successivo e diresse Cantando dietro i paraventi (2003): la storia della vedova Ching, una famosa piratessa cinese del XIX secolo.

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Cantando dietro i paraventi (2003). Foto: Cinalci.

Anche qui, laddove ci si aspetterebbe una spettacolarizzazione esasperata e sequenze di battaglie, dal film emerge una glorificazione della pace piuttosto che della guerra.

Dopo questo lavoro, Olmi ne girò altri estremamente pregevoli, come Torneranno i prati (2014), ambientato nelle trincee italiane della Prima Guerra Mondiale.

Purtroppo, però, questa parte della sua filmografia risulta praticamente introvabile sulle piattaforme streaming.

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Una scena di Torneranno i prati (Foto: CineCriticaWeb).

Mario Monicelli

Nel 2004, alla veneranda età di ottantotto anni, Mario Monicelli andò in Nordafrica, una regione che conosceva bene perché vi aveva già girato alcuni film. Ci tornò per ambientarvi il suo ultimo lavoro: Le rose del deserto (2006).

Le rose del deserto si può definire il suo testamento, un inno comico e malinconico all’epoca più scanzonata del cinema italiano, quella che riusciva a rendere ironica la tragedia del mondo.

La pellicola è ambientata ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, ricordando una versione più cruda e amara del film Mediterraneo (1991) di Salvatores.

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Le rose del deserto (Foto: CultFrame).

Il contingente italiano è composto da soldati di buon cuore, sempre impegnati a fare la cosa giusta, seppur schierati dalla parte sbagliata del conflitto e in balia degli ordini dei comandi tedeschi. Soffrono l’apatia e l’incertezza della guerra, mentre marciano sotto un sole incessante. Come Olmi, Monicelli vuole raccontare la realtà della guerra, senza rinunciare però a una punta di comicità.

I fratelli Taviani

I fratelli Vittorio e Paolo Taviani, due giganti del cinema italiano, all’età, rispettivamente, di ottantuno e ottantatré anni, arrivarono in sala con un film dal genere e dall’ambientazione completamente diversi rispetto al resto della loro filmografia.

Cesare deve morire (2012) è un docu-drama che racconta la vera storia di un allestimento del Giulio Cesare (1599) di Shakespeare ad opera dei carcerati di Rebibbia.

registi Italia fratelli Taviani.
I fratelli Taviani (Foto: Lucca Film Festival).

Ex-camorristi, ladri e assassini cercano un riscatto nelle loro vite attraverso l’arte, mettendo in scena un’opera teatrale che parla di vendetta, tradimento e onore. Il tutto filmato in un bianco e nero che cerca di trasporre l’oscurità delle loro esistenze nel penitenziario.

I fratelli Taviani mostrano le prove delle varie scene tra le mura del carcere: man mano, il trasporto cresce e gli attori non possono fare a meno di notare dei parallelismi tra il contenuto della messinscena e la loro esperienza di vita criminale.

Durante le prove, mentre piangono, si arrabbiano e combattono, i prigionieri vengono informati degli esiti dei procedimenti giudiziari in cui sono coinvolti. Fino allo spettacolo conclusivo, in un teatro di posa, che si risolve in un generale trionfo.

La pellicola si ferma pressoché a questo punto. Non prima, però, di averci mostrato l’umiliante ritorno in cella degli attori che, dopo essere stati Bruto, Cassio e Giulio Cesare, si scontrano con la piccolezza e la delusione della loro vita in gabbia.

In seguito, diressero altre due bellissime opere: Maraviglioso Boccaccio (2015) e Una questione privata (2017), tratte rispettivamente dal Decameron e dall’opera di Beppe Fenoglio.

Dopodiché Vittorio morì, e Paolo diresse da solo Leonora Addio (2022), film che esplora l’intricata vicenda delle ceneri di Pirandello.

Di tutta la loro produzione, però, Cesare deve morire è certamente il film più sorprendente e anche il più icastico.

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Vittoria Puccini e Riccardo Scamarcio in Maraviglioso Boccaccio (Foto: Filmitalia).

Ettore Scola

Dopo dieci anni dal documentario Gente di Roma (2003), si pensava che Ettore Scola non avrebbe mai più diretto niente.

Inaspettatamente, invece, scelse di tornare per celebrare un amico, Federico Fellini, nel ventennale della sua scomparsa.

Mise in scena un variopinto collage di aneddoti che si muove tra magia e realtà, un commovente ritratto dal titolo Che strano chiamarsi Federico (2013).

La locandina di Che strano chiamarsi Federico (Foto: MYmovies.it).

Già all’inizio del film, viene mostrato il primo incontro tra Scola e Fellini, presso la redazione del giornale satirico Marc’Aurelio, in cui il futuro regista riminese dà mostra del suo genio paradossale e scanzonato. La seconda parte del film, invece, è dedicata alla collaborazione tra i due cineasti negli studi di Cinecittà.

Che strano chiamarsi Federico è un film che ritrae e che prova ad assomigliare al cinema di Fellini. Ne emerge un affresco vivace e ingegnoso della Città Eterna degli anni Cinquanta e Sessanta, una città dove anche un giovane ragazzo venuto da Rimini poteva sognare di diventare il più grande regista di tutti i tempi.

Nonostante il tono leggero, il film suscita inevitabilmente una sensazione di nostalgia. Da elementi quali l’utilizzo del bianco e nero e la scelta di autorappresentarsi, si legge un profondo senso di malinconia da parte di Scola, forse consapevole che quello sarebbe stato il suo commiato: si spense a Roma tre anni dopo.

Marco Bellocchio

Ci sono due cineasti che rappresentano un’eccezione rispetto agli altri autori qui presentati. Sono riusciti a vincere la sfida del tempo, aggiornando sé stessi e il proprio cinema.

È il caso di Marco Bellocchio e Nanni Moretti, che hanno saputo come essere ancora incisivi mettendo in scena opere sempre vitali e innovative.

In particolare, Bellocchio ha recentemente diretto Esterno notte (2022), una serie tv di altissima qualità.

Marco Bellocchio registi Italia.
Marco Bellocchio (Foto: Wikipedia).

A quasi vent’anni dal bellissimo Buongiorno, notte (2003), il regista ottantaduenne ha deciso di raccontare di nuovo gli anni di piombo e narrare con una nuova maturità i giorni della prigionia di Aldo Moro.

Sfruttando lo stile della serie tv, Bellocchio allarga lo sguardo della cronaca, illustrando i ruoli svolti dalla politica, dal clero e dalle forze armate, senza tralasciare la sofferenza della famiglia Moro e le vite sotto copertura dei brigatisti artefici del rapimento.

Ne emerge un ritratto molto cupo delle istituzioni italiane e una sprezzante critica all’ingenua ideologia che animò i terroristi responsabili.

Marco Bellocchio 2 registi Italia.
Foto: Anna Camerlingo (Il Messaggero).

Nanni Moretti

Nanni Moretti, invece, procede nella strada opposta. Con il suo ultimo film, Il sol dell’avvenire (2023), sceglie di riportare come al solito una sorta di autofiction della propria vita. Ma Moretti si rende conto che il comunismo, da sempre sfondo del proprio cinema, oramai non c’è più.

Mette allora in scena i dissidi di un cineasta contemporaneo che prova a realizzare un film su una sezione locale del partito comunista negli anni Cinquanta, creando così un parallelismo tra le speranze dell’Italia di allora e i numerosi problemi di una società senza ideali come la nostra.

Nanni Moretti registi Italia.
Nanni Moretti in una scena del film (Foto: Corriere della Sera).

Moretti, in questo modo, rinnova ideologicamente la propria appartenenza al Partito, mostrando il comunismo come una realtà popolata da persone comuni, e non da vertici, negli anni in cui il PCI si allineò a Mosca nel condannare la rivoluzione ungherese del 1956.

Il cinema italiano salvato dagli anziani

Questi grandi registi del cinema italiano hanno dimostrato che la vena di coraggio e la vitalità del loro cinema non si possono estinguere con l’avanzare dell’età.

Hanno sperimentato, innovato, ribaltato gli stilemi che li contraddistinguevano, senza replicare gli approcci usati nei loro lavori precedenti.

Ognuno di questi registi ha fatto il proprio cinema senza andare a caccia di incassi facili. Ed è questo, forse, che ce li fa apprezzare più della loro veneranda età.

Non resta che prendere nota della loro incredibile voglia di mettersi in gioco. Il loro coraggio riprova come il nostro Paese e il nostro cinema siano fuori dall’ordinario.

Nel cinema italiano contemporaneo, infatti, non si prova più a innovare e imboccare strade impervie. Gli unici a farlo sono i vecchi: loro fanno quello che dovrebbero fare i giovani.

Giorgio Ruffino

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