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4 guerre dimenticate nel mondo, dallo Yemen al Myanmar

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La mattina del 7 ottobre 2023 ci è tornato in mente che nel vicino Oriente una guerra imperversa da più o meno settant’anni. C’era anche chi non era mai stato a conoscenza di questo conflitto, ma – spero – si trattava di una minoranza. Il resto del mondo, cittadini e istituzioni, aveva semplicemente deciso che c’erano situazioni più importanti a cui prestare attenzione, come ad esempio il ruolo della pesca nella pubblicità di un supermercato nel dibattito sulla famiglia tradizionale.


Negli ultimi giorni il conflitto tra Israele e Palestina è tornato alla ribalta, assumendo una forma che risulta difficile, se non impossibile, da ignorare. Ed ecco che all’improvviso le bacheche online si riempiono di dichiarazioni sulla questione e i discorsi dei politici si costituiscono di termini come “condanna”, “supporto”, “crimine” e “violenza inaudita”.

Abbiamo tutti gli occhi puntati sulla striscia di Gaza e abbiamo tutti qualcosa da dire in merito.

Come al solito, però, l’estrema attenzione che poniamo sull’ultimo episodio di cronaca ci fa indossare il paraocchi: così come fino a una settimana fa nessuno si ricordava del conflitto israelo-palestinese, ora sono altri gli eventi e le aree del mondo di cui ci siamo dimenticati.

Basti pensare che, dal momento dell’attacco di Hamas, migliaia di persone sono morte sotto le macerie di due terremoti in Afghanistan.

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Effetti del terremoto in Afghanistan (Foto: Omid Haqjoo/Associated Press).

Dovrebbe essere ovvio, la nostra attenzione è limitata, così come le pagine dei giornali e i minuti delle notizie in tv. Non si può sapere tutto, non si può avere occhi ovunque. La mia domanda, tuttavia, è: non si può o non si vuole?

I conflitti che non ricordiamo

Mi pare che la comunità internazionale presenti un particolare caso di amnesia selettiva: si dimentica di ciò che le fa comodo dimenticarsi e lo riporta alla memoria solo quando le conviene ricordarlo. Il 7 ottobre la comunità internazionale si è ricordata del conflitto israelo-palestinese, che risiedeva latente da anni nella sua mente.

Vorrei allora provare a recuperare anche altri conflitti armati che stazionano dormienti nella memoria collettiva e che aspettano solo l’occasione per essere svegliati.

Se ce ne ricordiamo solo nel momento della crisi, infatti, è probabile che le nostre belle parole di condanna o supporto non potranno fare molto per risolvere la situazione. Se invece li avessimo tutti bene in mente, e ci lavorassimo in anticipo, forse potremmo evitare alcune delle “atrocità” che tanto ci scandalizzano.

Prenderò ora in considerazione quattro guerre dimenticate la cui violenza si protrae, tra alti e bassi, da decenni, e che dal loro scoppio hanno figurato nelle pagine dei giornali sì e no un paio di volte.

Ci sono ovviamente tante altre situazioni di pari importanza che dovrebbero essere considerate, ma in questo caso devo ammettere che è vero: non posso parlare di tutto, perché le parole di un articolo sono limitate.

1. Yemen

Le origini del conflitto

Vorrei davvero sapere quanti di voi erano a conoscenza del fatto che in Yemen un conflitto civile impervia da otto anni, e che le sue origini risalgono a secoli fa. Anzi, vorrei sapere quanti sono in grado di posizionare lo Yemen in una mappa.

Eppure, nel 2017 le Nazioni Unite hanno definito quella in Yemen come la peggiore crisi umanitaria al mondo.

Dopo anni di conflitti tra il Nord e il Sud, nel 1991 lo Yemen si unifica. La principale differenza tra le due parti è di natura religiosa: mentre la maggioranza della popolazione è musulmana sunnita, l’area delle alture settentrionali è abitata da sciiti zaiditi.

Le tensioni non si allentano, e nel 2011, sull’onda delle primavere arabe che prendevano piede in altri paesi arabi, anche la popolazione yemenita insorge, protestando contro l’autoritarismo di Ali Abdullah Saleh, al potere da 33 anni.

Quando Saleh si dimette, cedendo il posto al suo vice, Mansur Hadi, la tensione sembra allentarsi. Tuttavia, una parte della popolazione residente nel Nord del paese percepisce i suoi interessi come esclusi dal passaggio di potere: sono gli Houthi, che decidono di ribellarsi.

Tra il 2014 e il 2015 i ribelli occupano la capitale Sana’a e rovesciano il governo Hadi. Quest’ultimo scappa a Aden, una città nel Sud del paese che diventa così la nuova capitale governativa dello Yemen.

L’internazionalizzazione del conflitto

L’ex presidente Saleh decide di instaurare un’alleanza con gli Houthi in funzione antigovernativa e sgancia un attacco nel Sud del Paese. Hadi si rifugia a Riad.

L’Arabia Saudita decide allora di intervenire, seguita a ruota da altri paesi.

Sembra che quella in Yemen diventi una guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran: la prima, sunnita, a sostegno del governo centrale, mentre il secondo sciita, al fianco degli Houthi.

Gli schieramenti nel maggio 2021.
Foto: Political Geography Now (The Economist).

Gli scontri tra Houthi e Sauditi si fanno sempre più violenti, finché nel 2020 Riad annuncia un cessate il fuoco. Ad aprile 2022 entra in vigore una tregua di due mesi tra gli Houthi e il Consiglio Presidenziale, un nuovo organo creato con l’obiettivo di creare un fronte unito contro i ribelli.

La tregua viene rinnovata due volte, ma decade ad ottobre 2022. Da allora i conflitti armati continuano, anche se l’Oman si sta impegnando per instaurare una mediazione e l’Arabia Saudita sembra non avere più tanta voglia di sponsorizzare il Consiglio Presidenziale.

L’Occidente, in particolare l’Unione Europea, non sembra essersi interessato troppo di questo conflitto. Gli Stati Uniti sono intervenuti sporadicamente. Tuttavia, le violenze non si placano e la popolazione continua a vivere in uno stato di estrema povertà.

La guerra in Yemen ha causato più di 150 mila vittime, di cui circa 15 mila civili. Secondo le Nazioni Unite, in territorio yemenita più di 20 milioni di persone necessitano di aiuto umanitario, mentre più di 4 milioni sono state forzate ad abbandonare la propria casa.

2. Nagorno Karabakh

La Prima Guerra

Se dello Yemen si conosce almeno l’esistenza, il nome “Nagorno Karabakh” spesso non viene associato a nulla. Invece, si tratta di una regione contesa tra Azerbaijan e Armenia: formalmente in territorio azero ma a maggioranza armena, le tensioni in questa regione si sono acuite con il crollo dell’URSS.

Nel 1991 l’Azerbaijan dichiara l’indipendenza. Tre giorni dopo, il 2 settembre, il Nagorno Karabakh annuncia la secessione. Nasce così la Repubblica dell’Artsakh, governata dalla comunità armena ma non riconosciuta dalla comunità internazionale. Quando l’Azerbaijan rifiuta di concedere l’autonomia alla regione scoppia la Prima Guerra del Nagorno Karabakh.

Tra ottobre 1991 e febbraio 1992 i bombardamenti azeri uccidono almeno 150 civili armeni, mentre il 26 febbraio si registrano circa 500 vittime azere nella sola cittadina di Khojali.

Al fine di supportare i tentativi di mediazione viene istituito il Gruppo di Minsk, ma il conflitto si sviluppa a vantaggio delle forze armene.

Nel 1994 viene firmato un accordo di cessate il fuoco tra i rappresentanti di Armeria, Azerbaijan e Artsakh, mentre il Nagorno Karabakh cade sotto controllo armeno. La Prima Guerra del Nagorno Karabakh ha causato 30 mila vittime e più di 600 mila sfollati, in maggioranza azeri, sebbene su questo ultimo numero non ci siano dati certi.

La Seconda Guerra

Per vent’anni il clima al confine rimane teso, con sporadiche violazioni del cessate il fuoco e costanti fallimenti nei tentativi di negoziazione. I combattimenti riprendono ad aprile 2016 con la Guerra dei Quattro Giorni, innescata da un’offensiva azera. I morti sono centinaia.

Un’altra offensiva azera, nel settembre 2020, dà origine a una nuova escalation della violenza, che questa volta evolve in un vero e proprio conflitto. La Seconda Guerra del Nagorno Karabakh si conclude con la vittoria azera, che riesce a conquistare i territori persi nel 1994 e nuovi territori dell’Artsakh.

Il conflitto del 2020 ha portato alla morte di quasi 200 civili; mentre, secondo le statistiche ufficiali, le vittime di Armenia e Azerbaijan ammontano rispettivamente a 3800 e 2900. Inoltre, più di 90 mila armeni sono stati costretti a lasciare la propria casa e fuggire.

Nel 2022, forse in seguito alla serie di sconfitte subite in Ucraina da Mosca, considerata sostenitrice dell’Armenia, scoppiano nuovi scontri. Muoiono 200 militari armeni e 80 azeri, oltre a una decina di civili. Nel settembre 2023, infine, la tensione è ripresa in seguito all’inizio di un’operazione militare azera nella regione.

Anche in questo caso, la comunità internazionale e l’Occidente non sembrano troppo interessati a questi avvenimenti. Tuttavia, dal momento che, in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina, l’Azerbaijan ha sostituito la Russia ed è ora il secondo fornitore di gas all’Italia, forse la situazione non ci è del tutto estranea.

3. Sahel

Il Mali

Il Sahel è una fascia di territorio dell’Africa subsahariana, che si estende dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso. Si tratta di un insieme di paesi altamente instabili, dove la precarietà di uno si riversa spesso su quelli confinanti.

Uno di questi paesi è il Mali, la cui area settentrionale nel 2012 viene occupata da un’alleanza di gruppi jihadisti e di indipendentisti tuareg. L’anno successivo, per aiutare il governo, la Francia, ex potenza coloniale, lancia un intervento militare.

La campagna jihadista si espande, coinvolgendo altri paesi del Sahel, come Ciad e Niger. Nel 2015 la maggior parte dei ribelli tuareg stringe un accordo di pace con il governo maliano, ma le forze jihadiste continuano a lanciare attacchi colpendo sia militari che civili, focalizzandosi sulla “zona delle tre frontiere”, ovvero quella tra Mali, Burkina Faso e Niger.

In un paese dall’economia devastata dalla guerra, il compenso offerto dai gruppi armati è una delle rare possibilità di guadagno. Per questo molti, soprattutto tra i giovani, decidono di arruolarsi. L’alternativa all’arruolamento è la migrazione.

Tra il 2020 e il 2022 in Mali avvengono due colpi di stato, al culmine dei quali la giunta militare al potere decide di rompere i rapporti con la Francia ed avvicinarsi alla Russia. Il Cremlino inizia a fornire assistenza militare attraverso la compagnia militare privata Wagner.

L’instabilità generale

Nel 2022 avvengono due colpi di stato anche in Burkina Faso, dove si stima che il 40% del territorio sfugga al controllo centrale. A luglio 2023 un colpo di stato si verifica anche in Niger, il secondo dopo quello del 2010.

Dall’altra parte, Sudan, Eritrea e Somalia vivono in stato di guerra da anni. Da ricordare è soprattutto l’Etiopia, che ha alle spalle decenni di lotte con la vicina Eritrea e che ora sta affrontando una guerra civile nella regione del Tigray.

Una mappa che illustra i principali colpi di Stato in Africa dal 2019 (Foto: IISS).

I frequenti coup d’état, l’allontanamento dalla Francia, l’arrivo sul campo di mercenari della Wagner e la generale instabilità politica ed economica che accomuna la maggior parte dei paesi del Sahel continuano ad alimentare una violenza che nel 2022, secondo ACLED, ha raggiunto una soglia record: più di 3500 scontri armati, attacchi contro civili, rivolte ed attentati.

Le vittime civili dei conflitti armati in Mali, Burkina Faso e Niger dal 2012 ammontano a più di 11 mila, mentre sono più di 2 milioni e mezzo gli sfollati che hanno dovuto abbandonare la propria casa per sfuggire alle violenze. Inoltre, più di 1 milione e mezzo di bambini di questa regione non ha accesso all’istruzione, dal momento che le scuole sono chiuse.

A quest’area africana la comunità internazionale ha sporadicamente rivolto lo sguardo.

In Mali, ad esempio, è stata inviata una missione delle Nazioni Unite, MINUSMA, mentre la Francia è spesso presente sul territorio durante i colpi di Stato.

Lo è, tuttavia, per difendere la sua posizione privilegiata in quanto ex potenza coloniale, supportata dal resto dell’Occidente in funzione antirussa. Ma di questo faremo finta di nulla.

L’operazione ONU Minusma.
4. Myanmar

Le origini del conflitto

La Birmania conquista l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1948. Quindici anni dopo, il generale Ne Win prende il potere, che manterrà per 26 anni, con un colpo di stato e inaugura la “via birmana al socialismo”.

Essa consiste essenzialmente in un forte isolazionismo in politica estera e nella nazionalizzazione dell’economia, ma anche nella messa al bando dei giornali indipendentisti e di tutti i partiti diversi dal Partito del programma socialista della Birmania.

A fine anni ’80 la crisi economica, dovuta alla forte svalutazione della moneta, scatena le proteste. Quando la Rivolta 8888 del 1988 è repressa nel sangue, la comunità internazionale condanna la dittatura birmana e Ne Win si ritira.

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Rivolta 8888 (Foto: NPR).

L’anno successivo i militari dichiarano la legge marziale e cambiano il nome del paese in Myanmar. La leader della Lega nazionale per la democrazia (LND), Aung San Suu Kyi, viene arrestata, e rimarrà agli arresti domiciliari fino al 2010.

Dal genocidio alla guerra civile

Nel 2007 l’aumento del prezzo del carburante dà inizio alla Rivoluzione Zafferano, a cui partecipano attivisti e monaci buddisti. Anche grazie alla pressione esercitata dalla comunità internazionale, l’anno successivo la giunta militare promulga una nuova Costituzione, finalizzata a una transizione democratica del paese.

Nel 2011 viene istituito un parlamento civile e nel 2015 la LDN ottiene una vittoria schiacciante alle prime elezioni multipartitiche del paese. Suu Kyi viene nominata Segretario di Stato ma, dal momento che è sposata con un cittadino straniero, la Costituzione sancisce che non può ricoprire tale incarico.

Due anni dopo l’esercito inizia a commettere violenze contro la minoranza Rohingya, che si evolveranno in un vero e proprio genocidio e porteranno quasi un milione di persone a scappare in Bangladesh.

Nel 2021, dopo una nuova vittoria della LDN, la giunta militare attua un colpo di stato e scatena una guerra civile. Secondo le Nazioni Unite, le vittime civili di questo conflitto ammontano ad almeno 3000, gli sfollati a più di un milione e i caduti in battaglia ad almeno 20 mila. Più di 17 milioni di persone, un terzo della popolazione del paese, necessita di assistenza umanitaria.

A sinistra, la consigliera di Stato destituita Aung San Suu Kyi; a destra, Min Aung Hlaing, Comandante in capo delle Forze armate e Primo ministro del Myanmar dal colpo di Stato del 2021 (Foto: Wikipedia).

Decine di guerre in corso

Secondo l’UCDP, nel 2022 sono stati registrati 55 conflitti armati attivi tra Stati. Otto di questi hanno raggiunto il livello di guerra e 22 sono stati internazionalizzati. Se si estende la definizione per comprendere tutti i tipi di conflitti e violenze, questo numero sale a 170.

Il 2022 è stato per le vittime della violenza organizzata l’anno più letale dal genocidio del Ruanda nel 1994. Le guerre che hanno maggiormente contribuito a questo triste record sono quella tra Russia e Ucraina e quella in Etiopia.

Secondo ACLED, nel 2023 una persona su sei è già stata esposta a una situazione di conflitto, mentre 50 paesi dimostrano livelli di conflitto estremi o elevati.

Questo articolo non considera una lunga serie di violenze in corso proprio in questo momento: dalle guerre più conosciute, come quelle in Ucraina, Siria e Afghanistan, ad altri conflitti armati dimenticati, come Haiti, Repubblica Democratica del Congo e Pakistan.

Mappa dei conflitti armati attualmente in corso nel mondo (Foto: Wikipedia).

L’intervento della comunità internazionale

La caratteristica che accomuna i quattro conflitti armati che ho analizzato, oltre che quello tra Israele e Palestina e tanti altri episodi di violenza in tutto il mondo, è la presenza/assenza della comunità internazionale.

Si tratta infatti di aree sottoposte a disordini interni da moltissimi anni, la maggior parte dei quali la comunità internazionale non ha mai davvero preso in considerazione. Almeno non nella pratica, o comunque non oltre le sporadiche e obbligate dichiarazioni di circostanza.

Parlo di quella stessa comunità internazionale che si vanta di ricoprire il ruolo di promuovere lo sviluppo e la stabilità a livello globale, e in particolare di quell’Occidente, e quell’Unione Europea, che si pone a garante dei diritti umani e della pace planetaria.

I conflitti armati di oggi sono anche il risultato delle scelte di una comunità internazionale che si fonda sul diritto internazionale, ma che segue la convenienza.

Ma continuiamo a distogliere lo sguardo quando i nostri interessi non vengono toccati, continuiamo a farci gli affari nostri finché la situazione non esplode alle nostre spalle.

Perché i fatti del 7 ottobre 2023 e delle ultime settimane non avrebbero dovuto sorprenderci. Avevamo tutti i mezzi per prevederli, perfino prevenirli.

Eppure, fino a tre settimane fa quella tra Palestina e Israele non era nemmeno chiamata guerra. E forse nemmeno i Palestinesi la chiamano guerra: per loro è semplicemente vita, l’unica vita che conoscono da quando hanno memoria.

Clarice Agostini

(In copertina, foto di Alex Potter)

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