
Negli ultimi giorni la popolazione di Gaza si sta spostando verso Sud. Il motivo principale è l’ultimatum da parte di Israele, che ha avvertito i civili di lasciare il Nord della Striscia, perché poi procederà a raderla al suolo. Un’altra ragione, però, stimola questo spostamento di massa: a Sud c’è il valico di Rafah, l’unica uscita dalla “prigione a cielo aperto” che non dia su Israele.
La Striscia di Gaza è circondata a Nord e a Est da Israele, mentre a Ovest dà sul mare, anch’esso sotto controllo israeliano. Il lato meridionale, invece, confina con l’Egitto, in particolare con la penisola del Sinai, un territorio semidesertico che nel corso della storia è stato al centro di diverse dispute.
Rafah è una città palestinese che si trova a Sud della Striscia di Gaza, sul confine con l’Egitto. Il varco, che prende il nome della città, costituisce attualmente l’unico passaggio disponibile per uscire dalla Striscia. L’esercito israeliano ha infatti bloccato (o distrutto) tutti gli altri varchi, compresa la via del mare.
La popolazione di Rafah è in gran parte composta da rifugiati. Negli ultimi giorni, tuttavia, migliaia di sfollati si sono ammassati al varco, ultima tappa della loro fuga dai bombardamenti israeliani che stanno radendo al suolo il resto della Striscia, soprattutto al Nord.
La speranza di molti è probabilmente che l’Egitto consenta l’ingresso di beni di prima necessità. O che, addirittura, permetta l’accesso dei profughi palestinesi nel Sinai.

Un varco umanitario
Sin dall’inizio del conflitto, la comunità internazionale sta chiedendo all’Egitto di aprire il valico di Rafah per permettere l’ingresso di aiuti umanitari e l’uscita di civili della Striscia. È stata concordata un’apertura parziale per far entrare beni di prima necessità. Sabato 21 ottobre l’Egitto ha finalmente ordinato l’apertura del passaggio; tuttavia, dopo l’ingresso di 20 camion contenenti medicine, forniture mediche e una quantità limitata di forniture alimentari, i cancelli si sono richiusi.
L’ONU ha definito questo convoglio come una “goccia nell’oceano” rispetto alle necessità di Gaza. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, in un comunicato ha invitato “tutte le parti a tenere il valico di Rafah aperto per rendere possibile il costante transito di aiuti che è imperativo per l’assistenza della popolazione di Gaza”. Salameh Marouf, capo dell’ufficio stampa di Hamas, ha dichiarato che l’aiuto arrivato sabato “non sarà in grado di cambiare il disastro umanitario“.

Allora perché l’Egitto ha già richiuso il passaggio? Perché l’unica via di fuga non viene utilizzata?
L’Egitto, così come altri Paesi dell’area, ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di accettare i profughi palestinesi. Sebbene possa sembrare una posizione disumana, aprire il valico di Rafah non è una soluzione così immediata come sembra.
La Penisola del Sinai
Non appena la ferita tra Israele e Palestina si è nuovamente aperta, il 7 ottobre scorso, l’Egitto ha inviato truppe al confine con Gaza. L’area alla frontiera con la Striscia, il Sinai, è infatti molto delicata dal punto di vista storico e politico. La penisola è stata per decenni territorio conteso tra Egitto e Israele, prima durante la crisi di Suez (1956), poi con la Guerra dei Sei Giorni (1967). Proprio in questa occasione è stata conquistata da Tel Aviv, per poi ritornare all’Egitto undici anni dopo, con gli accordi di Camp David.
Tuttavia, il Cairo non riesce ancora ad esercitare un vero e proprio controllo su questi 60 mila km2 quasi interamente desertici. Per questo motivo, negli ultimi anni la presenza di gruppo jihadisti affiliati all’ISIS ha contribuito all’instabilità della regione.
La natura del Sinai, insieme a dinamiche di tipo politico e geopolitico e a ragioni di sicurezza interna, non permettono all’Egitto di aprire il varco di Rafah con tanta facilità. Il vero ostacolo risulta essere non tanto il passaggio degli aiuti umanitari, quanto l’ingresso dei rifugiati in territorio egiziano.
Una questione di sicurezza interna
L’Egitto teme che, insieme ai profughi civili, possano passare da Rafah anche miliziani di Hamas. La presenza di cellule jihadiste nel territorio e lo scarso controllo esercitato dal Cairo nel Sinai potrebbero portare a un effetto spillover, in cui i nuovi arrivati possono alimentare i gruppi terroristici già presenti.
Inoltre, al momento l’Egitto è impegnato su più fronti. Prima dell’inizio di questo conflitto, si trovava già a controllare i suoi confini meridionali e occidentali. A Sud confina con il Sudan, uno Stato in costante tensione a causa di una lotta interna tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare RSF. Su questo fronte, il Cairo teme l’ingresso di un numero troppo elevato di profughi. A Ovest, invece, il confine libico deve essere tenuto sotto controllo il potenziale ingresso di armi, oltre che di gruppi terroristici.
L’Egitto sta vivendo una forte crisi economica, a causa degli altissimi tassi di inflazione, e perciò manca dei mezzi necessari per farsi carico dei rifugiati, non essendo in grado di organizzare un sistema di accoglienza e di supporto adeguato.
Infine, correrebbe il rischio di scontrarsi con Israele, come successo alla Giordania in seguito al conflitto del 1967. Se le organizzazioni palestinesi si spostano nei Paesi confinanti, c’è il rischio che inizino ad attaccare Israele da quei territori, coinvolgendo il Paese dove risiedono nel conflitto contro Israele.
Senza più ritorno
L’Egitto, come altri Paesi della zona, non si vuole far carico dei rifugiati palestinesi, ma sostiene la loro causa. Potrebbe sembrare una contraddizione, ma una spiegazione c’è. Se la popolazione palestinese lasciasse i propri territori, infatti, la questione israelo-palestinese vedrebbe forse la parola fine, ma a solo vantaggio israeliano.
I profughi palestinesi non hanno il diritto al ritorno, ovvero il principio secondo cui i rifugiati hanno il diritto di ritornare nei territori e di ottenere le proprietà che essi stessi o i loro antenati hanno lasciato o sono stati costretti a lasciare. Una volta vuota, Gaza diventerà territorio israeliano.
Per questo motivo, sia Egitto che Giordania vogliono che la questione palestinese si risolva internamente, con riferimento il primo a Gaza e la seconda alla Cisgiordania. Se accogliessero i profughi e la resistenza si spostasse in un’altra zona, l’idea stessa della questione palestinese rischierebbe di sgretolarsi. Gaza e la Cisgiordania ne rimarrebbero un simbolo, ma la situazione sarebbe considerata “risolta”, in modo militare e a solo vantaggio israeliano.
Il motivo ideologico è però anche affiancato da uno più pratico. L’Egitto sa che, proprio per la mancanza del diritto al ritorno, i profughi palestinesi sono costretti a insediarsi nel Paese di arrivo, come dimostra il caso della Giordania. Il Cairo dovrebbe quindi farsi carico dei nuovi arrivati a lungo termine. Inoltre, in certe circostanze, come in Libano, la presenza di un numero altissimo di rifugiati ha acuito l’instabilità del Paese di arrivo.

Non tutti vogliono lasciare Gaza
Non tutti i palestinesi vogliono abbandonare le loro case e fuggire. La popolazione è infatti consapevole che la questione palestinese non si può risolvere in altri territori se non quelli occupati, per il motivo appena spiegato. Alcuni, quindi, sentono il dovere di rimanere nel territorio che riconoscono come proprio, per proteggerlo e lottare per il loro diritto all’autodeterminazione. Uno spostamento di massa, come già accennato, lascerebbe la Palestina nelle mani di Israele.
Questo è, mi permetto di dire, esattamente il motivo per cui il governo di Tel Aviv sta radendo al suolo la Striscia, invitando i suoi abitanti a scegliere tra la fuga e la morte. Dopo la prima settimana di conflitto, Israele ha infatti dato l’ordine ai civili di evacuare Gaza City e in generale il Nord della Striscia, spostandosi verso Sud “per la loro sicurezza e protezione”. Non tutti però lo hanno seguito, molti per mancanza di mezzi, altri per rifiuto di rinunciare alla propria causa.
Sabato 21 ottobre, una pioggia di volantini è caduta sul Nord della Striscia, avvertendo che Israele avrebbe considerato terrorista chiunque fosse rimasto nell’area. Ciò implicherebbe il diritto israeliano a procedere alla strage, dal momento che le vittime non sarebbero civili ma terroristi. Israele si è difeso affermando che la traduzione dall’arabo che è stata diffusa è imprecisa.
Il ruolo dell’Egitto
L’importanza dell’Egitto non si limita a Rafah e al passaggio di civili e aiuti umanitari. Il Cairo potrebbe infatti assumere una posizione influente nella de-escalation del conflitto, cercando di calmare entrambe le parti coinvolte. Storicamente, infatti, l’Egitto ha sempre giocato un ruolo pivot nell’area mediorientale, conveniente anche all’Occidente.
È stato il primo Paese arabo a normalizzare i rapporti con Israele, grazie agli accordi di Camp David del 1978. A partire da quel momento, ha instaurato rapporti di collaborazione economica con Tel Aviv, sia in riferimento alle risorse energetiche che finalizzati al controllo del Sinai.
Recentemente, l’Egitto ha anche aperto un dialogo con Hamas. Il gruppo palestinese è legato alla Fratellanza Musulmana, storicamente nemica giurata dell’Egitto. Tuttavia, nel 2015 il Cairo ha smesso di classificare Hamas come organizzazione terroristica.
Anche se l’Egitto è già stato in grado di ricoprire il ruolo di mediatore nella questione israelo-palestinese, una soluzione al conflitto di ottobre 2023 non sembra ancora vicina. Ci sono anche altri Paesi su cui contare per instaurare un processo di mediazione, come Turchia, Arabia Saudita e Qatar.
La domanda da farsi, tuttavia, non è solo se le parti in causa possano accettare questi attori come mediatori, ma anche e soprattutto se questi attori possano accettare di ricoprire tale ruolo. Mediare una soluzione duratura a un conflitto secolare non è certo una passeggiata.
Clarice Agostini
(in copertina il Valico di Rafah, al confine tra Egitto e Striscia di Gaza, immagine di Mohammed Asad/AFP)
Per approfondire: leggi gli articoli del Percorso Tematico “Israele e Palestina”.