Cronaca

Il diritto internazionale applicato al conflitto tra Israele e Hamas

Diritto internazionale Israele Hamas

Sono passate due settimane dall’offensiva di Hamas contro Israele e ancora, ogni giorno, una nuova notizia ci lascia scioccati davanti alla brutalità di questo conflitto. Sembra che non ci sia fondo alla disumanità; anzi, di umanità non c’è proprio più traccia.


Entrambe le parti, Israele e Hamas, stanno mettendo in atto violenze inaudite, anche se la comunità internazionale sembra reagire in modo differente nei loro confronti. La maggior parte dell’Occidente, infatti, dopo l’attacco del 7 ottobre ha prontamente invocato il diritto di Israele di reagire in legittima difesa.

Tuttavia, negli ultimi giorni anche la convinzione dei sostenitori dello Stato ebraico sta iniziando a vacillare, soprattutto dopo alcune azioni israeliane che iniziano a superare il limite. Anche la legittima difesa, infatti, deve seguire delle regole. Sembrerà strano, ma la guerra stessa deve farlo.

Lo ius in bello

Esistono due tipi di diritto internazionale che si applicano in modo specifico al contesto bellico: lo ius ad bellum e lo ius in bello.

Il primo riguarda i criteri per cui uno Stato può invocare il diritto all’uso della forza, ovvero quella serie di norme che indicano quando è possibile ricorrere alla guerra come mezzo per risolvere una controversia; il secondo, chiamato anche diritto umanitario, indica le regole da rispettare quando è in atto una guerra.

È proprio lo ius in bello a regolare l’atteggiamento che gli Stati devono tenere nel momento in cui utilizzano la forza, ovvero in seguito allo scoppio di un conflitto.

E, come si può ben immaginare, i crimini di guerra non sono ben accetti da questo tipo di diritto. Nelle ultime due settimane, tuttavia, le accuse di aver commesso crimini di guerra o contro l’umanità si stanno accumulando da entrambe le parti.

Crimini di guerra

Sia Israele che Hamas sono infatti accusati di aver colpito (o addirittura mirato a) civili. Israele è incolpato di aver usato fosforo bianco contro Hamas. Hamas stessa è definita gruppo terrorista da gran parte della comunità internazionale.

Per non parlare del bombardamento dell’ospedale Al-Ahli Al-arab, a Gaza, che ha causato almeno 500 vittime civili tra pazienti, rifugiati e personale medico – e sul quale non mi dilungherò dal momento che, mentre scrivo, l’attribuzione dell’attacco non è ancora stata stabilita.

Israele ha annunciato e sta mettendo in atto un “assedio totale” sulla Striscia di Gaza, bloccando l’arrivo di beni essenziali come acqua e cibo, oltre che di elettricità e carburante.

I bombardamenti aerei israeliani hanno raso al suolo edifici pubblici, religiosi e residenziali, e sono stati accusati dal Ministero della Salute palestinese di aver preso di mira anche alcune ambulanze. Inoltre, si è deciso di concedere ai civili 24 ore per scappare dal nord della Striscia, prima che una probabile offensiva via terra abbia inizio.

L’Alto commissario Onu per i diritti umani, Volker Türk, ha precisato che un assedio che mette a repentaglio la vita dei civili privandoli dei beni di prima necessità è vietato dal diritto internazionale.

Inoltre, sempre l’ONU ha dichiarato che l’esodo di un milione di persone in così poco tempo, e nelle condizioni attuali presenti a Gaza, sarebbe, oltre che impossibile, una catastrofe umanitaria, da considerare come atto di deportazione.

L’apartheid

L’apartheid è una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani. La Convenzione internazionale sull’eliminazione e la repressione del crimine di apartheid e lo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale la definiscono come crimine contro l’umanità.

Si verifica quando atti “crudeli” e “disumani” sono perpetrati in un contesto di “regime istituzionale”, di oppressione sistematica o di “dominazione” di un gruppo razziale nei confronti di un altro. Questi atti possono comprendere uccisioni illegali e lesioni gravi, torture, trasferimenti forzati, persecuzioni e il diniego dei diritti e delle libertà basilari.

La Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (1965) è stata la prima a contenere un divieto ai sensi del diritto internazionale dei sistemi di apartheid: condanna infatti le “politiche governative basate sulla superiorità razziale o sull’odio, come le politiche di apartheid, segregazione o separazione”. Un’altra definizione, con rispettiva condanna, di questi crimini è contenuta in un parere della Corte internazionale di giustizia relativo alla presenza del Sudafrica in Namibia.

L’apartheid è qui definito come “distinzioni, esclusioni, restrizioni e limitazioni esclusivamente per motivi di razza, colore, discendenza, nazionalità o origine etnica che costituiscono una negazione dei diritti umani fondamentali”.

La comunità internazionale ha infatti iniziato a usare il termine “apartheid” per definire il sistema politico sudafricano, ma le convenzioni e i trattati al riguardo costituiscono una condanna a livello universale.

L’apartheid israeliano

Amnesty International, nel suo rapporto Apartheid israeliano contro i palestinesi (che si basa su ricerche e analisi condotte tra luglio 2017 e novembre 2021), conclude che le autorità israeliane stanno mettendo in atto un sistema di apartheid nei confronti della popolazione palestinese.

Ne è soggetta tutta la popolazione che vive sotto il controllo israeliano, in Israele, nei territori palestinesi occupati o in altri Stati come rifugiati.

Il rapporto dichiara inoltre che quella messa in atto da Israele è un’oppressione istituzionalizzata, attraverso leggi e politiche progettate specificamente per privare la popolazione palestinese dei propri diritti. Anche altre organizzazioni, come Human Rights Watch, parlano di un sistema di apartheid vigente nei Territori palestinesi occupati.

Israele è stato fondato nel 1948 con l’obiettivo di mantenere una maggioranza demografica ebraica e massimizzare il controllo degli ebrei israeliani in Palestina. Gli strumenti maggiormente utilizzati a questo proposito sono:

  • Segregazione: la negazione della nazionalità ai palestinesi residenti in Israele pone i palestinesi in una situazione di inferiorità giuridica, che dà luogo ad altre forme di discriminazione.
  • Negazione dei diritti economici e sociali: il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alla loro terra d’origine, sia essa in Israele o nei territori palestinesi occupati, viene negata al fine di mantenere il controllo demografico; le restrizioni all’accesso ai terreni e alle zone di pesca nella Striscia di Gaza esacerbano l’impatto socioeconomico del già presente embargo israeliano sull’area.
  • Frammentazione territoriale: le restrizioni alla circolazione dei palestinesi in territorio palestinese, soprattutto in Cisgiordania, avviene grazie a una rete di posti di blocco e di chiusure stradali, per la quale i palestinesi, se vogliono spostarsi in altre aree dei Territori palestinesi occupati, devono chiedere il permesso all’esercito israeliano.
  • Controllo e confisca di terreni e proprietà: alla popolazione palestinese è negato il permesso di costruire a Gerusalemme Est, area palestinese sotto occupazione israeliana; attraverso demolizioni e sgomberi, gli insediamenti israeliani illegali si espandono, confinando la popolazione palestinese in enclavi sempre più piccole.
Muro Israele Palestina Hamas diritto internazionale.
Murales sul muro che divide israeliani e palestinesi (il Giornale)

L’istituzionalizzazione dell’oppressione

Il rapporto di Amnesty International mostra come la legge israeliana tratti il popolo palestinese come un gruppo inferiore e separato, definito dal punto di vista razziale in quanto arabo e non ebraico.

La legge costituzionale del 2018, infatti, dichiara Israele “Stato-nazione del popolo ebreo”, e sancisce che il diritto all’autodeterminazione è esclusiva del popolo ebraico. Questa legge non riconosce nessun’altra identità nazionale, ponendo la “nazionalità ebraica” come superiore e con uno status diverso da quello della cittadinanza.

Molti degli atti commessi dal governo israeliano, decenni prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, cadono sotto la definizione di “atti crudeli e disumani” stabilita dalla Convenzione sull’apartheid e dallo Statuto di Roma.

Dal momento che sono commessi in un contesto di sistematica oppressione e dominazione, con l’intento di mantenere questo sistema, nel loro insieme questi atti possono considerarsi apartheid.

Essi sono, ad esempio, i trasferimenti forzati, la detenzione amministrativa e la tortura, le uccisioni illegali e le lesioni gravi, la negazione dei diritti e delle libertà fondamentali e le persecuzioni. Ciò accade sia in Palestina e nelle aree occupate, sia in territorio israeliano, anche se in misura minore.

Qui infatti ai palestinesi vengono negati i diritti al ritorno dei rifugiati, ma anche all’affitto, accesso e possesso di gran parte dei terreni e delle abitazioni. Inoltre, il blocco israeliano di Gaza equivale a una punizione collettiva, e anche questo è un crimine di guerra.

La parte palestinese

Sono state documentate gravi violazioni dei diritti umani e crimini di guerra anche da parte delle autorità palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Oltre agli attacchi illegali da parte di gruppi armati palestinesi contro civili israeliani e al lancio indiscriminato di razzi da Gaza verso Israele, violazioni dei diritti umani sono commesse anche contro i palestinesi da parte di autorità palestinesi: tra esse si contano torture, arresti arbitrari e limitazioni alla libertà d’espressione.

Gli episodi recenti di cui Hamas si è resa protagonista posso essere classificati come crimini di guerra. In particolare, l’uccisione indiscriminata e la presa in ostaggio di civili, come nel tristemente noto caso del Nova Music Festival.

I numerosi crimini di guerra commessi da Israele negli ultimi decenni non possono costituire alcuna giustificazione per le azioni dei gruppi armati palestinesi, che a loro volta devono rispettare il diritto internazionale e i diritti umani, in particolare la protezione dei civili.

Come ogni Stato, Israele ha il diritto e il dovere di proteggere i suoi cittadini e il suo territorio. Tuttavia, il diritto internazionale sancisce anche che le politiche in materia di sicurezza debbano sempre rispettare, oltre che lo ius ad e quello in bello, la proporzionalità nei confronti della minaccia che si affronta.

Le autorità israeliani hanno fornito giustificazioni in merito ad alcune politiche attuate in nome della sicurezza, ma la loro applicazione risulta comunque contraria al diritto internazionale.

Inoltre, dal momento che Israele mantiene segrete le informazioni in materia di sicurezza, coloro i cui diritti sono violati in nome della sicurezza non hanno mezzi per contestare tali violazioni.

E, ancora, alcune giustificazioni fornite non possono essere considerate valide o sufficienti, come quelle relative alle politiche adottate nella Striscia di Gaza.

E allora chi ha ragione?

Nessuno. Non c’è giustificazione che tenga davanti ad atrocità come i crimini contro l’umanità. Eppure, se da una parte la comunità internazionale si è mostrata abbastanza compatta nel condannare Hamas, un tale comportamento non è stato assunto anche nei confronti di Israele.

Non è tutto: mentre Hamas è “solo” un gruppo politico e militare, la cui identità non deve assolutamente essere sovrapposta a quella palestinese, Israele è uno Stato. Da definizione, quando le violenze e l’oppressione vengono perpetrati all’interno di un sistema istituzionale e regolamentato, ci si trova davanti ad un sistema di apartheid.

Per questo motivo, le azioni di Israele, o almeno gran parte di esse, non possono essere considerate semplice legittima difesa. L’apartheid è un crimine contro l’umanità e un reato internazionale. Quando si commette un crimine del genere, la comunità internazionale ha l’obbligo di chiederne conto ai responsabili.

La prova che le azioni di Israele ricadono all’interno della definizione di apartheid sta nelle dichiarazioni dei suoi stessi rappresentanti. Giora Eiland, ex generale israeliano, ha detto che Israele “deve creare un disastro umanitario senza precedenti a Gaza”, e che “solo la mobilitazione di decine di migliaia e il grido della comunità internazionale creeranno la leva per far sì che Gaza sia senza Hamas o senza persone”.

Ariel Kallner, membro della Knesset, ha invocato alla Nabka, facendo riferimento alla pulizia etnica e all’esodo delle centinaia di migliaia di palestinesi operata al fine della fondazione dello Stato di Israele nel 1948; anzi, Kallner ha specificato che l’obiettivo ora è “una Nabka che metta in ombra quella del ‘48”.

Lo Stato di Israele è membro delle Nazioni Unite sin dalla sua istituzione nel 1948. È parte delle convenzioni internazionali e dei trattati sui diritti umani e pertanto deve rispettarli.

Inoltre, anche se non fa parte della Convenzione sull’apartheid né dello Statuto di Roma, è comunque vincolato a rispettare gli obblighi da essi stabiliti nei confronti dell’apartheid. Israele ha infatti ratificato la convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, che vieta l’apartheid.

Inoltre, questo divieto fa parte del diritto internazionale consuetudinario, ovvero quell’insieme di obblighi internazionali derivanti da prassi generali dei Paesi accettati come legge. Infine, la Corte Internazionale di Giustizia ha dichiarato che l’apartheid è “una flagrante violazione degli scopi e dei principi della Carta” delle Nazioni Unite.

Siamo tutti colpevoli

Per troppo tempo la comunità internazionale ha ignorato la sfera dei diritti umani nell’affrontare la questione israelo-palestinese. Ora la situazione si è aggravata troppo per essere gestibile.

Senza una chiara e inequivocabile condanna a entrambe le parti coinvolte, la comunità internazionale perde anche quella misera influenza positiva che potrebbe esercitare sul conflitto. Perché Israele in questo modo non solo può continuare a fare quello che fa da decenni, ma ora gode anche del sostegno ufficiale di gran parte del globo.

Se vi siete mai chiesti cosa facesse il resto del mondo mentre milioni di ebrei morivano nei campi di concentramento, la risposta è: quello che facciamo noi ora. Una differenza però c’è.

Noi sappiamo, vediamo, riceviamo le notizie in tempi record e abbiamo potenzialmente gli strumenti per comprenderle. E allora perché nessuno fa nulla? È possibile che non ci sia modo di fermare tali atrocità? Vorrei avere una risposta. Se ce l’avessi, non avrei perso tempo a scrivere questo articolo.

L’unica cosa che posso dire è: non chiudiamo gli occhi davanti a tanta violenza, né ignoriamola sparando sentenze approssimative e superficiali. È vero che, se la comunità internazionale stessa ha poco potere sulla situazione, noi ne abbiamo ancora meno.

Tuttavia, alzando le nostre voci e condannando le ingiustizie possiamo spingere chi ci rappresenta a prendere una posizione più netta; una posizione che non sia a supporto di una delle due parti, ma che sia contro i crimini di guerra. Non laviamocene le mani, perché così facendo le renderemo solo più insanguinate.

Clarice Agostini

(In copertina Ali Jadallah/Anadolu da Getty Images)

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