Cultura

Donne che “fanno gli uomini” – 3 esempi contro i ruoli di genere

Donne uomini Giovanna D'Arco

Non è facile, né innocuo trattare di diritti, in particolare se di genere. Ancora una volta ci troviamo a trattare di donne, del loro status e del loro valore nell’evoluzione delle nostre società. In questa sede proveremo a rompere quel velo di Maya che persiste quando cerchiamo di avvicinarci a realtà e modi di vivere diversi dai nostri, uomini e donne del terzo millennio.  


1. Jean Rommée, eroina di Francia

Il nome di Jean Rommée forse non vi dice nulla, o quasi, almeno in apparenza. Una Jean eroina, patrona di Francia, è nota a tutti, ma è l’altra metà di questo nome a stonare.

In italiano la conosciamo come Giovanna d’Arco, figlia di Jacques d’Arc e di una certa Isabelle. Dunque, in un’epoca fondata sul lignaggio patrilineare, è naturale che la figlia di un d’Arc avesse a sua volta lo stesso cognome.

La pensavano così anche i contemporanei di Giovanna, non solo in Francia ma in tutta Europa. Un dettaglio talmente interiorizzato nella loro cultura, come anche nella nostra, da risultare ovvio.

Peccato che gli abitanti del paesino di Domrémy (oggi noto come Domrémy-la-Pucelle in suo onore) in Borgogna avessero in quel periodo una strana abitudine che a noi può sembrare assai moderna: solo i figli maschi erano soliti portare il nome del padre, mentre le ragazze prendevano quello della madre.

Ed ecco spiegato Jean Rommée, la figlia di Isabelle Rommée.
È Giovanna in persona a dichiararlo durante il suo processo, di cui disponiamo una ricca e minuziosa documentazione. Una questione identitaria dunque, in un periodo in cui l’identità femminile, soprattutto nei ceti più umili, era quasi ovunque poca cosa.

Come spiega il professor Barbero al Festival della Mente di Sarzana, lei stessa si faceva chiamare Jean la Pucelle, ovvero “la vergine” (in quanto ancora ragazza, non sposata) e così la ricordano anche i suoi contemporanei, ignari dell’usanza nel suo piccolo paese.

Un dettaglio insignificante, che fa sorridere chi va a caccia di curiosità storiche, ma che ci fa riflettere riguardo una questione quanto mai attuale. Si è fatto un grande dibattito sul diritto al cognome, ottenendo infine la possibilità di scegliere tra quello del padre e quello della madre, entrambi validi allo stesso modo.

Con queste nuove libertà ci sembra di raggiungere nuovi orizzonti di parità, che però, ad un’analisi più approfondita e svuotata da luoghi comuni, tanto nuovi non sono più.

Questa giovane contadina che sapeva scrivere solo le poche lettere del suo nome ci aiuta ad aprire gli occhi davanti ad una realtà più complessa e sottile di quella che immaginiamo. Impariamo così che forse non siamo gli unici, noi uomini moderni, a fare del proprio nome un segno distintivo da difendere e di cui vantarsi.


2. Vergini, operaie e inversione di ruoli

In diverse culture dove la figura maschile è imprescindibile per la sopravvivenza della “casa” si trovano dinamiche sociali peculiari che finiscono per sovvertire i ruoli di genere.

Rimanendo in Europa, una pratica ormai quasi del tutto estinta è quella delle cosiddette “vergini giurate”.

Ci troviamo nel cuore dei Balcani, in quell’area compresa tra Montenegro, Kosovo e Albania del Nord, all’interno di una società fortemente patriarcale.

In caso di assenza di maschi nella famiglia, non era raro in passato che fosse una ragazza, di solito la maggiore, ad assumere il ruolo di capofamiglia.

Paesaggio rurale dell'Albania del nord
Paesaggio rurale dell’Albania del nord (Foto: Daniel J. Schwarz/Unsplash).

Una volta presa la decisione, queste donne conducevano uno stile di vita prettamente maschile: potevano (anzi dovevano) lavorare fuori casa, provvedere alla famiglia, fumare, bere, vestire al maschile etc…

In Albania e Kosovo, dove ne sopravvivono ancora poche, sono note con il nome di Burrnesha (da burrë, uomo) o vajza të betuara (“vergini giurate”). A caratterizzare il loro stile di vita era anche il voto di castità che rimarcava il cambio di genere, almeno in apparenza.

Per citare un altro caso analogo ci spostiamo in Afghanistan. Qui è attestata una pratica molto simile a quella delle Burrnesha balcaniche, detta Bacha posh (letteralmente “vestita da ragazzo”).

Anche in questo caso ci troviamo in una situazione in cui la figura maschile è assente, motivo per cui i genitori inducono una delle loro figlie a comportarsi in tutto e per tutto come un giovane uomo.

Questo permette alla ragazza di avere maggiore libertà, di lavorare, studiare o accompagnare le sorelle, ma non è altro che il risultato di una cultura patriarcale dove l’assenza di maschi è uno stigma sociale e motivo di grande vergogna.

Donna con il velo
Foto: أخٌ‌في‌الله/Unsplash.

Al contrario delle Burrnesha, che vivono per tutta la vita nelle vesti maschili, la pratica afghana prevede il ritorno ad uno stile di vita femminile una volta raggiunta la pubertà.
Ciò comporta indubbiamente uno stress psicologico non indifferente per le ragazze coinvolte.

Per ultima citiamo una pratica leggermente diversa, forzata da motivi economici. Ci troviamo tra il 1920 e il 1940 in Malesia e Singapore, dove un gran numero di donne cinesi giunsero per lavorare nell’industria e nell’edilizia, impieghi ancora oggi prettamente maschili.

Non potendo più lavorare le terre, come da tradizione, a causa della carenza di campi, esse si trovarono costrette a cambiare le proprie abitudini, abbandonare le proprie famiglie e fornire la manodopera necessaria altrove.

Per il copricapo con cui erano solite coprirsi divennero note con il termine Hong Tou Jin  (紅頭巾, “sciarpa rossa” in cinese mandarino). Il colore acceso serviva a renderle riconoscibili, evitando così il rischio di incidenti. Anche quella cinese è una società patriarcale; eppure, il bisogno di reinventarsi per sopravvivere porta a scardinare meccanismi millenari considerati irremovibili.

Fabbrica
Foto: Ant Rozetsky/Unsplash.

Il loro esempio ci ricorda inoltre che i ruoli sociali risentono in primis dei cambiamenti socio-economici. Non è un caso, infatti, che ad una rapida evoluzione sociale come quella degli ultimi due secoli corrisponda un dinamismo mai sperimentato prima all’interno dei ruoli di genere, con tutto ciò che ne consegue.

3. L’epiclerato, un matrimonio inverso

Con il termine “epiclerato” si intende una pratica matrimoniale che rappresentava l’eccezione nell’antica Grecia ma che era fondamentale per sopperire alla mancanza di maschi. Le prime leggi a riguardo vengono attribuite a Solone (638-558 a.C.) e definivano innanzitutto la gestione del patrimonio familiare.

Una epìkleros (ἐπίκληρος) ad Atene era la figlia di un uomo morto senza eredi maschi. Per evitare che il patrimonio della famiglia venisse disperso, questa doveva sposare un membro dell’anchistèia, gruppo che comprendeva i famigliari legittimati a ereditare. La scelta ricadeva per lo più sugli zii paterni o sui loro eredi, secondo una gerarchia ben precisa: il fratello del padre, il figlio del fratello del padre, gli zii paterni del padre e gli zii materni del padre.

La figlia, alla morte del padre, si univa in matrimonio con uno di essi, anche nel caso in cui fosse stata precedentemente sposata. Il figlio della coppia ereditava il patrimonio del nonno ed era considerato, legalmente, figlio del nonno. Egli appariva, quindi, rispetto alla donna, sia come figlio che come fratello.

Tuttavia, le donne greche non erano eredi del padre, in quanto non era loro permesso ereditare alcunché. Sarebbe più veritiero considerare l’epiclerato una pratica per conservare il patrimonio di una famiglia al suo interno, garantendone la sopravvivenza, concetto chiave nella società greca.

Durante il rito nuziale, era la ragazza a fare il suo ingresso nel focolare del marito e a lasciare la propria casa. In questo particolare caso accadeva invece il contrario.

Nell’epiclerato si sovvertivano quindi i ruoli e le valenze di genere: era il marito a essere l’elemento mobile della coppia e non la moglie; la sposa non è considerata straniera dal focolare, ma rappresenta e preserva quella della propria famiglia di origine; è il marito a costituire l’elemento estraneo e a doversi integrare al nuovo focolare; la linea famigliare si perpetua per feminas (anche se il figlio della donna è considerato figlio del nonno).

Tuttavia la donna manteneva un ruolo passivo e vincolato a figure maschili. Al di là del significato simbolico, questa pratica era una risposta concreta all’assenza di eredi. Una volta smascherato, il valore della donna risulta essere quello di un “prestanome“, in quanto pedina di giochi politici ed economici della Grecia antica.

Infine, proprio nell’epìkleros si concretizza l’ideale di donna come fonte di vita, feconda, ma che nutre la propria casa e non quella altrui.


Con questi tre esempi abbiamo percorso un viaggio lungo nello spazio e nel tempo osservando come i ruoli di genere si siano invertiti per necessità. Le nuove dinamiche scaturite dall’assenza di una figura maschile, è bene ricordare, non necessariamente hanno aperto la strada a maggiori libertà femminili. Di fronte a quanto visto sarebbe scorretto affermare una cosa del genere.

L’intento qui è quello di dimostrare che la nostra società fatta di uomini e di donne è in realtà dinamica, seppur circoscritta entro una certa cultura. Il nostro approccio moderno e occidentale ci porta a credere di essere la versione migliore dell’essere umano, soprattutto in materia di diritti umani e tutela del prossimo.
Ma l’evoluzione non è mai stata una linea retta.

Le questioni di genere ci riguardano da sempre e non sono nulla di nuovo. Ciò che può e deve assumere nuove forme per realizzarsi in modo più giusto è piuttosto il modo in cui le gestiamo.

Jon Mucogllava

(In copertina Samuel Regan-Asante da Unsplash)

Ti potrebbero interessare
CulturaInterviste

Shakespeare, e noi – Intervista ad Andrea Pennacchi

Cultura

Il nichilismo nei giovani: cos’è? come sconfiggerlo?

CulturaSport

Calcio e omosessualità (e non solo): fare coming out è ancora un tabù 

CulturaSport

Atleti senza confini: gli oriundi nella Nazionale italiana