Dopo essersi concentrato sul mondo camorrista (“L’imbalsamatore” e “Gomorra”), sulla periferia romana (“Dogman”) e dopo la parentesi fantasy (“Il racconto dei racconti” e “Pinocchio”), Matteo Garrone realizza un bellissimo ritorno alle origini. Il regista si riallaccia alle radici del suo cinema, attraverso il tema dei migranti. “Io Capitano” è un film quadrato e grandioso, veramente imperdibile.
Io Capitano narra la storia di due giovani ragazzi senegalesi: Seydou e Moussa, i quali decidono di intraprendere il Viaggio. I due vogliono attraversare il Sahara per raggiungere la Libia e da lì, la tanto vagheggiata Europa, con il sogno di entrare nel mondo della musica.
Nonostante gli avvertimenti degli adulti, i due ragazzi partono sperando di riuscire a superare tutte le avversità dovute alla migrazione. Durante il percorso saranno testimoni dei cadaveri abbandonati tra le sabbie del deserto e soffriranno le torture della mafia libica, per poi sfidare le onde del Mar Mediterraneo e giungere all’estremo approdo: l’Italia, la Terra Promessa.
La bellezza dell’opera
Qualcuno potrebbe dire che Matteo Garrone sia un regista eclettico, ma in realtà racconta sempre lo stesso film. Il suo è il cinema degli emarginati, una commedia umana che, senza sbilanciarsi eccessivamente nel fantastico o nel reale, oscilla perfettamente tra i due generi. Ogni sua pellicola fantasy ha in sé una profonda componente realistica, mentre le sue opere più sincere e concrete assomigliano a delle fiabe nere piuttosto che ai fatti di cronaca a cui sono ispirate.
Io Capitano si inserisce in questa ambiguità: sebbene appartenga al filone realista del cinema di Garrone, non manca comunque di sequenze oniriche. Le scene in cui Seydou sogna sono forse le migliori e le più soddisfacenti di tutta la pellicola, perché riescono ad alleggerire il ritmo dell’angosciante marcia migratoria.
Per questo film il regista ha scelto un taglio narrativo particolare, un intreccio orizzontale, senza flashback né spettacolarizzazioni di sorta – a parte i summenzionati sogni del protagonista, seppur ben dosati.
Io Capitano è un esempio di cinema onesto, che ha veramente voglia di raccontare il difficile cammino di migliaia di migranti, attraverso il Viaggio intrapreso da Seydou e Moussa. E, per fare ciò, si è ricorso ad attori non professionisti, ad una cinepresa quasi sempre ad altezza d’uomo e vicina ai personaggi, come a voler trasportare lo spettatore sulla scena drammatica.
Garrone ritorna con una nuova maturità ai suoi vecchi lavori. I suoi primi lavori –Terra di mezzo (1996) e Ospiti (1998) – erano la trasposizione schietta della lotta quotidiana degli immigrati africani e albanesi per le strade di Roma. Ma, questa volta, ha deciso di spostare l’obiettivo, di non parlare più delle loro incombenze giornaliere, ma di quel singolo evento che a molti di loro ha cambiato la vita per sempre: il Viaggio.
Io Capitano tra ispirazioni e paragoni
Sono tanti i paragoni e i rimandi possibili presenti nella pellicola. In primis, il lungo viaggio ha, ovviamente, il suo grandioso archetipo nell’Odissea, anche se la trama di Io Capitano sarebbe meglio accostabile a quella dell’Eneide.
Entrambe, in effetti, sono storie di migrazione piuttosto che di ritorni, in cui il viaggio non è visto come un’esperienza che arricchisce l’animo dei protagonisti. Semmai, questo costituisce per loro una lunga e dolorosa prova che li forma come uomini responsabili delle proprie e delle altrui vite, preparandoli a ciò che verrà dopo, nel caso di Io Capitano la detenzione nei centri di accoglienza italiani.
È proprio questo lato della vicenda che non viene mostrato, il momento conclusivo del Viaggio, di cui abbiamo visione ogni giorno attraverso i telegiornali. Ma è un’assenza facile da colmare. Sono, infatti, innumerevoli le pellicole che narrano del destino dei migranti in Italia. E questo film ha il merito di raccontare finalmente il Viaggio e soltanto quello.
Per questo Io Capitano non è associabile a nessun lungometraggio sul tema dell’immigrazione, è invece (come lo definisce lo stesso Garrone in un’intervista) un film d’avventura. Un’epopea che mostra due ragazzi – con un focus particolare su Seydou – avanzare alla cieca tra insidie d’ogni tipo in un mondo, quello del traffico degli esseri umani, che nessuno dei migranti capisce veramente e in cui il primo errore può essere ripagato con la stessa vita.
Per questo motivo, forse, è meglio accostare questa a pellicole come 1917 e Il Pianista che rispettivamente raccontano, all’interno dei contesti storici della Grande Guerra e del ghetto di Varsavia, la stessa faticosa lotta per la vita di Seydou e Moussa.
Io Capitano (non) è un film politico
Fare un film umano diventa un gesto politico.
Nanni Moretti
Questa è la frase con cui Nanni Moretti rispose alle critiche che tacciavano il suo film Santiago, Italia (2018) di essere un’opera politica.
Si trattava invece di un documentario che metteva in luce un fatto storico, ovvero gli sforzi dell’ambasciata italiana all’indomani del golpe in Cile per dare rifugio a centinaia di oppositori di Pinochet.
Soltanto in Italia un film del genere poteva essere classificato come “politico”. E temo che con Io Capitano possa accadere lo stesso. Ma, in fondo che cos’ha di politico Io Capitano? È una pellicola che usa la finzione scenica per raccontare un fatto reale, vero, impossibile da ignorare.
Come dice lo stesso Garrone, è un film impegnato, non politico. Una pellicola coraggiosa che trascende qualunque orizzonte di pensiero e dà a noi europei la possibilità di entrare in quei luoghi in cui molti non entreranno mai. Ma, nonostante il film sia in realtà un film umano, necessariamente porta con sé un po’ di politica.
Di fatto, la stessa uscita della pellicola ci pone davanti ad una questione: com’è possibile che solo ora venga girato un film come questo? Se si esclude Tolo Tolo di Checco Zalone, quando mai il grande pubblico ha avuto modo di assistere in sala al dramma della migrazione?
Il film di Garrone dà finalmente un senso a quell’accozzaglia di parole che la stampa ci imbecca, ma di cui intendiamo poco il significato. Parole pesantissime quali “lager“, “scafisti” e “barconi” sono vuote finché qualcuno non si prende la briga di chiarircele.
Perché le parole sono importanti.
Nanni Moretti
Una prospettiva diversa
Io Capitano non è soltanto un film avvincente e bello, ma è anche impegnato e meritevole di essere visto da chiunque, al di là del credo politico. Perché tutti, elettori o politici, parteggianti per la Destra o per la Sinistra, dovremmo provare avversione e sdegno verso il traffico clandestino di esseri umani.
E questo film ci mostra questo fenomeno senza cadere nell’eccesso di violenza o di edulcorazione, ma in quanto fatto reale, che esiste oltre il film, e insegnandoci che pur disprezzando la tratta, non dovremmo mai disprezzare un migrante.
Nel 2023 conosciamo, grazie al cinema, ogni anfratto della periferia romana, di Rozzano o di Scampia. Alla luce di ciò, forse proprio per questo motivo Garrone ha scelto di colmare un’assenza e di tenere gli occhi aperti in direzione della costa africana. Ha riparato ad un torto ponendo la cinepresa dove nessuno l’aveva mai posizionata: tra le dune del Sahara, in una prigione libica e su un barcone che sfiora una petroliera, illuminando con la sua luce i volti dei migranti.
Così facendo ci ha resi un po’ più ricchi di esperienza e testimoni più consapevoli di una delle più grandi ingiustizie del nostro mondo: l’impossibilità di realizzare i propri sogni per chi viene dalla riva opposta del mare.
Giorgio Ruffino
(In copertina e nell’articolo immagini tratte dal film Io Capitano, di Matteo Garrone)