
“3Bee a world with bees”. È questo il payoff che cerca di riassumere in poche parole il progetto della climate tech company, ma è facile perdersi nella complessità di un’azienda che nasce e cresce con l’obiettivo di vivere di sostenibilità. Tra critiche e riflessioni, e aggiungendo la difficoltà per il consumatore medio di comprendere la base scientifica del progetto, si rischia di non capire bene la missione dell’azienda. Abbiamo fatto una chiacchierata con Niccolò Calandri, CEO e co-fondatore di 3Bee, che ci ha raccontato il percorso della climate tech e quali sono le aspettative e i progetti per il futuro.
Partiamo dall’inizio. Chi è 3Bee? Qual è lo scopo d’impatto principale dell’azienda?
Abbiamo iniziato nel 2018 con un obiettivo che è cambiato nel tempo. Oggi 3Bee si occupa della tutela e della rigenerazione della biodiversità terrestre tramite la tecnologia. La nostra missione è riportare in vita habitat che nel tempo sono andati distrutti o si sono persi, concentrandoci in particolare sul nostro territorio più prossimo, quello europeo. Lavoriamo principalmente in Italia, ma operiamo anche in Francia, Germania e Spagna.
Attraverso il monitoraggio tecnologico della biodiversità e in particolare degli insetti impollinatori, andiamo a individuare gli habitat più in pericolo come la Pianura Padana, la piana del Fucino, Venezia in zona della laguna, i vigneti in Toscana e insieme ai nostri agricoltori li rigeneriamo.

Da dove deriva il nome “3Bee”?
Attualmente, il nome di 3Bee indica quelli che, nel 3Bee Biodiversity Summit, abbiamo individuato come i tre pilastri fondamentali nell’approccio alla tutela della biodiversità:
- Il monitoraggio: radunare un certo numero di dati, tramite dei sensori ricettivi, per comprendere lo stato attuale della biodiversità in un territorio specifico;
- La rigenerazione: dopo aver visto che ci sono delle problematicità, individuare delle soluzioni concrete di riequilibrio e delle azioni migliorative;
- L’educazione: sensibilizzare il maggior numero di cittadini e imprese rispetto all’importante tema di tutela della biodiversità e degli insetti impollinatori.
In origine, 3Bee nasce da tre ragazzi che nel 2016 volevano realizzare un progetto e non sapevano se avrebbe funzionato. Eravamo io Niccolò, Riccardo [Balzaretti] ed Elia [Nipoti]. Ero appena uscito dal percorso di dottorato in elettronica, Riccardo da quello in biologia ed Elia all’epoca era un tecnologo alimentare, anche se poco dopo ha deciso di cambiare strada. Nel tempo si sono evolute tante cose, ma il nome “3Bee” è rimasto tale, anche perché rispecchia i nostri tre principali pilastri.
Durante gli anni del dottorato hai avuto l’opportunità di lavorare al MIT (Massachusetts Institute of Technology). Da dove è nata la necessità di trattare di api e creare qualcosa che potesse aiutare questa specie in pericolo?
Alla fine dei rispettivi corsi di dottorato, io e Riccardo ci siamo resi conto che eravamo stanchi di passare il tempo a scrivere paper su paper che comunque non erano che piccoli granelli in un grande mare di sabbia. Al nostro lavoro di ricerca e innovazione mancava principalmente un’applicazione concreta.
Siamo entrambi cresciuti nella provincia di Como. Io avevo un’asina, facile da gestire; mentre Riccardo aveva degli alveari, le cui api morivano di continuo. Tutti pensavano derivasse dagli agrofarmaci, ma la realtà era un’altra. È iniziato tutto lì.
Abbiamo deciso di informarci su cosa ci fosse dietro al mondo delle api per quella ragione.

Siamo partiti con un piccolo progetto di studio che non doveva durare più di sei mesi e siamo finiti a fondare una start-up che oggi è diventata la climate tech company leader nella tutela della biodiversità.
Come si interfaccia 3Bee con i clienti e con il pubblico? Cercate di istruire e divulgare le persone o la priorità rimane il product driven marketing?
Inizialmente facevamo tanto product driven business, anche nel mondo degli influencer. Tra 2020 e 2021, con la pandemia da Covid-19, abbiamo realizzato tante campagne e in poco tempo siamo passati da due a venti dipendenti. E tutto questo ci è servito per fare il salto. Attualmente, abbiamo consolidato il nostro posizionamento e e ci stiamo concentrando molto sulla divulgazione.
Due anni fa abbiamo lanciato il nostro primo progetto di sensibilizzazione sui cambiamenti climatici, andando a intervistare chi il cambiamento lo vive tutti i giorni tra cui gli agricoltori e chiedendo loro di raccontare i problemi che riscontravano nel quotidiano. Nel 2022 abbiamo sviluppato The Great Meltdown, il film sui cambiamenti climatici registrato in giro per l’Italia con l’obiettivo di raccontare tutti quei luoghi dove la biodiversità è stata rubata o distrutta dall’uomo.
Un paio di anni fa abbiamo lanciato anche la Call for Impactability, un concorso che aveva come obiettivo la ricerca delle tre start-up o idee più interessanti di quell’anno a livello di sostenibilità. Ci è arrivato di tutto, dai giovani appena laureati agli anziani che volevano migliorare il loro orto. La call è ancora attiva, la terza edizione si svolgerà nel 2024. Abbiamo finanziato per adesso circa 50.000 € per un totale di sei progetti. Gli obiettivi principali sono la tutela della biodiversità, la lotta al cambiamento climatico e l’educazione sul clima.
L’ultimo progetto è stato il Tour della Sostenibilità, realizzato insieme a CNC Media e con la partecipazione di Barbascura: quattro tappe a Milano, Bologna, Napoli e Roma per un totale di otto scuole – quattro istituti superiori e quattro università. Durante il tour abbiamo parlato di Agenda 2030 e Obiettivi SDGs (Sustainable Development Goals), gli obiettivi di sviluppo sostenibile elaborati dai Paesi membri dell’ONU, con l’obiettivo di rispondere alle nuove generazioni su questi importanti temi.
Attraverso questo genere di attività è cambiata la risposta del vostro pubblico?
Sì, è cambiata, perché in questo periodo stiamo anche modificando la nostra proposta sostenibile. “Adotta un alveare” era un’idea nata come crowdfunding che abbiamo spinto fino al 2021. E in due anni il pubblico ci ha permesso di finanziare tutte le nostre attività di ricerca.
Ad oggi invece, lavoriamo per realizzare progetti di rigenerazione rivolgendoci ad un pubblico totalmente diverso, quello aziendale. Lavoriamo al fianco di tutte quelle organizzazioni che hanno l’esigenza di migliorare il loro impatto sulla biodiversità, come ad esempio imprese, infrastrutture, poli logistici, aeroporti, autostrade e attività che alle spalle gestiscono una grossa filiera come l’agroalimentare.
Cosa intendete quando dite “proteggiamo le api” e nominate tutti i rischi e pericoli che però riguardano api selvatiche e non le mellifere?
Facciamo una premessa. Ultimamente, nel dibattito pubblico che sfiora queste tematiche, sembra esserci sempre di più la convinzione che le api da miele siano una sorta di “api domestiche”, o che comunque non si tratti di animali selvatici. Ecco, per l’entomologia non è così.
La carta di San Michele è un documento firmato nel 2018 da diverse università, tra cui quelle di Pisa, Bologna e Firenze, e dichiara che l’ape mellifera non è mai stata addomesticata. Per domesticazione si intende il processo attraverso il quale una specie animale o vegetale è resa domestica, ovvero “dipendente dalla convivenza con l’uomo e dal controllo delle sue condizioni di alimentazione e di riproduzione da parte di quest’ultimo” (Carta di San Michele).
Ed “è proprio la selvaticità dell’ape mellifica, il suo non essere un animale domestico, il punto di partenza di questo documento”. Su questa base, abbiamo costruito la nostra azione su tre principi:
- La tutela dell’apis mellifera in quanto insetto pronubo e non addomesticabile, fondamentale per la conservazione della biodiversità e il mantenimento degli equilibri naturali locali.
- Il fatto che l’ape mellifera sia un importante bioindicatore ambientale. Ed è proprio il suo ruolo da “sentinella” che ci permette di valutare la salubrità degli habitat.
- Il monitoraggio dell’ape mellifera e degli altri impollinatori ha l’obiettivo di ottenere un censimento in tempo reale della biodiversità che ci circonda.
Di conseguenza, lo slogan “Adotta un alveare” è una sintesi – anche banalizzante, se vogliamo – di questa idea e ha come obiettivo il monitoraggio dell’ape da miele, in modo tale da averne una gestione oculata e verificare che sia collocata in habitat corretti, oltre a riconoscerne il ruolo di fondamentale bioindicatore dello stato di salute dell’ambiente.
Il nostro progetto ha ricevuto alcune critiche, tra cui quella di Entropy for life, che sottolinea come l’ape da miele possa entrare in competizione con altre specie di api arrivando a danneggiare un determinato ambiente.
Questo è parzialmente vero, ed è vero soprattutto perché in Italia non esiste una regolamentazione chiara sul tema. Non c’è una certificazione e non c’è uno studio sulle api da miele.
Inoltre, negli ultimi anni, gli apicoltori hanno riempito alcune zone di alveari. Noi di 3Bee siamo sicuri che questo creerà dei problemi in futuro, anche se non è ancora dimostrabile. Ci sono troppi alveari e troppe api da miele che entrano in competizione con le altre e rubano nettare. La soluzione, in teoria, sarebbe duplice:
- Ridurre il numero di api da miele;
- Aumentare gli habitat.
La seconda opzione è chiaramente la favorita. Negli ultimi tempi a livello comunicativo stiamo utilizzando sempre meno “Adotta un alveare”, perché vogliamo posizionarci sempre di più sul mondo della biodiversità e trasformarlo nel vero obiettivo che ha sempre sotteso il progetto principale, ovvero in “Adotta un’oasi”.

Altrove hai detto che le api mellifere vengono allevate da secoli e più volte hai ripetuto che, senza l’apicoltore, in molti casi l’alveare non funzionerebbe. Cosa fa un apicoltore in 3Bee? E cosa intendi quando parli delle vostre oasi?
Negli ultimi due anni abbiamo creato circa 200 oasi della biodiversità, all’interno delle quali abbiamo messo a dimora migliaia di piante nettarifere, là dove prima c’era un deserto agricolo, con l’obiettivo di garantire nutrimento agli insetti impollinatori. Vogliamo così dare vita ad un circolo virtuoso: i nostri apicoltori diventano veri e propri coltivatori e promotori della biodiversità ambientale.
Le nostre Oasi della Biodiversità, inoltre, fondono la natura e la tecnologia: sono luoghi fisici e digitali che permettono di conservare e rigenerare la biodiversità, habitat urbani e agroforestali che fungono da rifugio per impollinatori e flora autoctona, certificati per il loro impatto tracciabile. Sono spazi finanziati da noi e dai nostri partner (in particolare imprese), che possono diventarne custodi realizzando progetti misurabili di tutela della biodiversità e coinvolgendo allo stesso tempo i propri stakeholder interni ed esterni.
Le oasi possono nascere sui nostri terreni, in luoghi che abbiamo selezionato perché poveri di biodiversità, oppure in zone di proprietà di comuni o aziende. L’obiettivo attuale è di arrivare a 10.000 oasi entro due anni.
Di che tipo di api parlate quando parlate di api?
Quando parliamo di api facciamo riferimento a tutti gli insetti impollinatori. È vero, si tratta di un tema comunicativo complesso, perché “ape” è più immediato, ma nell’immaginario comune l’ape è immediatamente riconducibile all’ape mellifera e non alle altre specie, come quelle selvatiche, o a tutti gli insetti impollinatori.
Stiamo infatti lavorando sempre di più per sensibilizzare rispetto a questo tema e per rendere cittadini e imprese consapevoli dell’importante ruolo degli insetti impollinatori, da cui dipende circa il 75% delle colture mondiali. Visto che gli impollinatori possono volare fino a una distanza di 3 Km, noi di 3Bee vorremmo creare un habitat proprio ogni 3 Km, in modo che siano in grado di trovare sempre nettare a sufficienza.
Hai detto che avete riscontrato problemi di comunicazione quando ad esempio si parla di impollinatori. Posso chiederti di approfondire?
Nel corso del tempo, in 3Bee abbiamo testato due diversi modi di comunicare: quello molto scientifico dei primi anni, non pensato per farci conoscere al grande pubblico, e quello più divulgativo, che punta a diffondere il nome e l’idea, pur essendo per ovvie ragioni più generalista.
Il termine “ape” in realtà vuole dire tanto, molto più di quanto non sia racchiudibile in uno slogan: come ho detto prima, a livello comunicativo – sul web, sui social, negli incontri dal vivo e nelle interviste – parliamo di api in generale, senza ulteriori specifiche, per farci capire da tutti, ma facciamo sempre riferimento a tutti gli insetti impollinatori.
Il problema è che, se siamo troppo generici, coinvolgiamo le persone ma diamo il fianco alle giuste critiche degli addetti al settore; viceversa, se siamo troppo scientifici, risultiamo incomprensibili ai più. Stiamo ancora cercando un compromesso tra queste due strade.
In questo contesto, consapevoli che incuriosire è alla base dell’acquisizione di un linguaggio più ampio sul tema e di una maggiore comprensione, abbiamo da poco lanciato due importanti progetti di formazione, uno dedicato alle imprese e uno alle scuole primarie:
- Pillole dall’Oasi: una Digital Academy per i Professionisti della Sostenibilità che offre un percorso composto da 12 moduli dedicati alla formazione su tematiche legate alla sostenibilità d’impresa, con il coinvolgimento di 23 esperti appartenenti al mondo della ricerca, dell’innovazione, del business e della finanza.
- 3Bee: A scuola di biodiversità: un piano didattico completamente gratuito dedicato alle scuole primarie, composto da 9 moduli dedicati all’approfondimento della biodiversità da più punti di vista, dall’importanza degli insetti impollinatori agli effetti del cambiamento climatico, fino ad arrivare al monitoraggio della salute degli ecosistemi. Si tratta di un percorso focalizzato sulla combinazione tra digitale e materie scientifiche, con laboratori pratici e in parallelo attività da svolgere a casa, a cui anche le imprese possono aderire scegliendo di affiancare una classe o una scuola in questo curriculum educativo che prepara i giovani ad un futuro più esigente in termini di sostenibilità.
Tornando all’azienda, negli ultimi tempi è sicuramente cresciuta: avete più persone che lavorano per voi, come esperti, scienziati, impiegati, consulenti. Ma come lavorate esattamente? Qual è il vostro rapporto con il mondo scientifico?
Adesso siamo in tutto una cinquantina di persone, di cui circa venti si occupano di ricerca e sviluppo. Cerchiamo di organizzare tutto nel modo più orizzontale possibile. C’è chi è entomologo, chi è esperto di conservazione degli habitat e chi analizza i dati; e poi ci sono gli ingegneri ambientali e informatici.
Per quanto riguarda il mondo scientifico, invece, ci sono varie università che lavorano con noi, dalla Federico II di Napoli, alla Sant’Anna di Pisa, fino all’Università degli Studi della Tuscia. Inoltre, abbiamo aperto collaborazioni per sviluppare paper accademici con realtà come il CREA di Bologna e il CNR, con l’intento di sviluppare dei modelli a partire dai nostri dati, per capire se gli habitat siano sani o meno, o per vedere come l’ape mellifera stia cambiando il suo comportamento di pari passo con il cambiamento climatico.
Qual è il vostro pubblico di riferimento?
Il 90% del nostro pubblico viene dall’Italia, che rappresenta la nostra base, anche se gradualmente stiamo acquisendo sostenitori anche in Germania e in Francia. In termini di target, poi, è per il 60% femminile, di età compresa tra i 18 e i 35 anni, probabilmente perché si tratta della generazione più presente su internet e più attenta al problema del cambiamento climatico.
Qual è in generale il vostro rapporto con le critiche?
Troviamo estremamente utile che il nostro pubblico si confronti con noi, lo facciamo in università, sui social e nei commenti ai video degli influencer.
Ogni tanto ci sono anche gli haters, che usano l’odio per screditare. Dal nostro lato rispondiamo sempre alle critiche costruttive e non condividiamo l’utilizzo di toni violenti e insulti. Al contrario, promuoviamo il confronto e lo scambio attivo e costruttivo con gli utenti.
La critica principale che ci è stata mossa [da Entropy for life] riguarda le api da miele, che non sarebbero da difendere; ma certo che sono da difendere. Non lo diciamo noi, lo dice la scienza, e si può leggere all’interno del testo della Carta di San Michele, che si propone “di accordare un’adeguata protezione faunistica all’ape mellifica (Apis mellifera Linnaeus, 1758) e, in particolar modo, alle sue sottospecie autoctone”.
E poi si aggiunge che “questa specie, pur essendo gestita dagli apicoltori da molti millenni, non può essere considerata un animale domestico e, in quanto insetto pronubo, svolge un ruolo insostituibile per la conservazione della biodiversità e quindi nel mantenimento degli equilibri naturali stessi, senza contare l’impatto sulle produzioni agricole” (Carta di San Michele).

A questo proposito, cosa significherebbe davvero la scomparsa delle api? Qual è il vostro punto di vista sul tema?
Anche in questo caso dobbiamo parlare principalmente di impollinatori, non solo di api. A mio parere, nel caso in cui le api dovessero scomparire del tutto, ci troveremmo davanti ad una grave crisi agricola e ad una fortissima perdita di biodiversità, perché l’80% delle piante ha un’impollinazione entomofila. Si tratta di un ragionamento di 3Bee, che però riprendiamo da Paolo Fontana, e che condividono anche i maggiori entomologi e biologi italiani.
Sul lungo periodo avete obiettivi o progetti nuovi?
Innanzitutto, consolidare i nostri tre pilastri: monitoraggio, rigenerazione ed educazione. In particolare, dobbiamo rafforzare sempre di più il primo: attualmente monitoriamo quasi 15.000 alveari in Europa e abbiamo una mappatura molto precisa.
Per quanto riguarda il secondo punto, siamo solo a 200 oasi su 10.000, il che significa che dobbiamo ancora fare tanto lavoro. Per il terzo punto, invece, dobbiamo impegnarci ancora in una campagna di comunicazione e divulgazione per sensibilizzare sempre di più rispetto alla tutela della biodiversità e rispetto alla sua perdita, che è una delle emergenze più urgenti di fronte alla quale ci troviamo.
Vorreste arrivare anche all’estero?
Ci stiamo provando ma è complicatissimo. Abbiamo iniziato ufficialmente a gennaio, andando prima in Germania e poi in Francia con “adotta un alveare”. Il progetto sta funzionando, ma si tratta di un processo molto lento. Adesso l’obiettivo è cercare di coinvolgere anche lì delle aziende pioniere e puntare sulla biodiversità. Abbiamo qualche cliente tedesco e francese che sta sviluppando delle oasi all’interno dei suoi terreni, ma la strada è ancora lunga.
Quanto è difficile mantenere l’idea “pura” – se così si può definire – da cui si è partiti anche quando si entra nel mercato e si deve cercare di renderla sostenibile e farla vivere senza allontanarsi troppo dai propri principi?
Nel nostro caso i nostri principi rimangono ben saldi proprio perché ci basiamo su ricerche scientifiche. L’ape da miele è selvatica, come afferma la Carta di San Michele, e va difesa perché è un fondamentale bioindicatore ambientale.
Quello che facciamo è ottenere dei dati scientifici in tempo reale grazie alle nostre tecnologie, per sapere a che punto siamo e dove stiamo andando. La misurazione in questo campo è fondamentale, ma quasi nessuno lo fa. Noi abbiamo sviluppato un dispositivo, Spectrum, che è installato in tutte le oasi e ci permette di contare gli insetti impollinatori e categorizzarli. In questo modo possiamo valutarne diversità e abbondanza e facciamo ricerca sul campo con l’obiettivo di apportare azioni migliorative per la biodiversità.
Tornando alla specifica domanda, in realtà è abbastanza facile mantenere la rotta, anche grazie al continuo confronto con la nostra community. Abbiamo appurato che dobbiamo far capire che esistono anche altri tipi di api, non solo quella mellifera. Ci troviamo all’interno del mercato della sostenibilità, che è un mercato sano, un mercato fatto di critiche che vanno ascoltate.
Avrei potuto fare tutt’altro, o anche solo puntare su un prodotto più “concreto”. Però, chi ad esempio si focalizza troppo sul vendere miele – cosa che noi non facciamo – finisce a vendere miele e basta, e non fa sostenibilità.
Ora una domanda un po’ più personale: cosa avresti voluto fare da grande?
Il mio percorso universitario è andato nella direzione di avere una sicurezza lavorativa. I miei genitori sono operai e mi hanno tramandato l’idea di trovare un lavoro “vero”, il cosiddetto “posto fisso”, altrimenti si muore di fame.
Questo fino all’università, perché l’ingegnere elettronico è forse il lavoro più pagato al mondo. Mi piaceva, ma non era mai stato il mio sogno. Quando è finito, probabilmente ho fatto il dottorato perché non sapevo cosa fare, in un qualche modo ha rappresentato una fuga dal mondo del lavoro. Il mondo delle start-up mi ha cambiato totalmente la prospettiva.
Quanto ti ha influenzato il tuo percorso di studi?
La laurea in ingegneria elettronica mi ha dato una formazione estremamente verticale, la parte tecnica se così si può dire. Il dottorato, invece, ha aggiunto a queste basi la parte orizzontale, quella che poi è servita per 3Bee.
Un’esperienza del genere ti permette di imparare a gestire le persone e le scadenze e a sviluppare progetti senza che nessuno ti guidi. Devi essere capace di trovare le opportunità, e poi sviluppare, portare avanti e concludere un progetto in tre anni. Così è partito il tutto. Guarda dove siamo arrivati.
Intervista a cura di Alice Nanni.
Editing e impaginazione di Vittoria Ronchi e Beatrice Russo.
(In copertina all’intervista a Niccolò Calandri, di 3Bee, Sarazh Izmailov da Pexels)
Per approfondire, leggi: 3Bee – Cosa devi sapere prima di regalare un alveare, di Alice Nanni.