Per quanto si cerchi di minimizzare, siamo ben lontani dal garantire a tutti e a tutte pari condizioni di vita e di lavoro. In quasi tutti i Paesi del mondo, dai più ai meno progressisti, la condizione della donna lavoratrice è svantaggiata e anche quando il lavoro è accessibile, gli ostacoli non mancano. L’immagine normalizzata di donna in quanto prevalentemente madre, spesso limitata all’interno del contesto domestico, è inaccettabile e nuoce a tutti, uomini compresi.
Dati alla mano
La parità di genere nel mondo è un obiettivo ancora all’orizzonte, e di questo passo potrà essere realizzato solo fra 131 anni: a dichiararlo è il Global Gender Gap Report 2023, diciassettesima edizione di uno studio condotto annualmente dal Forum Economico Mondiale per tracciare il progresso dell’uguaglianza di genere in prospettiva comparata.
Valutando i 146 Paesi in esame con punteggi che attestano la distanza già percorsa verso la parità, il rating globale del divario di genere si attesta al 68,4%, con un miglioramento solo minimo rispetto alla prima edizione del 2006, pari al 4,1% in diciassette anni. L’Italia si posiziona nella seconda metà della classifica, al settantanovesimo posto, scendendo di sedici posizioni rispetto al Report 2022.
Il 18 settembre ricorre la Giornata mondiale per la parità retributiva, istituita dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2019: è significativo, tuttavia, che in nessun Paese sia stata raggiunta la piena parità di genere, nonostante nella maggior parte dei contesti sia sancita per via legislativa.
Il Trattato di Roma del 1957, fondativo della CEE, stabilisce all’articolo 119 l’obbligo per gli Stati membri dell’Unione Europea di applicare il principio della parità nelle retribuzioni; in Italia, l’articolo 37 della Costituzione sancisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di mansione, le stesse retribuzioni rispetto al lavoratore”, mentre la legge 903 del 1977 vieta “qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro […] a tutti i livelli della gerarchia professionale”.
Eppure, le donne lavoratrici, italiane ed europee, guadagnano in media il 12,7% in meno rispetto ai loro colleghi uomini, senza differenze in termini di mansioni e produttività: alla base di una busta paga sistematicamente depauperata (si ricordi infatti che le donne lavorano gratis per un mese e mezzo ogni anno) deve essere vista e denunciata una discriminazione di genere che svaluta il lavoro svolto dalle donne in quanto donne e normalizza il divario facendolo passare inosservato.
Non a caso, la direttiva sulla parità di retribuzione tra uomini e donne emanata dall’Unione Europea a maggio 2023 insiste proprio sulla necessità di trasparenza – da parte delle imprese – e consapevolezza – dal lato delle lavoratrici –, muovendo dalla constatazione che spesso le donne non lamentano la disparità di retribuzione perché banalmente non se ne accorgono, non sanno di esserne coinvolte.
Segregazione verticale e orizzontale
In Italia il divario salariale medio è del 12,5%, valore relativamente basso se confrontato con quelli di altri paesi europei; tuttavia, la disparità di retribuzione oraria è solo uno degli indicatori del gender gap, espressione che sottintende una realtà molto più complessa in cui la discriminazione di genere si articola lungo linee diverse e molteplici.
Il valore della disparità retributiva, infatti, non contempla il tasso di occupazione femminile, riguardo al quale l’Italia, secondo lo studio di Confcommercio (aprile 2023), registra un “ritardo cronico”, con una differenza preoccupante tra Nord e Sud: in Italia lavora solo il 43,6% delle donne – rispetto al 60,3% degli uomini –, dato che scende al 29,9% al Sud, tocca il 52% al Nord, e diminuisce all’aumentare del numero di figli.
Inoltre, tra le lavoratrici un contratto a tempo indeterminato su due è a tempo parziale e il tasso di precarietà è maggiore tra le donne, impiegate più spesso tramite contratti a termine e di lavoro occasionale.
Si aggiunge inoltre un duplice fenomeno di segregazione, orizzontale e verticale, che accresce il differenziale reddituale tra uomini e donne nelle due direzioni.
La prima, occupazionale, opera attraverso la femminilizzazione di alcuni settori produttivi – come quelli relativi alla cura, all’insegnamento, ai servizi sociali – sulla base di stereotipi di genere che individuano e assegnano mansioni presumibilmente adatte a una certa immagine di “femminilità”.
Si tratta di occupazioni poco retribuite, a bassa qualificazione e con poche prospettive di carriera, le quali però presentano maggiore compatibilità con la funzione familiare addossata alle donne.
La segregazione verticale, invece, è il fattore responsabile della troppo frequente impossibilità per le lavoratrici di accedere alle posizioni apicali nei rispettivi ambiti di occupazione: si osserva piuttosto una concentrazione delle donne ai gradi più bassi della scala gerarchica di una stessa occupazione e, per contro, una sovra-rappresentazione maschile (in misura più evidente nel settore privato ma estesa anche al pubblico) ai livelli più elevati, a parità di qualifiche.
La disoccupazione, una scelta obbligata
Ulteriore dato interessante è che la disoccupazione femminile in Italia – coloro che sono alla ricerca di lavoro ma non lo trovano – riguarda solo l’11,1% delle donne: questo significa che il tasso di inattività supera il 40% a fronte del 25% degli uomini, con una notevole e drammatica disparità in termini di partecipazione al mercato del lavoro.
In Italia le donne non lavorano – alcune non trovano occupazione, la maggior parte non la cerca nemmeno – e quelle che lo fanno sono sottopagate, precarizzate e penalizzate sul luogo di lavoro: solo in linea teorica le donne che decidono di lavorare hanno la possibilità di accedere a qualsiasi tipo di professione, perché in pratica ciò non accade in ragione di una segregazione ordinaria e di una discriminazione sistemica per cui il lavoro come mezzo di realizzazione individuale è e deve rimanere un’esclusiva maschile.
Dietro i dati allarmanti si deve cogliere l’operatività di un’ideologia patriarcale che guarda a lavoratori e lavoratrici in modo differenziato e ha implicazioni materiali sulle vite delle donne e delle stesse famiglie.
La disparità di retribuzione è la cartina tornasole di un mercato del lavoro nettamente sbilanciato a favore della componente maschile, in termini non solo di stipendi, ma soprattutto di ambizioni e progressione di carriera.
La politica deve interrogarsi sulla problematicità di stereotipi di genere che perpetuano quotidianamente discriminazioni così grossolane, violando di fatto l’uguaglianza sostanziale che la nostra Costituzione prescrive allo Stato di realizzare.
Il lavoro svolto dalle donne, al pari di quello svolto dagli uomini, è essenziale al sistema economico del nostro Paese, nonché al sistema pensionistico, per altro fortemente penalizzato dal gender pay gap: significativamente, a livello europeo le valutazioni indicano che una riduzione di un punto percentuale del divario retributivo di genere comporterebbe un aumento dello 0,1% del PIL.
Le famiglie oggi non riescono a condurre una vita dignitosa con una sola fonte di reddito, eppure il lavoro delle donne continua a essere svalutato, meno retribuito e declassato, soprattutto nell’ambito di professioni che non richiedono alte qualifiche.
Il falso mito delle predisposizioni
Se nella segregazione verticale la discriminazione di genere è più evidente, nella segregazione occupazionale essa è occultata dall’idea, apparentemente innocua, che esistano predisposizioni professionali radicate nella sessualità.
In questo modo, quello che si può evitare di vedere è la concentrazione di uomini nei settori accademici e occupazionali di carattere scientifico – le cosiddette materie e professioni STEM – e, viceversa, quella delle donne nell’insegnamento scolastico o nei lavori di cura o, più in generale, nell’ambito umanistico.
Questa partizione è appunto l’esito di una naturalizzazione, da parte di ideologie di mascolinità e femminilità, veicolate fin dall’infanzia e nell’adolescenza.
La segregazione orizzontale è problematica, perché nasconde ambizioni tarpate da narrazioni che pretendono di sancire l’adeguatezza o meno di prospettive di realizzazione personale sulla base del genere.
La ragazza brava in fisica alla quale viene detto che la scienza è una cosa da uomini si convincerà che investire le sue energie in questo ambito è inutile e sbagliato; quindi, sarà indotta a preferire un futuro professionale più consono: tutta la società perde un talento, mentre lei, presto o tardi, ripenserà alle sue scelte e si chiederà come sarebbe andata se avesse coltivato il suo interesse.
La segregazione orizzontale è a doppio senso e danneggia anche gli uomini; con la differenza, però, che le professioni verso le quali sono orientate le donne sono solitamente meno retribuite, poco qualificate, considerate dalla pubblica opinione “semplici“, mentre quelle alle quali sono proiettati gli uomini sono più stimolanti, meglio pagate, “complesse“.
Il fatto che le facoltà di ingegneria siano piene di ragazzi e quelle di educazione siano frequentate solo da ragazze non costituisce la conferma di presunte naturali predisposizioni, quanto la dimostrazione che, di fatto, a partire dal contesto educativo, prima ancora di entrare in quello professionale, c’è una segregazione.
La libertà di scelta di bambine e ragazze non è mai piena, ma sempre condizionata.
Di nuovo, il Global Gender Gap Report 2023 fornisce un’ulteriore conferma: per la partecipazione e la rappresentanza delle donne in politica, l’Italia è scesa dal 40esimo al 64esimo posto nella classifica mondiale.
In entrambi i contesti – nella segregazione sia orizzontale sia verticale – interferisce la convinzione che la donna, prima del lavoro, porti su di sé un pacchetto di responsabilità familiari inderogabili che le spettano in quanto donna e le impediscono naturalmente di svolgere il lavoro come, invece, lo svolgerebbe un uomo – inspiegabilmente scevro da qualsiasi incombenza domestica.
Ecco, allora, che le donne sono espunte dalle professioni più impegnative e dagli incarichi più onerosi, poco importa quali siano le loro ambizioni o le loro capacità: il lavoro non è, e non deve diventare, la loro priorità; il loro ruolo è, e deve rimanere, un altro.
Non è un gioco di ruoli
Il punto è che questa divisione sessuata dei ruoli – l’uomo che lavora, la donna che si occupa della casa e dei figli – non è solo uno stereotipo ideologico-discorsivo attraverso il quale datori di lavoro discriminano lavoratrici, ma è la realtà materiale cui molte famiglie sono costrette.
Le giovani donne imparano molto presto che dovranno scegliere se avere dei figli e dedicarsi a loro, o se coltivare le proprie aspirazioni lavorative accettando di portare su di sé lo stigma della donna egoista e/o madre sconsiderata.
Il tasso di inattività delle donne italiane dimostra chiaramente qual è la scelta preponderante. I motivi sono piuttosto immediati. Della famiglia qualcuno si deve pure occupare, gli asili nido mancano oppure costano troppo, gli uomini guadagnano mediamente di più e le donne madri non piacciono al mercato del lavoro: è chiaro che la scelta più conveniente per le donne è rinunciare alla carriera lavorativa e rimanere a casa per prendersi cura della famiglia.
Questa situazione non può e non deve essere imputata solo a una concezione tradizionale dei ruoli all’interno della famiglia difficile da scardinare, ma deve suscitare interrogativi circa lo stato del welfare nel nostro Paese, in quanto proprio la carenza di servizi alle famiglie, soprattutto di asili nido accessibili, è il fattore principale dell’inoccupazione femminile.
Non si tratta di una coincidenza casuale che nelle regioni del Sud, dove lavora meno di una donna su tre, i bambini e le bambine che frequentano i nidi dell’infanzia sono il 10%, contro il 30-35% delle regioni del Centro-Nord, dove infatti il tasso di occupazione femminile è significativamente più alto.
Il cosiddetto tema della conciliazione tra famiglia e lavoro, infatti, per troppo tempo è stato ignorato dall’agenda politica, e continua ad esserlo se si considera che nell’ultimo testo del PNRR sono saltati ben 36.000 posti in asili nido. I dati preoccupanti relativi alla scarsissima partecipazione delle donne al mercato del lavoro sono perpetuati da misure di sostegno al reddito che destinano contribuiti in denaro alle famiglie con figli, ma non guardano in alcun modo a incentivare l’occupazione femminile.
Le donne continuano così a interpretare come doverosa la rinuncia alla carriera in nome del sostegno alla famiglia, trovando conferma in sussidi economici che sopperiscono alla loro inattività lavorativa, nonché in una retorica politica che continua a osannare la maternità come valore sociale che la donna, angelo del focolare, ha la preziosa funzione di custodire.
Si è osservato infatti che, aumentando il numero degli asili nido, la volontà delle donne di partecipare al mercato del lavoro aumenta sensibilmente, soprattutto tra coloro che hanno un livello basso di istruzione, ferma restando una bassa percentuale di occupazione effettiva a causa della discriminazione compiuta dalle imprese nei processi di assunzione.
Una disparità normalizzata
Gli studi sul gender gap, in ultima analisi, portano alla luce un grave problema politico, globale e in particolare italiano: la normalizzazione di una disparità strutturale tra uomini e donne, le quali nascono, sono educate, entrano nel mercato del lavoro e ne escono in una posizione ripetutamente svantaggiata.
Tale svalutazione sistemica delle nostre capacità, del nostro lavoro e in definitiva della nostra persona, divenuta quasi ordinaria e socialmente accettabile al punto che molte di noi non se ne accorgono, deve pungolare le coscienze sulla salute di una democrazia che si vuole liberale e repubblicana, fondata sul lavoro, sull’uguaglianza e sulle pari opportunità di realizzazione individuale, mostrandone la condivisa – ci si augura – inaccettabilità e spronando l’agenda politica a farsene carico.
Eleonora Pocognoli
(In copertina Foto di Kenneth Sørensen su Unsplash)