Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno vissuto grandi momenti di difficoltà, tra crisi ricorrenti, guerre varie e problemi in ambito economico e geopolitico. Il più recente è il rischio di default sul debito, ora scongiurato, ma sintomo di un Paese in bilico, tra politici impopolari e politiche sbagliate.
Nel corso della storia molti dei più grandi imperi si sono distrutti da sé: non per l’azione fulminea di una potenza esterna, ma attraverso lunghi processi di logoramento. Le invasioni barbariche, ad esempio, sono una conseguenza e non la causa di una decadenza che investiva da secoli l’impero di Roma; e l’Impero Britannico, che pure non subì alcuna sconfitta militare, dovette cedere il passo alla galoppante economia delle colonie.
La stessa URSS, storica rivale degli USA nel secolo scorso, si è messa fuori dai giochi da sola, nel maldestro tentativo di conciliare liberalismo e socialismo con il cosiddetto “socialismo di mercato”. Da allora, per circa un decennio, è sembrato che nessuno potesse contrastare la potenza statunitense; e qualcuno, addirittura, è arrivato a teorizzare la “fine della storia”.
Nulla di più sbagliato, perché dal 2001 in poi gli Stati Uniti, più che rafforzarsi, hanno vissuto grandi momenti di difficoltà, tra impegni militari inutili, la pericolosa sottovalutazione dell’avversario cinese e crisi ricorrenti. E proprio in ambito economico si è generata l’ultima, pericolosa insidia per gli Stati Uniti.
Una catastrofe sfiorata
Dopo le bolle finanziarie (i mutui subprime nel 2010 e le crypto nel 2023), l’inflazione tornata a salire per la guerra in Ucraina e un improbabile – quanto ironico – ritorno al protezionismo pensavamo di averle viste tutte; e invece gli USA hanno rischiato un default sul debito. Il pericolo si è dissolto solo a pochi giorni dalla scadenza fissata dalla segretaria del tesoro Janet Yellen grazie a un accordo politico tra le parti repubblicana e democratica.
Per comprendere meglio la situazione, bisogna sapere che in America esiste un tetto legale al debito, chiamato “debt ceiling”. Ma facciamo un passo indietro, nel 1917 il Congresso emanò una legge che stabiliva un limite sulla quantità di debito che per lo Stato era lecito avere.
E tuttavia, ogni volta che nella storia americana ci si è avvicinati alla cifra-limite, si è finiti per modificarla (ben 78 volte dal 1960 a oggi) per evitare il default. Nell’ultimo mese, però, la questione non è stata altrettanto semplice; e tutto il mondo ha osservato, temendo il peggio, l’inquietante situazione politica interna agli USA.
Le trattative per ottenere questo innalzamento sono state decisamente imbarazzanti. Tutta la partita si giocava nel Senato, dove non sono i democratici ad avere la maggioranza ma i repubblicani; questi ultimi, per far passare l’aumento del tetto massimo, richiedevano in una sorta di ricatto politico dei tagli alla spesa pubblica.
La difficoltà della negoziazione non stava tanto nel rapporto tra il presidente democratico Biden e il presidente repubblicano del Senato McCarthy, quanto nel riuscire a gestire le minoranze più radicali dei rispettivi partiti.
Fino all’ultimo, infatti, alcuni democratici particolarmente di sinistra hanno minacciato di votare contro l’accordo di compromesso perché non accettavano il taglio alla spesa pubblica; allo stesso modo, alcuni repubblicani hanno detto che avrebbero votato contro perché pretendevano tagli ancora maggiori. Alla fine tutto si è risolto in un compromesso, ma il Paese si è trovato a un passo da un autogol economico clamoroso.
Guerre di ieri…
I guai di Washington, tuttavia, non si limitano alla sfera economica e riguardano anche la geopolitica. Per oltre settant’anni gli USA si sono affidati ad una politica estera fortemente interventista, caratterizzata negli ultimi anni dal desiderio di ‘esportare la democrazia’ a ogni costo; politica che, adesso, non sembra più praticabile.
Questa impraticabilità nasce anzitutto dal crescente rifiuto della guerra da parte dell’opinione pubblica. Non è un segreto che gli abitanti di Europa e (dall’ultimo ventennio) Nord America siano sempre meno disposti a intraprendere il servizio militare, e il fatto che nel 2022 l’esercito statunitense abbia registrato solo 45.000 reclute (contro le 60.000 prefissate come obiettivo) ne è certo una prova significativa.
La minore disponibilità di soldati, unita alla bassa crescita demografica, non può che mettere in difficoltà un Paese come questo, impegnato a mantenere centinaia di basi militari sparse in tutto il globo e che ora, nella sfida per la difesa di Taiwan, si scopre a corto di uomini e risorse.
Se poi nelle democrazie la gestione dell’opinione pubblica relativamente alle guerre è già un bel grattacapo, quella statunitense attuale è di sicuro fra le più complicate: l’inutile e ingiustificata guerra in Iraq e il recente e imbarazzante ritiro dall’Afghanistan hanno sferrato un duro colpo al gusto della popolazione per impegni militari in giro per il globo.
…guerre di oggi
Per tutti questi motivi rimanere coinvolti in due guerre nello stesso momento, ovvero in Ucraina e a Taiwan, è tabù assoluto per gli USA; infatti, i repubblicani spingono per diminuire – se non azzerare – gli aiuti militari a Kiev, per cui fino ad ora hanno speso oltre 70 miliardi di dollari, mentre la necessità di prepararsi al Pacifico si è fatta sempre più insistente.
La fine degli aiuti all’Ucraina, decisa sulla scorta di una campagna di lobbying partitico e divisivo, creerebbe però non pochi danni agli Stati Uniti, con il rischio di lasciare l’Europa invischiata sul suo fronte orientale e sempre meno alleata sulle questioni indo-pacifiche.
Di conseguenza, gli Stati Uniti e i Paesi del Quad (ovvero Australia, Giappone e India, alleati contro la Cina) dovrebbero gestire da soli una possibile guerra diretta contro l’impero di Xi. Non proprio una passeggiata, considerando che la Cina si prepara a questo scontro da dieci anni, quando invece gli Stati Uniti paiono essere ancora molto indietro, lamentando ancora carenze di rifornimenti militari essenziali.
Politici impopolari, economia incerta
Per il resto gli USA soffrono di un male piuttosto diffuso in tutte le democrazie occidentali: la disaffezione generale verso la classe politica. I sintomi sono sempre gli stessi: scarso riconoscimento nei partiti classici (il 49% degli abitanti non si definisce democratico o repubblicano), politici poco amati o deboli (Biden e Trump, entrambi molto anziani e con alcuni problemi legali dovuti a una illecita appropriazione di documenti altamente classificati) ed eccessiva polarizzazione del dibattito pubblico.
Queste crepe nel tessuto sociale sono ultimamente sfociate in episodi violenti di piccola e grande portata, come l’assalto a Capitol Hill, nel 2021. Siamo davanti ai prodromi di uno sconvolgimento del tradizionale assetto bipartito della politica americana?
Almeno l’economia del Paese, dati alla mano, promette bene, soprattutto grazie ai livelli di occupazione che hanno raggiunto massimi storici. L’inflazione, però, è ancora alta, al 3.3%, e la Fed ha smesso solo ora di alzare i tassi d’interesse (arrivati al 5.25%).
Secondo un sondaggio che chiedeva di valutare la propria condizione economica rispetto all’anno scorso, il 12% degli intervistati diceva che la loro situazione era migliorata, il 41% che non era cambiato niente, il 44% denunciava un peggioramento. Il dato macroeconomico che meglio registra la sofferenza della popolazione è l’inflazione, fattore che può giocare un ruolo determinante nelle prossime elezioni presidenziali.
Navigare verso acque sicure
Il populismo dilagante e polarizzante dell’alt-right e del movimento woke, i cittadini (ed elettori) sempre più insoddisfatti quando volgono lo sguardo verso il portafogli e la scarsa preparazione in vista di un conflitto nell’indo-pacifico minacciano la tenuta del mondo libero occidentale.
Il segretario generale NATO Jens Stoltenberg ha detto all’inaugurazione del vertice di Vilnius “a stronger NATO, for a more dangerous world”. I piani di Stoltenberg non saranno però facili da ottenere se il gigante americano non ritrova stabilità.
L’America, quindi, ha bisogno ora più che mai di un leader capace di riunire il Paese e di abbassare le temperature internazionali, specialmente quelle dei rapporti sino-statunitensi sempre più scricchiolanti, ma all’orizzonte non compare niente di simile.
D’altro canto, noi europei dobbiamo renderci conto che tra poco le nostre strade si divideranno; lentamente, con uno sfumato cambio di priorità del gigante americano, o bruscamente, nel caso in cui tornasse alla presidenza Donald Trump, il campione assoluto del ritorno all’isolazionismo.
Gabriele Cavalleri
(In copertina immagine di Josh Johnson da Unsplash)