Come si può esordire al giorno d’oggi nel mondo della musica? È possibile vivere della propria arte? A quale prezzo? Lo abbiamo chiesto al giovane cantautore e produttore musicale Fabio Passatempi, autore di “Luci” e – insieme al duo Moyre – “Oltreluna”.
Partiamo dall’inizio: chi sei e da dove vieni? Qual è la tua storia?
Mi chiamo Fabio Passatempi e sono un cantante e produttore musicale. Sono nato e cresciuto a Budrio, nella provincia di Bologna, che è una città in cui sento un po’ un senso di appartenenza mancata. Ho iniziato il mio percorso musicale in seconda media, come DJ, grazie a due amici. Nei primi tempi ho fatto alcune feste di conoscenti, come fanno in tanti, ed è andata così fino alla seconda superiore. Con il tempo mi sono reso conto che la musica in realtà mi accompagnava da tutta la vita.
Poi, durante le superiori, sono cambiate un po’ di cose e ho finalmente trovato un gruppo di persone appassionate al mondo dell’hip hop. Abbiamo cominciato ad incontrarci nella cantina di un ragazzo del gruppo, dover erano stati messi un divano e delle casse, per ascoltare insieme i nostri dischi e commentarli. A un certo punto, ci siamo resi conto che i nostri specifici talenti si potevano unire bene: uno di noi, ad esempio, scriveva poesie; mentre a me piaceva l’idea di fare musica.
Questa esperienza mi ha fatto sentire pronto per collaborare con altre persone. Avevamo qualcosa da perdere? Ovviamente no. Abbiamo detto “proviamoci, tanto lo teniamo per noi, non dobbiamo avere aspettative”. E poi chissà.
E dopo le superiori? Quando hai iniziato a “fare sul serio”?
Diciamo che quello delle superiori è stato sicuramente un periodo difficile, dove però mi sono reso conto del ruolo e dell’importanza che aveva la musica nella mia vita.
Quando è arrivato il momento di decidere cosa fare dopo, ho pensato che valesse la pena provarci, trasformare quella passione in qualcosa per cui vivere.
Così, mi sono iscritto all’Accademia a Lucca, indirizzo “Production and Sound Engineering”, perché avevo la necessità di allontanarmi un po’ dal posto che conoscevo.
Volevo muovermi, scoprire altri contesti sociali, venire a contatto con nuove persone; che poi è un po’ quello che non ho mai smesso di fare e che sto facendo anche ora.
Cosa stai facendo ora, a parole tue?
Così, mi sono iscritto all’Accademia a Lucca, indirizzo “Production and Sound Engineering”, perché avevo la necessità di allontanarmi un po’ dal posto che conoscevo. Volevo muovermi, scoprire altri contesti sociali, venire a contatto con nuove persone; che poi è un po’ quello che non ho mai smesso di fare e che sto facendo anche ora.
Adesso ho realizzato cosa rappresenti uscire con un singolo, da tutti i punti di vista. Prima non avrei avuto la costanza necessaria, la mentalità; mentre ora è il momento in cui, con calma e con alle spalle un po’ di esperienza, ho consapevolezza di quello che ho in mano e so come usarlo.
Hai fatto un esordio un po’ eclettico, con il singolo Oltreluna, in featuring con il duo Moyre. Come è nata questa collaborazione e come è stato lavorare con loro?
Io e le Moyre ci siamo conosciuti molto prima di lavorare a questo featuring. Ci ha messi in contatto un mio compagno di corso in accademia, Matteo Sodano, l’altro produttore di Oltreluna. Negli anni degli studi tra di noi è nato un rapporto di confidenza e di collaborazione, al punto che mi sentivo tranquillo a condividere con lui quello che facevo.
Era un periodo di grandi sperimentazioni. Facevo sentire a Matteo la mia musica e lui rimaneva impressionato, mentre io non mi rendevo davvero conto del potenziale che aveva. Un giorno decise di far ascoltare tutto anche alle Moyre.
Durante il secondo anno accademico ho incontrato le Moyre e avevamo provato a fare un brano sulla mia idea di strumentale. Tuttavia, tra lo studio e la distanza, era difficile concludere il progetto. Quando abbiamo finito l’accademia, sono andato a fare una stagione lavorativa che mi ha provato molto a livello fisico e mentale, e alla fine dell’estate sono andato in Sicilia da Matteo.
Nei primi cinque giorni è nato Oltreluna: testo, strumentale, contenuti per la promozione. È un progetto che ha coinvolto tante persone, e la cosa mi è piaciuta dal momento in cui ci siamo messi a scrivere insieme.
Perché hai scelto di esordire con un featuring?
Come ho detto, tutto è partito dal rapporto di conoscenza e reciproca stima. Da lì, abbiamo lavorato tutti insieme, e si è creata una connessione molto forte che mi ha fatto dire “questo è ciò che voglio fare con la musica, creare delle opportunità per le persone di unirsi”.
Il fatto di uscire con un featuring rappresenta proprio questo, di non essere qualcosa che mi debba dare un risalto ma per lavorare e fare musica insieme alle persone.
In una collaborazione c’è anche un gioco di equilibri su quello che ognuno offre al progetto, e in questo mi aiuta molto tutta l’esperienza maturata quando ero solo produttore, perché adesso conosco entrambi i punti di visti e un po’ riesco a farlo con me stesso, quando produco i miei brani, e li scrivo.
E ovviamente è complesso, dal mio punto di vista sono l’artista più difficile con cui lavorare.
Hai qualche gruppo cantante, preferito che magari ti ha ispirato nella tua musica? Qualche punto di riferimento?
In particolare, no. Nella mia vita ho attraversato molti generi e ci sono stati tanti esponenti di questi generi che mi sono rimasti vicini, ma uno in particolare non credo di averlo. In generale la black music è il tipo di musica che più mi colpisce, ogni volta che la sento mi prende al cuore, senza nulla togliere agli altri generi.
Poi, ci sono artisti che mi hanno ispirato di più dal lato creativo come possono essere magari Flying Lotus, artisti che si trovano in mezzo tra il mondo dell’hip hop, dell’elettronica, del R&B.
Che genere sono questi due primi singoli?
Direi disco pop; si tratta di una musica che si collega ad influenze funky, disco con un tono non così specifico per il genere ma più collettivo, che in un qualche modo possa arrivare più facilmente alle persone, che possa essere un richiamo più chiaro, anche nello stato emotivo che voglio portare con il brano.
Quanto è difficile buttarsi nel mondo della musica dei giovani?
Dal punto di vista pratico – cioè, registrare un pezzo, farlo uscire e promuoverlo – è facile, perché ci sono mezzi e realtà che ti aiutano a farlo. Immettersi con un’identità nel mercato, al punto da risultare appetibili per una playlist editoriale, invece, non è così semplice.
Ci sono degli standard che inevitabilmente, l’industria discografica in quanto mercato vuole garantire. Sono standard molto chiari da un certo punto di vista, però sono anche difficili da realizzare dal lato creativo, perché non puoi importi qualcosa che funzioni; e allo stesso tempo, devi fornire garanzie a chi voglia investire su di te.
Penso che ora in Italia ci sia una bellissima scena indie nascente, perché si è molto più consapevoli di tanti stati emotivi rispetto alle generazioni di cantautori precedenti. Forse la difficoltà è riuscire ad essere veramente sinceri quando si scrive qualcosa, e di conseguenza essere tranquilli.
Per il resto, servono una programmazione, e un po’ di idee e di focus sulla strada che si vuole prendere. All’inizio non ti conosce nessuno e sei tu a doverti inserire in mondi molto più grandi di te: a volte è facile arrivare al pubblico; altre volte è la gente ad arrivare a te.
Quanto è difficile arrivare ad avere un seguito?
Per me è sufficiente essere sinceri in quello che fai anche per quanto riguarda la presentazione del tuo lavoro a una persona, proponendo qualcosa in maniera più spontanea. I grandi canali di promozione sono saturi, un po’ perché gli artisti sono tantissimi, un po’ perché molti sono bravissimi.
Non è facile essere a proprio agio col mettere in mostra quello che si sta facendo, da un punto di vista più personale ci sono artisti che lo fanno molto bene, artisti che si trovano a loro agio a parlare, a mostrare i lati della loro giornata e questa cosa intrattiene il pubblico e li lega.
Non si spiegherebbe dei Daft Punk che in 18 anni di carriera hanno pubblicato quattro album e sono tra i musicisti più influenti nella storia, c’è un qualcosa che hanno fatto che ha legato il pubblico.
Abbiamo parlato poco del tuo processo creativo: da dove parti, musica o testo?
A volte parto dalla musica, perché nascendo produttore ho un punto di partenza solido, qualcosa sul quale riesco a costruirmi un’idea il testo. Scrivo molto fuori dalla musica; e quindi mi annoto pensieri, frasi, concetti o cose da cercare e arriva un momento in cui sento una connessione particolare con quello.
Mi fido sia dal punto di vista di scrittura che dal punto di vista di produzione, mi fido di quello che mi piace, di quello che faccio. Entro in una dimensione e devo sentirmi molto a mio agio con tutto, con gli errori, con il tempo che passa, con la fatica di trovare quell’elemento per fare quella determinata cosa, magari anche solo nel trovare l’ispirazione. È importante vedere un po’ di cose, trovarmi in mezzo silenzio.
Molte cose per me partono dal silenzio in cui riesco a entrare in comunicazione con una parte all’interno di me, riesco a entrare in una dimensione in cui capisco che cosa sto pensando, ho piena consapevolezza di quello che sto provando, lo porto di nuovo in studio e cerco di trovare una connessione con quel sentimento. Da lì nasce l’organizzazione dei suoni, delle idee, delle strutture ed entra in gioco la tecnica, il saper suonare uno strumento oppure no.
Che strumento suoni?
Nessuno sostanzialmente, direi che suono al computer. In casa uso chitarre, tastiera, la batteria quindi non c’è oggettivamente qualcosa che non posso imparare a suonare. Anche se non so suonarlo posso farci musica, ho un computer che mi dà la possibilità di registrare determinate cose per arrivare meglio ai miei punti, non ho paura che la mia musica suoni non naturale o vera.
La musica elettronica, o più in generale quella digitale può farti superare certi limiti, è chiaro che non è nel suono reale quanto più nel movimento che fa quel suono, quello è l’apice in cui il suono entra in relazione con un movimento fisico. Il fatto di muovere la testa a ritmo o battere il piede, è naturale per l’uomo, la senti dentro e pensi di aver trovato il punto di chiusura.
È difficile da spiegare ma sostanzialmente cerco di entrare in connessione con me stesso e capire che cosa provo e trovare un modo per esprimerlo, trovare un equilibrio tra tecnica e divertimento e creazione. Sperimentare.
Se potessi definire la tua musica con una parola quale useresti?
Mi verrebbe da dire istintiva. Oltre al fatto di conoscere la teoria musicale e il modo di suonare uno strumento c’è tutto il resto delle cose che puoi fare. La fiducia che la musica m’insegna ad avere è ciò che mi fa prendere le decisioni giuste per scegliere come fare la mia musica. Il modo in cui arrivo a comunicare con le persone è una scoperta, è un modo naturale più che diretto. La spontaneità sta nell’accettare tutto quello che accade in questo percorso sapendo che devo arrivare a un punto.
Se dovessi scegliere un musicista con cui passare una giornata insieme quale sarebbe?
Devo dire che mi piacerebbe conoscere i Pink Floyd, perché è un gruppo a cui da sempre sono un po’ legato. Hanno un modo veramente fuori dal comune di creare musica, la penna di Roger Waters dà un significato alle parole estremamente differente da quello che uno può leggere da un testo.
È una persona dall’ottica differente e mi ha sempre affascinato tantissimo, il fatto di riuscire a vedere le cose da una prospettiva diversa e riuscire a raccontarle da quella prospettiva.
Quali sono i progetti a breve termini quali sono i progetti a lungo termine?
Per i progetti a breve termine, penso che continuerò a fare musica, all’inizio mi concentrerò sui singoli. Poi sicuramente mi piacerebbe iniziare a pensare a un album, che è poi il grande passo che a un certo punto ogni artista deve fare. I progetti più a lungo termine sono legati all’ambito della produzione: mi piacerebbe avere un mio studio, con una piccola realtà che possa unire persone diverse e diversi mondi.
Visto che ne hai parlato, quanto ha uscire con un album oggi?
Ha senso perché ogni album ha una sua anima. Non penso che sia necessario farli per forza se non hai qualcosa da metterci dentro. Da un punto di vista di mercato si cercano sempre novità e quindi si preferiscono i singoli. L’ascoltatore poi non ha il tempo di fermarsi a riflettere su un album perché ci sono altre uscite che stanno arrivando.
Da un punto di vista più artistico penso che sia importante farli e sia importante anche un po’ tornare a ricercare quel tipo di lavoro nell’opera, far fermare le persone un secondo per farli osservare qualcosa che è frutto di un lavoro, che è frutto di riflessioni da un punto di vista artistico.
La domanda non è tanto se sia ancora utile ma quanto arriva il pubblico. Ci sono ambienti e ambienti, in certi casi fare gli album ha meno senso perché sei dentro a una corsa. Preferisci programmare le uscite che buttare fuori un pacchetto di cose che magari non verranno ascoltate. Potrebbero crearsi nuove formule di promozione.
Intervista a cura di Stefania Berehoi
(In copertina e nell’articolo Fabio Passatempi; un ringraziamento particolare a Stefania Berehoi per la gentile concessione delle immagini)
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