Il 15 luglio gli Arctic Monkeys hanno suonato all’’ippodromo Snai La Maura di Milano. Dopo una mattinata passata a mettere a soqquadro il sito di TicketOne, sono riuscita ad accaparrarmi due biglietti prima che andassero sold out. Avevo aspettato con ansia quel giorno, entusiasta all’idea di poter finalmente vedere una delle mie band preferite, insieme alla mia migliore amica. Il concerto è stato meraviglioso, ma anche il viaggio per raggiungerlo vale la pena di essere raccontato.
L’andata
Ore 8:30. Sono arrivata alla Stazione Centrale di Bologna, circa mezz’ora prima che partisse il treno per Milano. Non ci ho messo molto a realizzare che non era proprio una buona idea per due motivi:
- Era troppo presto e non avevo nulla da fare;
- La mia migliore amica è nota per i suoi ritardi; quindi, avremmo comunque dovuto fare una gran corsa per non perdere il treno.
Ho passato quei trenta minuti a fissare i treni che partivano, a sudare per l’alta temperatura e a sorridere senza riuscire a fermarmi. La felicità mi aveva rapita e non riuscivo ad abbassare gli angoli delle labbra.
Nei passanti che mi guardavano coglievo un’espressione dubbiosa dietro a questo mio comportamento. Ero sicuramente l’unica persona a sorridere ampiamente in stazione la mattina presto con quel caldo tremendo.
Quel sentimento positivo è svanito presto grazie a Trenitalia, che aveva iniziato ad annunciare la cancellazione di numerosi treni. Ho preso posizione nella sala dei tabelloni degli orari pregando che al mio treno non succedesse nulla di grave.
La mia migliore amica mi ha trovata lì, immobile come una statua a guardare il numero del binario dove ci saremmo dovute recare, che ancora ricordo. Il 4-ovest era vicinissimo alla sala dei tabelloni e di conseguenza siamo riuscite a salire senza dover correre troppo velocemente, anche se non eravamo proprio in perfetto orario.
Siamo arrivate a Milano emozionate e affamate, domandandoci quali tra le persone presenti in stazione avremmo rivisto quella sera.
L’incubo dei trasporti: prima parte
Ci siamo avviate verso il concerto alle cinque del pomeriggio con i biglietti sottobraccio e il navigatore in mano. Avevamo passato la mattinata nello studio della madre della mia amica, che per quel giorno ci avrebbe fatto da casa.
Secondo le indicazioni fornite da TicketOne, avremmo potuto prendere due metropolitane diverse. Dalle fermate consigliate, però, il luogo pareva distare più di mezz’ora a piedi.
Presa dall’entusiasmo e animata dalla mia forte passione per le metropolitane, ho pronunciato le parole che ci avrebbero poi condannate a vagare sotto il sole per svariato tempo insieme a due ragazze sarde che si erano perse: “Fidati, prendiamo la lilla”.
Non appena siamo scese, ci siamo rese conto che l’Ippodromo La Maura era molto più lontano di quanto avessimo pensato e siamo state costrette a prendere un taxi. Fortunatamente, eravamo in quattro a dividerci il costo della corsa. Grazie all’autista siamo poi venute a sapere che il concerto non avrebbe avuto luogo all’interno dell’Ippodromo, ma in un parco lì vicino, all’aperto.
Pensando di essere finalmente arrivate, abbiamo percorso un lungo sentiero attraverso il parco per trovare l’ingresso, dove purtroppo abbiamo perso le nostre compagne di viaggio. Siamo riuscite a entrare senza problemi cercando qualcosa da bere e da mangiare prima di trovare una postazione da dove si vedesse bene il palco.
Avendo pochi soldi e un disperato bisogno di rinfrescarci, ci siamo accontentate di dividerci un gelato in due. Abbiamo poi trovato un posto non troppo lontano dal palco, da dove riuscivamo a vedere bene i grandi schermi montati per le persone in fondo e i musicisti, che da quel punto ci apparivano come figure in miniatura.
The Hives
Gli Arctic Monkeys avrebbero iniziato a suonare alle 21:40. Erano le 18:30 e sul palco erano presenti i The Hives, una rock band svedese di cui non avevo mai sentito parlare. Per un attimo mi sono dimenticata di non essere venuta lì per loro e mi sono lasciata travolgere dalla loro musica.
La band suonava meravigliosamente e il cantante, Pelle Almqvist, era molto bravo ad intrattenere il pubblico con le sue battute, che riusciva a fare anche in italiano.
Il caldo di luglio, però, si faceva sentire e mi rendevo conto di quanto la band si sforzasse per combatterlo. Il batterista (Chris Dangerous) ad un certo punto era diventato completamente rosso e Pelle Almqvist, per farlo riposare qualche minuto e incoraggiarlo ad andare avanti, aveva iniziato a far urlare il suo nome al pubblico, che lo acclamava con applausi e grida di supporto.
Grazie per i tuoi sforzi, Chris Dangerous, non dimenticherò mai la tua bravura, il tuo entusiasmo e il tuo vivace colorito.
L’arrivo degli Arctic Monkeys
I The Hives hanno finito di suonare verso le otto di sera. Tuttavia, per gli Arctic Monkeys avremmo dovuto aspettare più di un’ora, che io e la mia amica abbiamo deciso di passare sedute a terra, spaventate dal rischio di perdere il posto che avevamo trovato.
Ci siamo accomodate sul prato. Io mi sono messa seduta a gambe incrociate e lei si era appoggiata con la testa sul mio grembo mentre cercavo di passare il tempo giocando a scacchi sul cellulare. Intanto sono rimasta concentrata sull’orario, che sembrava passare molto – troppo – lentamente. Anche la mia amica continuava a chiedermi che ore fossero, impaziente di sentire la band suonare.
Finalmente sono arrivate le nove e quaranta e, senza far passare un minuto di più, gli Arctic Monkeys sono saliti sul palco, senza dire una parola, non annunciando il loro arrivo. Il concerto è iniziato sulle note di Brianstorm, sorprendendo il pubblico che si era messo ad esultare, cantare e ballare.
Sono rimasta ferma qualche secondo prima di unirmi a loro, cercando di assaporare il momento e di imprimere quel ricordo nella mia mente. Ho osservato il grande schermo che riprendeva il cantante, Alex Turner, intento a suonare e cantare la traccia iniziale.
È stata la mia amica a trascinarmi nel tumulto, prendendomi la mano e scatenando in me la voglia di divertirmi con il resto del pubblico. Così ho fatto. Mi sono lasciata trasportare completamente dalla musica. Mi pareva di sentire la voce di Alex che scivolava dentro il mio corpo.
Dal vivo le canzoni degli Arctic Monkeys erano molto più interessanti. I musicisti si sbizzarrivano maggiormente mentre suonavano rispetto a quanto avessero fatto nei pezzi registrati. Sembrava di sentire le loro emozioni e il loro entusiasmo attraverso gli strumenti.
Le canzoni parevano più complete e credevo di aver sentito per la prima volta come dovessero essere realmente, immaginando la loro versione registrata come una bozza di quelle che stavo ascoltando in quel momento.
Quello che mi ha stupito di più è stato il batterista, Matt Helders. Il suo modo di suonare sembrava più personale, come se in concerto stesse cercando di trasmettere tutto quello che non aveva tirato fuori in studio.
Gli Arctic Monkeys, fra gioia e commozione
Le canzoni che mi hanno emozionato di più sono state quelle che io stessa avevo suonato e cantato in sala prove.
Mi ero sempre vergognata della mia voce, dato che aveva un’intensità più bassa rispetto a quella esercitabile da una donna nella media. Raggiungevo le note alte a fatica, ma mi era molto facile arrivare in basso. Per questo motivo, in sala prove proponevo gli Arctic Monkeys alla mia band quando volevamo fare dei pezzi cantati. Mi mettevo davanti al microfono e accompagnavo le parole con il basso elettrico.
Sentirle al concerto è stato commovente. Ho ripetuto i versi a memoria, senza dimenticarne uno, non curante del fatto che stessi stonando. Avere l’occasione di riprendere dei pezzi che avevo già suonato e cantato per conto mio in presenza dei loro autori è stata un’emozione unica.
Notando che ero estremamente commossa, la mia amica mi ha proposto di salire sulle sue spalle, in modo che potessi vedere meglio il palco. Tenendomi stretta a lei sono riuscita a intravedere tutti e quattro i membri.
Li ho visti nello stesso modo con il quale avevo guardato i The Hives. Anche se non eravamo troppo lontane, da quella posizione li vedevo piccoli piccoli, ma non mi importava. Essere lì ed essere riuscita a osservare le loro figure in carne e ossa per me era abbastanza.
Il concerto è finito due ore dopo. Io e la mia amica non riuscivamo a crederci: entrambe credevamo che fosse passata poco più di mezz’ora e ci rattristò molto dover tornare indietro, ignare di cosa avremmo dovuto affrontare le ore successive.
L’incubo dei trasporti: seconda parte
Il mezzo più comodo per tornare a casa era l’autobus. Fortunatamente, la fermata era piuttosto vicina e in dieci minuti l’abbiamo raggiunta senza problemi. Erano le undici e mezza e il primo autobus sarebbe passato all’una e un quarto. Nessuna di noi due voleva trascorrere quasi due ore ad aspettarlo, così abbiamo deciso di avviarci verso la metro.
Distava pochi minuti dalla fermata dell’autobus, ma rimetterci in cammino è stato molto difficile. Entrambe eravamo stanchissime sia a causa del concerto sia a causa del caldo, che, nonostante fosse sera, si faceva sentire in modo molto opprimente. Siamo arrivate alla fermata circa quindici minuti dopo, impazienti di tornare a casa.
Non sapevamo se disperarci o arrabbiarci appena l’abbiamo trovata chiusa. Un piccolo volantino appeso all’entrata annunciava che a causa del concerto alcune fermate erano state bloccate per evitare sovraffollamenti.
Prima di raggiungere quella successiva, ci siamo prese qualche minuto per aiutare i gruppi di persone inglesi lì presenti che cercavano di tradurre il cartello che avvisava della chiusura delle metropolitane e delle strade bloccate per lo stesso motivo.
Tutti loro avevano deciso di seguirci e ci siamo spostati in gruppo verso la fermata successiva, che si trovava accanto all’autostazione. Abbiamo provato a correre per prendere l’ultima metro della serata, ma siamo state fermate dalla polizia che ci ha impedito di proseguire perché il treno era appena passato.
Ho passato i minuti successivi a cercare di tranquillizzare la mia amica e pensare a una soluzione. Ormai era mezzanotte passata e tutti gli autobus erano stati soppressi; quindi, era impensabile fare una corsa per tornare alla fermata iniziale che distava mezz’ora a piedi. Come noi, tante altre persone si erano trovate in quella situazione e nessuno riusciva a contattare un taxi per tornare a casa.
La fine dell’avventura
Abbiamo continuato a telefonare invano per due ore, mentre io cercavo di far sbollire la frustrazione e di consolare la mia amica prima che andasse nel panico. Sono riuscita a trovare la soluzione adatta verso le due, quando ormai mi ero calmata e avevo schiarito i pensieri. Mio cugino viveva lì vicino e il sabato sera era sempre in giro.
Fortunatamente, è riuscito a venirci a prendere e in poco tempo siamo arrivate a destinazione. Appena rientrate nel piccolo studio che ci ospitava, ci sedemmo sul pavimento tormentate da un mix di sensazioni diverse: rabbia, sollievo, felicità e stanchezza. Le orecchie mi fischiavano tremendamente e, nonostante mi dessero fastidio, non volevo che smettessero.
Mi distraevano dalla stanchezza che mi stava opprimendo e, chiudendo gli occhi, riuscivo a convincermi di essere ancora al concerto. Ho tentato per l’ultima volta di visualizzare vividamente l’immagine del palco per dimenticare il ritorno burrascoso. Di una cosa ero certa in quel momento: non avrei mai dimenticato il 15 luglio 2023, né in positivo, né in negativo.
Marta Ginghini
(In copertina: foto di Luca Marenda da Vanity Fair)