
“Barbie” di Greta Gerwig (2023) è uno dei film più chiacchierati e controversi dell’estate, ma cosa si nasconde dietro la sua immagine sgargiante e all’apparenza perfetta?
Sin dall’inizio dei tempi, sin da quando è esistita la prima fanciulla, ci sono state le bambole. Ma le bambole avevano sempre rappresentato delle bambine, finché…
Inizia così Barbie, uno dei film più attesi di quest’anno, ma tutto sembra fuorché un adattamento del famosissimo giocattolo prodotto da Mattel. I cinefili avranno riconosciuto subito l’evidente richiamo a 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968): stessa ambientazione desertica, stessa musica (l’iconico Così parlò Zarathustra di Richard Strauss); il tutto, però, raccontato in maniera totalmente diversa.
Al posto dei primati che adorano il monolite troviamo delle innocenti bambine davanti alle quali appare una gigantesca Barbie (replica del primo modello uscito nel 1959) che ne cattura subito l’attenzione. E mentre Margot Robbie sorride compiaciuta allo schermo, le bambine fanno a pezzi le ormai vecchie bambole di porcellana per fare spazio al nuovo giocattolo.

Una buona idea?
Fin dall’inizio, infatti, Barbie si differenziava dagli altri bambolotti già presenti sul mercato: era una bambola adulta, pensata come tale da Ruth Handler che le diede il nome di sua figlia, Barbara. Al momento della creazione, però, Ruth e suo marito Elliot non presero in considerazione il fatto di aver creato una bambola troppo perfetta, con un fisico smagliante e irraggiungibile.
Per l’epoca non sembrava un problema, anche perché pochi anni dopo i due furono allontanati da Mattel per disguidi finanziari e bilanci fasulli. Prima di andarsene, però, diedero vita ad un esercito di comprimari che popolavano il mondo di Barbie, in primis Ken, ispirato anche lui al loro omonimo figlio e all’apparenza perfetto. Le bambine passarono così dal semplice giocarci al considerare Barbie un vero e proprio modello da seguire.
La sua pelle perfetta, gli occhioni blu e soprattutto la sua eccessiva magrezza spinsero molte ragazze a disturbi alimentari e anoressia, oltre che ad ansia e depressione. La “Sindrome di Barbie” (e di Ken) che promuove standard di bellezza irreali ha colpito modelle e attrici (ma anche uomini) che si sono ritrovate in alcuni casi a spendere una fortuna per assomigliarle il più possibile.
L’idea di Handler non era di certo questa. Eppure, era davvero così difficile prevedere come sarebbero andate le cose? Uno dei punti cardini del film è proprio questo: l’accoglienza che Barbie ha avuto e la percezione che se ne ha adesso, non più tanto positiva.
Pensieri di morte
Quello di Greta Gerwig non è il primo film sulla storica bambola di Mattel: nel corso degli anni ne sono stati realizzati più di quaranta d’animazione, ma mai prima d’ora si aveva osato tanto. La storia è ambientata nell’idilliaca terra di Barbieland i cui abitanti sono tutti Barbie o Ken (e un solo Allan) e qualsiasi cosa, dalle case alle macchine fino al paesaggio, è di un acceso rosa confetto ai limiti dello stomachevole.
Qui, Barbie Stereotipo (Margot Robbie), vive una vita splendida, sapendo che l’influenza che il suo giocattolo ha avuto nel Mondo Reale abbia portato alla parità di genere e all’emancipazione femminile (o almeno così crede).

Nel suo mondo, infatti, sono le donne ad avere il potere, amministrare la giustizia e svolgere qualsiasi altro compito per cui esiste una bambola prodotta dall’azienda. In questa società matriarcale non c’è invece spazio per i Ken, che passano le giornate cercando di conquistare l’attenzione della controparte femminile.
La svolta avviene quando Barbie si ritrova a pensare per la prima volta alla morte e alle sue conseguenze: nel mondo perfetto in cui vive, però, non c’è spazio per queste preoccupazioni e il rischio di perdere la sua aura di perfezione è dietro l’angolo. Barbie sarà quindi costretta a partire per il Mondo Reale e cercare la bambina che gioca con lei per risolvere la situazione.
Affronterà il viaggio assieme al Ken Originale (Ryan Gosling) che scoprirà a sua volta come la realtà sia ben diversa da Barbieland.
Non è come sembra
La prima cosa da dire su questa pellicola è che non si tratta di un film per bambini, o perlomeno non è stato pensato per un pubblico troppo giovane che si limiterebbe a guardarlo senza capirne il vero significato. Dietro all’immagine colorata e stucchevole si nasconde in realtà una spietata critica alla nostra società e al sistema patriarcale.
Barbie capisce ben presto che non è bastata una bambola a cambiare la società e a emancipare le bambine, che anzi hanno finito per odiarla. Quest’ultime, infatti, considerano Barbie solo l’ennesimo simbolo del capitalismo e del consumismo americano, oltre che un modello di femminilità tossico e irraggiungibile.

Al contrario, Ken, per la prima volta libero dalla soffocante presenza dei suoi omonimi, si sente improvvisamente al centro dell’attenzione e, scoprendo il ruolo che gli uomini ricoprono nel Mondo Reale, ne rimane folgorato.
Sfondare il soffitto di cristallo (e la quarta parete)
Quando Barbie passa dalla sua terra natia – un locus amoenus – alla realtà, nota subito come la quantità di donne in ruoli chiave della società sia di gran lunga minore. I consigli di amministrazione sono dominati da uomini e del tutto privi della controparte femminile.
Dove sono le quote rosa? Possibile che non esista una mezza misura tra Barbieland e il Mondo Reale? La bambola interpretata da Margot Robbie è davvero responsabile di tutto ciò? Il film non si prende la briga di mostrare un’ipotetica soluzione e punta a essere una critica più che una pretesa di trovare una risposta (che invece consisterebbe semplicemente nel far equivalere salari e condizioni di lavoro fra uomini e donne).
Sarebbe tuttavia riduttivo condensare l’intera sostanza del film in queste poche righe, tanto che forse ci si chiede dove sia finita l’aria di allegria e divertimento che si respirava all’interno del trailer. C’è eccome: quello stesso Consiglio d’Amministrazione preso in esame prima altri non è che quello di Mattel.
Tra camei inaspettati e battute irresistibili, nel film assistiamo a una continua rottura della quarta parete che sembra quasi prendersi gioco dello spettatore. Possibile che tutta questa comicità (anche se mai esagerata) abbia però oscurato il messaggio finale?
E Ken?
È doveroso riconoscere le strabilianti capacità attoriali di Ryan Gosling, che si è indubbiamente impegnato molto (e anche divertito) nel realizzare questo film, e il ruolo di Ken all’interno della pellicola.
Se all’inizio, infatti, è solo uno dei tanti pretendenti di Barbie che tenta di farsi notare nella marmaglia dei suoi simili, egli riesce poi a emergere e imporsi sugli altri, portando avanti un proprio ideale di patriarcato che vede più come un momento di gloria che come un sistema di potere.

Questa presa di posizione è destinata ad avere vita breve e vuole piuttosto sottolinearne l’assurdità stessa, sia dal punto di vista femminile che maschile. Da una parte, infatti, vediamo le Barbie ridotte a cameriere o a semplice compagnia per i Ken, mentre dall’altra siamo testimoni del disagio dei Ken derivato dal vivere in una realtà in cui si sentono tutti omologati e privi di una vera e propria personalità.
Dalla sceneggiatura emerge come entrambe le bambole non siano in grado di costruire una società perfetta in cui accettare anche la controparte, tanto che il finale vuole essere più una stoccata agli uomini del Mondo Reale che agli ingenui Ken.
Un successo (in)aspettato
Alla fine dei conti, Barbie segue il paradigmatico “Fa ridere ma fa anche riflettere” e per una volta ci riesce davvero. Il messaggio lanciato da Gerwig coglie nel segno, è impossibile uscire dal cinema senza essere rimasti stupiti dalla visione. La pellicola è esattamente ciò che non ti aspetti: per quanto dai trailer si capisse che non sarebbe stato l’ennesimo adattamento per bambini, il film riesce comunque a sorprendere.
Dagli effetti speciali pratici, volutamente finti e “tattili” (come li ha definiti la regista stessa), alle scenografie che ricordano l’architettura degli anni ‘50 e ancora alla colonna sonora, di cui fa parte anche un inedito di Dua Lipa già diventato una hit.
Il film stesso non si prende sul serio per la maggior parte del minutaggio, tanto che è impossibile non ridere davanti alla bizzarria delle immagini che capitano davanti.
E questo è ciò che il pubblico cerca: l’assurdo, connaturato però in scottanti temi di attualità che spingono a chiedersi se sia necessario un film su una bambola per affrontarli. È evidente anche dagli incassi da capogiro del week-end di apertura: quasi 155 milioni solo in America, 337 in tutto il mondo.
Stupisce, ma in realtà non troppo, la valanga di polemiche che si sono abbattute sul film negli ultimi giorni da parte di chi si è sentito offeso dalle tematiche sollevate. Eppure, era chiaro fin dall’inizio: quello di Greta Gerwig è un film femminista, diretto da una regista femminista e con un chiaro intento femminista: i misogini e i sessisti sono avvertiti, se ne stiano alla larga se sono troppo sensibili!
Alessandro Palmanti
(In copertina e nell’articolo immagini tratte dal film Barbie, di Greta Gerwig)