
Il processo mediatico è un fenomeno che negli ultimi anni è sempre più presente nel nostro Paese, estendendosi anche ai nuovi media. Partendo dal caso di Enzo Tortora, è possibile analizzare le conseguenze disastrose che può avere sulla vita delle persone e sul corretto esercizio della giustizia.
Il linciaggio mediatico è facile: nel parteciparvi, ciascuno può per un istante sentirsi puro, vedere il male solo negli altri, credersi sempre dalla parte giusta. La verità ci fa uscire da questa polarizzazione da cattivo western, costringe noi stessi ad entrare nella bontà.
Fabrice Hadjadj
I media battono il martello
Il processo tradizionale viene svolto all’interno dell’aula di un tribunale, nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità e dinanzi ad un giudice terzo e imparziale (articolo 111 della Costituzione Italiana, principio del giusto processo).
In aggiunta, si svolge un processo parallelo celebrato non soltanto sui media tradizionali, ma anche sui social network, dove la comunicazione negli ultimi anni si è fatta sempre meno democratica e generalmente più improntata ad una critica non costruttiva nei confronti dell’altro.
Infatti, i media tendono a sovrapporsi alla funzione giurisdizionale diffondendo informazioni su vicende giudiziarie con narrazioni suggestive in modo da spingere l’opinione pubblica verso una particolare ricostruzione della realtà dei fatti. Il rischio è che si instauri una vera e propria “gogna mediatica” nei confronti di uno o più sospettati con pesanti effetti sulla vita sociale e professionale di queste persone.
Il caso di Enzo Tortora
Enzo Tortora rappresenta un esempio famoso per toccare con mano ciò che avviene quando la macchina mediatica prende il via.
Il conduttore della celebre trasmissione “Portobello” venne arrestato per errore il 17 giugno 1983 con l’accusa di essere implicato nello spaccio di droga per conto della camorra. Tale imputazione gli costò una condanna di dieci anni in primo grado e, soltanto successivamente, in Corte d’Appello, si scoprì che si era trattato di un caso di scambio di persona.
Quando il calvario giudiziario terminò e Tortora riprese a condurre il suo programma, nel 1987, erano ormai trascorsi quattro anni dal giorno in cui aveva avuto luogo quella passerella mediatica che lo vedeva uscire in manette dall’hotel in cui alloggiava. L’uomo era ormai profondamente segnato da quanto accaduto e morì l’anno successivo stroncato da un tumore polmonare.

Negli anni ‘80 i social ancora non esistevano, eppure esistevano già la sovraesposizione, lo sciacallaggio e l’attenzione morbosa da parte dei media. Spesso l’effetto ultimo di questo tipo di atteggiamento porta ad una divisione del pubblico tra chi crede che l’imputato sia innocente e chi pensa che sia colpevole, il più delle volte basandosi su personali antipatie o simpatie piuttosto che su un’attenta analisi dei fatti.
D’altro canto, bisogna anche considerare che, al di là di questa vicenda – che nello specifico coinvolge un personaggio pubblico e quindi già oggetto di un certo tipo di considerazione e anche di un certo seguito –, esistono situazioni in cui le persone coinvolte sono sconosciute e compaiono in TV proprio a causa di fatti di cronaca che li vedono come vittime o sospettati di un crimine.
Qualche cenno normativo
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Costituzione Italiana, articolo 27.
Il principio è definito “presunzione di innocenza” ed è contenuto anche nell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in base alla quale “ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia legalmente accertata”.
Nel 2016 l’Italia ha anche recepito la direttiva 2016/343 del Parlamento e del Consiglio europeo che si pone come obiettivo il rafforzamento del principio della presunzione di innocenza. Ma quanto è effettivamente tutelato questo diritto nella realtà dei fatti? Quanto lo è il processo?
Quest’ultimo, in particolare, si occupa dell’accertamento della verità e della responsabilità penale dell’imputato, non della divisione in “buoni” e “cattivi”; e, soprattutto, non lo fa con le tempistiche dell’informazione immediata, proprio affinché possano essere garantite la concreta applicazione della legge e la tutela dei soggetti coinvolti.

Al contrario, certe modalità di fare giornalismo che mimano costruzioni tipiche del procedimento giurisdizionale condite con una buona dose di spettacolarizzazione sembrano perdere di vista gli obiettivi primari, ovvero la giustizia, la correttezza e l’obiettività dell’informazione.
Informare o sceneggiare?
In diversi programmi televisivi sembra che lo “sceneggiare” soppianti l’“informare”, cosicché l’ascoltatore, più che seguire un caso di cronaca, si ritrova ad essere spettatore di una drammaturgia.
Trattandosi spesso di vicende giudiziarie in corso, il rischio è che tutto ciò si ripercuota sulla verità processuale e che venga minato il rispetto della dignità umana delle persone coinvolte – vittime, imputati o indagati. L’eccessiva attenzione mediatica anche ai tabulati telefonici e intercettazioni può esercitare pressione sul magistrato deputato al caso rischiando di compromettere l’esito delle indagini.
Per di più, negli ultimi anni, con la diffusione sempre maggiore dei social network, che in un certo senso permettono di “entrare” nelle vite delle persone, anche il diritto alla privacy rischia di essere intaccato più facilmente.
Ricerche dei profili social delle persone coinvolte, minacce, intimidazioni, insulti, attacchi diretti all’una o all’altra parte sono all’ordine del giorno e finiscono per aggiungere dolore su dolore. Su YouTube sono poi disponibili intercettazioni, video e talvolta fotografie che riguardano la vita intima della vittima, accessibili sempre in modalità on demand.
Fermiamo lo show
Negli ultimi anni è sicuramente cresciuta l’attenzione nei confronti delle derive tossiche che la stampa può assumere sia per quanto riguarda la diffusione di fake news sia per quanto concerne le modalità comunicative utilizzate (come, ad esempio, l’adozione di un linguaggio inappropriato o banalizzante, in particolar modo nei titoli).
Diverse questioni rimangono però ancora aperte: la salvaguardia del diritto di cronaca, ad esempio, non può scontrarsi con quella dell’articolo 2 della Costituzione sulle libertà individuali, la tutela della dignità umana e i diritti inviolabili della persona.
Inoltre, la ricerca della verità dovrebbe prevalere su qualsiasi forma di strumentalizzazione affinché i casi giudiziari non si trasformino in una sorta di “romanzo a puntate”. In definitiva, the show mustn’t go on.
Claudia Cavagnuolo
(In copertina, Ekaterina Bolovtsova su Pexels)