L’Italia è in pieno inverno demografico: secondo Gian Carlo Blangiardo, presidente ISTAT, in assenza di interventi strutturali nei prossimi anni la popolazione scenderà da 59 a 48 milioni di abitanti, con gravi conseguenze sulla forza produttiva del Paese e sul sistema pensionistico. La natalità è un problema, eppure il governo attuale preferisce gridare alla perdita dei valori tradizionali e alla sostituzione etnica.
Nei giorni scorsi Eugenia Roccella, ministra alla Famiglia, alla Natalità e alle Pari Opportunità, ha dichiarato che “c’è bisogno di una rivolta a difesa dell’umano: la famiglia, la filiazione, sono il cuore, sono le basi dell’umano ma ora sono a rischio”. A suo parere, utilizzare per animali domestici nomi tradizionalmente assegnati alle persone indica “un bisogno di affettività e di famiglia che viene trasferito in maniera impropria sugli animali” – d’altra parte, lo ha detto anche il Papa.
L’Italia ha certamente un grave problema di denatalità: nel 2022 è stato raggiunto il record negativo di 390 mila nati contro 700 mila decessi, meno di 7 neonati e più di 12 decessi ogni 1000 abitanti.
Secondo il demografo Massimo Livi Bacci (In cammino: breve storia delle migrazioni, 2019), tra il 2020 e il 2050 le forze di lavoro scenderanno di circa un quinto. Il tasso di natalità è di 1,24 figli per donna – non sarebbe più corretto considerare il numero medio di figli per unità familiare? – e l’età media al parto è di 32,4 anni.
La nostra popolazione invecchia, le aspettative di vita aumentano, ma gli italiani non fanno figli: una politica responsabile si interrogherebbe sulle cause e cercherebbe di elaborare soluzioni dignitose, eppure il governo attuale preferisce rifugiarsi dietro il motto “Dio, Patria e Famiglia”.
Il problema è che queste tre parole, che in uno Stato laico e con trascorsi nazionalisti dovrebbero far rabbrividire, non hanno solo un enorme potere discorsivo, ma informano le scelte politiche.
Davvero i giovani non vogliono figli?
Roccella sostiene che la famiglia, come “base dell’umano”, sia a rischio in quanto le persone fanno sempre meno figli: la ministra, quindi, invoca una crisi valoriale che investe i – e le – giovani di questo Paese, che proietterebbero il loro bisogno di affettività altrove.
La famiglia può e deve essere considerata un valore, nonché un diritto, ma solo a patto che sia intesa nell’accezione più ampia e inclusiva possibile: diversamente, una classe politica che si arroga il potere di definire ciò che può essere considerato famiglia e ciò che non lo merita non rispetta la cittadinanza, ne viola anzi i diritti e non adempie al compito del quale è stata investita.
Svelata la prima contraddizione nel gridare alla perdita dei valori familiari e contestualmente negare riconoscimento e tutele a coloro che vogliono costituire una famiglia o già lo sono di fatto, le affermazioni di Roccella continuano ad essere problematiche anche nel contesto eteronormativo da lei prediletto.
In realtà, infatti, la famiglia come valore non è affatto compromessa: il Sole 24 Ore riporta che il 73% dei giovani under 30 crede in essa come “unione di due persone che decidono di perseguire un progetto di vita comune” – indipendentemente dal sesso dei componenti – e il 58% ne individua come prima funzione il supporto psicologico reciproco.
Inoltre, sette giovani su dieci vorrebbero avere almeno due figli, quasi un terzo ne vorrebbe tre o più.
È evidente allora che la denatalità non deriva da alcuna crisi dei valori tradizionali, dietro la quale invece il governo attuale vorrebbe nascondersi: se davvero si trattasse di un problema etico, infatti, si potrebbe pensare che la classe politica sia impotente di fronte alle scelte di giovani individui sempre più egoisti e votati al successo personale, quindi minaccia per “l’umano” e per il futuro della nazione.
Un mercato del lavoro malato
La verità è che i e le giovani vogliono costruire famiglie, ma fanno fatica perché la denatalità ha messo le radici in un tessuto sociale ed economico rapace, fatto di precarietà e assenza di tutele.
In primo luogo, la convinzione che le coppie italiane non fanno figli è falsa, in quanto in realtà hanno il primo figlio in età “avanzata” e si trovano poi costrette a non averne altri: questo dato smentisce di nuovo la tesi di Roccella e conferma la volontà di costruire una famiglia, a fronte però di possibilità limitate.
La bassa natalità è conseguenza di un mercato del lavoro malato, dove la precarizzazione è diventata la regola e la stabilità l’eccezione.
In un Paese in cui, su 23 milioni di occupati, 11 hanno contratti a tempo determinato, senza contare coloro che sono costretti a ricorrere al lavoro nero, non è vero che i giovani “non cercano la stabilità” e “vogliono il lavoro figo”, come Paolo Zangrillo, ministro della Pubblica Amministrazione, ha affermato con una certa vena polemica e sprezzante.
I giovani che “non si accontentano”, secondo Zangrillo, sono coloro che cercano un “lavoro ben retribuito e capace di valorizzarli”: ora, ritenere che cercare un lavoro gratificante che consenta di vivere dignitosamente sia un obiettivo pretenzioso è una prospettiva deviata dal privilegio di chi, per sua fortuna, si è sempre visto queste condizioni garantite.
Secondo il Global Wage Report 2022-2023, i salari italiani sono fra i più bassi in Europa e, inoltre, sono diminuiti negli ultimi trent’anni, di cui del 12% solo dal 2008: è chiaro che in un contesto in cui le retribuzioni si abbassano e il costo della vita aumenta, sostenere le spese necessarie per la crescita di uno o più figli è un peso ulteriore, che spinge i potenziali genitori ad attendere la stabilità economica e, in alcuni casi, a sacrificare il proprio progetto di vita.
Famiglia o lavoro: non scelta ma costrizione
La precarizzazione del lavoro, inoltre, è sbilanciata a discapito delle lavoratrici all’interno di un mercato del lavoro già diseguale.
La donna che desidera realizzarsi nella sua professione e avere anche dei figli sa già, prima ancora che le si renda esplicito, che dovrà essere molto fortunata per conseguire entrambi gli obiettivi e che molto probabilmente dovrà scegliere in termini di priorità.
Qualora decida di privilegiare il lavoro che ama, subirà l’accusa di non adempiere ai suoi doveri di donna e di invidiare i suoi colleghi uomini, ma comunque avrà uno stipendio più basso e sarà considerata meno competente. Qualora decida di diventare madre, dovrà sentirsi dire che è naturale lasciare indietro il percorso lavorativo perché, in fondo, il suo compito è dare la vita e crescere il nostro futuro.
Anche volendo, poi, ignorare la mortificazione delle ambizioni individuali delle donne lavoratrici, rimane la constatazione che, ad oggi, una famiglia necessita di due stipendi per sopravvivere, quando sono sufficienti.
Ora, come può, la ministra delle Pari Opportunità, occultare una tale inaccettabile contraddizione? Come può permettersi di insinuare che le persone non vogliano avere figli perché non ne hanno interesse? Come può non vedere che una donna è costretta a scegliere tra alternative che agli uomini non si porranno mai, e che in ogni caso ne esce svantaggiata?
La politica ha una responsabilità, dal punto di vista discorsivo ma soprattutto dal punto di vista materiale.
Il PNRR prevedeva la realizzazione di 264.480 nuovi posti negli asili nido, di cui 100.000 ora sono a rischio in quanto il governo attuale intende migliorare le strutture già esistenti piuttosto che costruirne di nuove, come la Commissione Europea ha invece indicato. Inoltre, nell’ultimo testo del PNRR i posti sono stati comunque pesantemente ridotti, con una perdita di oltre 36.000.
Evidentemente, gli asili nido non sono una priorità per il Governo, che preferisce investire in defiscalizzazione e misure di sostegno al reddito: questo indirizzo può forse aumentare la natalità, ma al prezzo di lasciare le donne a casa per occuparsi dei figli e senza toccarne la matrice strutturale.
Il problema della denatalità deve essere affrontato nella prospettiva di superare le disuguaglianze sociali e di genere implementando le misure di welfare: accanto agli asili nido che permetterebbero una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, quindi retribuzioni dignitose e la possibilità di conciliare vita privata e lavorativa, il nostro mercato del lavoro necessita di dispositivi di sostegno alle famiglie, quali congedi parentali retribuiti, uguali e obbligatori per ciascun genitore.
Denatalità e la favola della sostituzione etnica
La situazione demografica europea è drammatica e l’Italia ne rappresenta una delle configurazioni peggiori: il demografo Livi Bacci osserva che nei prossimi anni “75 bambini dovranno sostituire a tempo debito 100 adulti-genitori, nella produzione di reddito, nelle funzioni sociali, nelle capacità riproduttive”.
La depressione demografica rappresenta un grave problema per la produzione di ricchezza in settori dove l’aumento della produttività non può essere efficace, come nell’ambito dei servizi alla persona, e mette necessariamente a rischio la tenuta del sistema pensionistico.
Alla luce di questo, se l’aumento della natalità, nella complessità delle misure necessarie, può produrre effetti nel lungo periodo, per il momento presente il fenomeno della migrazione è di importanza cruciale, ma ecco che, accanto alla “Famiglia” si evoca la “Patria”.
Secondo Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare, il calo demografico va colmato con incentivi alle nascite, non accettando la “sostituzione etnica”; pochi giorni fa, Roccella ha aggiunto che “l’Italia è un Paese che dà molta cittadinanza ma non si può appaltare la natalità a paesi terzi”.
Evidentemente, per il governo in carica la propaganda travalica la realtà e le sue esigenze: poco importa che la nostra popolazione invecchia e decresce impattando gravemente sull’intero sistema economico, ciò che conta è rassicurare gli italiani che la loro identità di sangue sarà tutelata.
Accanto alle parole disgustose pronunciate dal ministro, giustamente definite da Schlein espressione di “suprematismo bianco”, anche in questo contesto emerge la retorica con cui il Governo sta aggirando i problemi del Paese reale rifiutandosi di affrontarli nel merito.
Il 74% dei cittadini e delle cittadine considera la denatalità un tema urgente in Italia: i loro – i nostri – progetti di vita sono compromessi da condizioni di vita insostenibili, che sul piano prettamente materiale vanificano sforzi e ambizioni. Sentirsi dire che non abbiamo più valori e che cerchiamo la via più facile adottando cani e gatti invece di avere figli non è accettabile, tanto meno da parte di una classe politica che sceglie di rimanere miope.
E allora sì, una “rivolta a difesa dell’umano” è doverosa, ma contro la disumanità di un Governo che non si fa scrupoli a negare il diritto ad essere figli e alla genitorialità in nome della famiglia tradizionale, e che non esita a lasciar affogare centinaia di vite in mare per difendere la Patria dall’invasione. Evidentemente, la perdita dei valori è altrove.
Eleonora Pocognoli
(In copertina immagine da TAG 24. Tutti i diritti spettano ai relativi proprietari)