La morte di Silvio Berlusconi, lunedì 12 giugno, è arrivata come una doccia fredda sul nostro Paese, non perché mancassero le condizioni, ma perché la politica italiana da ormai 30 anni reca la sua impronta. Questo non significa che sia stato un grande statista; tuttavia, se vogliamo occuparci di come funziona oggi la nostra politica e dei suoi problemi, è proprio attraverso Silvio Berlusconi che bisogna passare.
Tra l’odio e la beatificazione, la soluzione è nel mezzo. Silvio Berlusconi non è stato un dittatore né un rispettoso uomo di stato.
È stato un politico che non ha mai smesso di essere imprenditore e ha avuto un enorme ruolo pubblico senza mai mettere da parte il privato.
Poi, si è sempre schierato dal lato della democrazia, della libertà e delle istituzioni, salvo poi attaccare i giornalisti che lo incalzavano con domande scomode, giocare il ruolo della vittima perseguitata da una magistratura politicizzata, promuovere leggi ad personam e circondarsi di uomini legati a Cosa Nostra.
Il momento dell’emotività
Al di là del piangere per la morte di un grande uomo o gioire per quella di chi per anni ha inquinato la realtà comprandola con il proprio potere economico e lo ha fatto da presidente del consiglio, il punto è un altro: ogni cittadino e cittadina di questo Paese negli ultimi 30 anni si è definito, politicamente e non solo, rispetto a Silvio Berlusconi, per identificazione o per contrapposizione.
Esiste un’intera generazione, alla quale io stessa appartengo, che è nata e ha vissuto la propria infanzia quando Berlusconi era protagonista della scena politica italiana, in maggioranza o all’opposizione, e tutto si ridefiniva intorno alla sua figura. Una generazione che non ha conosciuto l’Italia senza il berlusconismo e che forse non la conoscerà mai, sicuramente non nei prossimi anni, perché questa è la fine dell’uomo, non della sua eredità.
Oggi, come ha scritto il giornalista Emilio Mola, è il “momento dell’emotività”, che riguarda una figura radicata nella cultura e nell’immagine dell’Italia, ma questa non deve produrre la “scusa per una rimozione collettiva”, non deve cancellare la storia, perché se la nostra società è più sessista, individualista, rancorosa verso le istituzioni e poco fiduciosa nella giustizia, Silvio Berlusconi porta sulle proprie spalle molte responsabilità.
L’immagine del simpatico anziano leader di partito che racconta barzellette non ci deve far dimenticare la direzione che ha impresso a questo Paese.
Da domani la persona non ci sarà più, ma quello che rimane è l’esperienza politica che ha plasmato e ha tentato di governare, perdendone infine il controllo. La soluzione, allora, è nel mezzo non perché abbia fatto anche cose buone, ma perché non si può odiare l’uomo che ha distrutto il Paese senza capire perché, in un contesto democratico, ci è riuscito.
La sostanza politica del discorso berlusconiano
La discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994 inizia con una grande menzogna: non è vero che decide di entrare in politica perché ha a cuore la cosa pubblica compromessa da pericolosi comunisti, lo fa perché il gruppo Fininvest di cui è presidente rischia il fallimento.
D’altra parte, però, il messaggio dell’imprenditore che scende in politica per salvare il Paese dalle sinistre funziona, nonostante parlare di comunismo a metà degli anni Novanta non abbia più alcun senso, e continua ad avere successo negli anni successivi, anche dopo il primo fallimento, tanto che nel 2001 in diretta televisiva il Cavaliere firma il Contratto con gli italiani.
Se la parabola berlusconiana è stata così ampia dopo i tanti errori – la chiusura immotivata della Bicamerale, la violenza al G8 di Genova nel 2001, le leggi ad personam, gli scandali sessuali, la crisi finanziaria – è perché il discorso pubblico berlusconiano non è stato solo vuota retorica, ma ha avuto una sostanza, un progetto politico cui l’elettorato ha dato fiducia più volte.
Si dice, e sono d’accordo, che Silvio Berlusconi abbia inaugurato il populismo in Italia, ma se per «populismo» si intende pura demagogia allora questo termine non è sufficiente: quello del Cavaliere, nella definizione che ne ha dato lo storico Giovanni Orsina (Il berlusconismo nella storia d’Italia, 2013), è stato un “populismo liberale”, un’emulsione di populismo e liberalismo.
Berlusconi è stato il primo a fare un’apologia del Paese reale, a partire dal discorso “L’Italia è il Paese che amo”, a dire che gli italiani vanno bene così come sono, che la società è perfettamente autonoma e capace di muoversi da sé, senza l’onnipresenza di uno Stato paternalista che con le sue leggi può solo imbrigliare la libertà degli individui.
Questa è stata la chiave del successo di Berlusconi: la santificazione di una società civile che, sull’onda neoliberista degli anni Ottanta e dopo lo shock di Tangentopoli, era delusa dalla democrazia partitica e non accettava più una classe politica che prometteva ricette per l’osteria dell’avvenire.
Allora, se le persone non hanno fiducia nelle istituzioni, la responsabilità è del Paese legale, che si è allontanato da quello reale ponendosi su un piedistallo: c’è un problema di fiducia, concetto centrale nei discorsi del Cavaliere, che lo Stato per primo deve avere nei confronti della società prima di pretenderla in cambio.
Se i cittadini non pagano le tasse, il motivo è che sono troppe e troppo alte; se c’è un problema di illegalità diffusa, la ragione è che le leggi sono farraginose e incomprensibili: lo Stato deve diventare amico dei cittadini, e solo poi si potrà chiedere ai cittadini di fidarsi delle istituzioni.
La politica quindi deve ridimensionarsi, essere più concreta, occuparsi della cosa pubblica con la stessa efficienza con cui il manager gestisce la sua azienda: questo Berlusconi lo sa bene e lo capiscono anche gli elettori, che già hanno assistito alla scalata dell’imprenditore immobiliare e televisivo. Parola chiave – dice Orsina: ipopolitica.
Una democrazia bipolare?
Questa ipopolitica – che non scade mai nell’antipolitica perché, in fondo, anche Forza Italia presenta il suo programma come la soluzione perfetta – ha un merito, quello di riportare alle urne gruppi sociali che si sentivano distanti dalla politica e alimentavano l’astensionismo.
Questa operazione, in realtà, inizia prima, nel 1993, quando Berlusconi, a proposito delle elezioni amministrative della Capitale, dichiara: “se fossi un cittadino romano tra Fini e Rutelli (futuro fondatore della Margherita) il 5 dicembre voterei Fini”, il leader della destra postfascista.
La sua discesa in campo, quindi, inizia prima della sua candidatura, nel momento in cui reintegra a pieno titolo nella competizione politica quello schieramento che negli ultimi cinquant’anni, pur avendo accettato le regole della vita parlamentare, ha avuto una legittimazione molto debole.
Così facendo, Berlusconi pone le premesse di un sistema politico bipolare, fondato sulla democrazia dell’alternanza, destra-sinistra, capace di offrire una soluzione al problema cronico dell’instabilità governativa, che, evidente oggi, lo era già anche all’epoca.
Tuttavia, questo progetto non poteva funzionare perché dire che il popolo – nell’accezione liberale di insieme di individui che devono essere posti in condizione di prendere autonomamente le decisioni che li riguardano – non ha bisogno di élite partitiche che lo guidino spaccandolo in fazioni, dire ciò significa delegittimare la dialettica politica stessa.
La prova è nell’esasperato anticomunismo di Berlusconi, che vede – o dice di vedere – nella sinistra erede del Pci, a partire dal Pds di Occhetto, una deriva illiberale e antidemocratica: l’atteggiamento negli anni sempre più aggressivo e recriminatorio (basti ricordare il discorso del 2009, “Siete ancora oggi, come sempre, dei poveri comunisti”) nei confronti degli avversari ha infine distrutto e screditato la via della democrazia maggioritaria bipolare.
La nascita della leadership
Forza Italia è stata il primo partito italiano con una forte leadership grazie alle grandi doti comunicative di Berlusconi, che ha impresso una forte svolta personalistica alla politica, tale da impedire al berlusconismo di istituzionalizzarsi e da costringerlo ad avvilupparsi su se stesso.
Ovviamente il volto di Silvio Berlusconi ha costituito una grande risorsa elettorale: è stato il leader di partito che più di tutti, di coloro che lo hanno preceduto ma anche seguito, ha saputo alimentare un senso di identificazione nell’elettorato, anche grazie a una simpatia mai innocente, presentandosi al Paese come un uomo pieno di vizi, “uno di loro”, che però ce l’aveva fatta, conosceva i problemi dei cittadini e si sarebbe battuto per risolverli perché, in fondo, quei problemi erano anche suoi.
Tuttavia, la vocazione populista della leadership alla fine ha compromesso il rapporto con le istituzioni, diventando un ostacolo nella fase di governo, e ha minato la credibilità stessa del Cavaliere.
Come osserva Orsina, la sovrapposizione tra leader e partito spiega perché la persona di Berlusconi sia stata interamente politica e sia difficile, soprattutto ora che è il momento dei bilanci, fare distinzione tra l’uomo e il politico.
Tutte le vicende personali e giudiziarie – e sono molte – hanno coinvolto il nostro Paese non solo perché in quel momento l’interessato era Presidente del Consiglio, ma perché hanno travolto l’intero centro destra, essendo lui stesso il centro destra.
Forza Italia è nata con Silvio Berlusconi e probabilmente, come dichiarato da Miccichè, è morta con lui.
L’ambiguità del personalismo, infatti, ha impedito che il partito si dotasse di proprie strutture politiche e divenisse autonomo dal suo leader. Il problema della dipendenza viscerale di Forza Italia dal fondatore è congenito.
È emerso chiaramente più di un decennio fa, quando la volubilità di Berlusconi ha portato alla scissione di Casini, Fini e, in ultimo, La Russa e Meloni, ma si ripropone più grave oggi, ora che il destino del partito chiama in causa anche il destino del governo e di tutta la compagine parlamentare.
Il berlusconismo senza Berlusconi
Berlusconi è stato una figura divisiva e lo è stato volutamente, perché, come ricordato da Michele Santoro, memore di accesi scontri televisivi con il Cavaliere, era un uomo di spettacolo, a cui piaceva essere al centro dell’attenzione e polarizzare gli animi. Si può dire che in questo abbia avuto successo, e le reazioni alla sua morte lo dimostrano.
Il problema è che questa affezione – o disaffezione – nei suoi confronti ha radicalizzato lo scontro politico al punto da rendere impraticabile ogni dialettica.
In questo senso, il berlusconismo ha fallito perché, se il suo obiettivo era quello di avvicinare il Paese legale (le istituzioni) al Paese reale (i cittadini), in realtà ha cavalcato questo divario. Oggi questa distanza si è approfondita per opera sua e del suo fautore, che, mentre osannava la società civile e il mercato, non è stato capace di riformare le istituzioni nella direzione che riteneva opportuna e invece, sentendosene ingabbiato, le ha screditate.
La spregiudicatezza dei suoi comportamenti, nel privato come negli interventi pubblici o negli incontri internazionali, ha declassato la politica a cosa non seria e sdoganato piuttosto una società arraffona, patriarcale, incurante del bene pubblico.
Berlusconi esce dalla politica morendo sul campo, ma forse un interesse sincero per la cosa pubblica non lo ha mai maturato, neanche secondo una concezione liberale che sarebbe stata del tutto rispettabile e, anzi, necessaria al nostro panorama politico.
Oggi non abbiamo perso un buon politico, uno statista, un padre della patria. Affermare questo non significa gioire per la morte di un uomo, per altro ormai innocuo, i cui danni invece continueranno a gravare sul nostro Paese ancora per molto, e il rispetto nei suoi confronti non deve diventare culla dell’ipocrisia.
La critica di oggi è la stessa di ieri: il Cavaliere non è stato un buon politico e neanche un grande uomo, e non per le ombre del suo arricchimento, i conflitti di interesse, la guerra contro la magistratura, l’oggettificazione delle donne.
Silvio Berlusconi non è stato un buon politico perché si è avventato sulla disaffezione politica dilagante dopo Mani pulite, ci ha costruito la sua carta vincente, e ha impedito che potesse rinascere una solida cultura politica, non avendone mai avuta una.
La democrazia richiede rispetto per le istituzioni e disponibilità al dialogo, due pilastri che dal berlusconismo sono stati calpestati, erosi e pubblicamente denigrati: dal ventennio berlusconiano – chiuso ormai anni fa – a uscire sconfitta è stata la salute democratica del nostro Paese, ma non è la morte di chi l’ha vituperata che potrà restituirla.
Eleonora Pocognoli
(In copertina L’Espresso)