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Umani, troppo umani – Perché cerchiamo la perfezione?

Perfezione

Dai Greci fino ai giorni nostri, passando per il pensiero filosofico giapponese, la perfezione ci suggestiona e affascina al punto da alterare la percezione che abbiamo di noi stessi.


Forse, in fondo, aveva ragione Schopenhauer quando scriveva che tutto è irrazionale, senza alcuna logica. E so bene che non si inizia mai con un “forse”, non rumoreggiate; sono consapevole del mio errore, della mia imperfezione – quella macchia che la nostra società cerca in ogni modo di cancellare, e che dovrebbe invece essere preziosa come l’oro.

Vorrei sapere chi è stato quell’uomo tanto presuntuoso da ipotizzare l’esistenza stessa della perfezione; ma soprattutto chi, accumulando follia su follia, ha pensato che un simile concetto potesse applicarsi a noi, semplici (o forse complessi, chi può dirlo) esseri umani.

Dovremo forse chiamare in causa Platone e tutti i Greci che, prima e dopo di lui, hanno fantasticato di Stati perfetti? Oppure il vero colpevole è Dante, che costruisce l’Aldilà a suo capriccio e nel finale della Commedia arriva a contemplare Dio stesso?

Poco importa, però, chi ci abbia inculcato nella mente lo spettro della perfezione. Ben più urgente, a mio avviso, è chiedersi come l’utopia di qualche pensatore sia diventata il chiodo fisso di un’intera società.

Ho notato, e credo di non essere l’unico, una vera e propria ossessione del nostro tempo nei confronti della perfezione: non accettiamo alcuna sbavatura, alcun errore, né da parte degli altri né da parte di noi stessi.

Tutto ciò che devia dai canoni prestabiliti dev’essere nascosto, e se possibile estirpato. La perfezione di oggi non ammette vie di mezzo: tutto deve essere o nero o bianco, senza sfumature.

Una pienezza spersonalizzante

Il vocabolario Treccani recita: “Perfezióne s. f. [dal lat. perfectio -onis, der. di perficio «compiere», part. pass. perfectus]”». Come anzitutto suggerisce l’etimologia, “perfezione” significa quello “stato, qualità di ciò che è eccellente, esente da difetti, non suscettibile di miglioramenti”.

In ambito filosofico, poi, il termine diventa “…il valore assoluto proprio sia di una totalità non mancante di nessuna parte […] sia di una realtà che risulti pienamente conforme alle esigenze della propria natura […]”.

Analizziamo la prima delle definizioni proposte. Si definisce la perfezione come la «qualità di ciò che è esente da difetti».

Ma che cosa significa difetto? Propriamente, derivando dal sostantivo latino defectus, a sua volta rifatto sul composto de-ficio (che vuol dire “mancare, venir meno”), il difetto è qualcosa che manca, una mancanza.

Perfezione
Immagine da Unsplash.

Secondo questo punto di vista, dunque, la perfezione sembra essere uno stato di pienezza cui si contrappone il difetto, ovvero l’eterna assenza o la mancanza di qualcosa. E, tuttavia, il difetto può spesso essere un fattore di arricchimento del soggetto, un “di più” che lo definisce e lo connota. Senza difetti, noi uomini saremmo terribili macchine di perfezione, spaventosamente identiche le une alle altre.

Prendiamo, come esempio di un difetto dell’animo umano, la golosità: «Gino è goloso». Questa caratteristica comporta forse una mancanza in Gino? Gino è arricchito, a mio parere, da questo difetto. Gino può essere bravo a scuola, atletico, di bell’aspetto e, inoltre, goloso. Questa sua caratteristica è “un di più”, che lo caratterizza e lo differenzia da tutti gli altri.

Una perfezione senza orpelli

Esiste, però, anche una prospettiva diversa da cui osservare la perfezione. Alla pienezza di una “totalità non mancante”, infatti, può opporsi l’essenzialità di una perfezione intesa come mancanza del superfluo.

Ecco allora che, in linea con il pensiero giapponese, perfetto diventa sinonimo di  minimalismo. Il gusto minimalista è basato sulla trasformazione della perfezione in assenza di mancanza, che è – sul piano prettamente linguistico –il capovolgimento di quanto detto prima: da una parte abbiamo una perfezione, per così dire, in presenza, piena; dall’altra, invece, una perfezione in assenza, vuota e speculare alla precedente.

Questa definizione negativa di perfezione si sposa bene con il participio perfetto latino perfectus, ovvero «compiuto»: ciò che è perfetto lo è in quanto compiuto, essenziale e quindi autonomo.

Perfetto…troppo!

Proviamo ora ad applicare questa idea negativa di ciò che è perfetto alla seconda definizione della Treccani. Se la perfezione è un «valore assoluto proprio di una realtà che risulti pienamente conforme alle esigenze della propria natura*», e per natura umana intendiamo un’esistenza ridotta all’osso, fatta del mero soddisfacimento dei bisogni primari, ecco che la golosità di Gino è un difetto perché non è conforme alla sua natura.

Per essere perfetto, e quindi conforme alla sua natura di vivente, Gino dovrebbe semplicemente sopravvivere, cibandosi del minimo indispensabile e vagando per la foresta alla ricerca di larve. Niente di più. Sopravvivere rende Gino conforme alle esigenze della propria natura, ovvero il sopravvivere stesso. Più minimalista di così si muore!

Immagine da Unsplash.

Ironia a parte, a qualunque natura tenda, è  evidente che l’umanità cerchi in ogni modo di perfezionarsi, e questo – di per sé – non può essere un male. Fin dove possiamo spingerci, però? Il rischio non è forse quello di annullarci? Non mi pare che l’essere umano viva di noluntas, cioè di soppressione del desiderio, anzi; rincorre la ricchezza, accumula a dismisura.

Abbiamo forse instaurato un rapporto del genere anche con la perfezione? Siamo ossessionati dal suo raggiungimento?

La perfezione oggi

Guardiamoci attorno. Al giorno d’oggi i giovani provano un perpetuo senso di insoddisfazione a causa delle pressioni imposte da una società che chiede sempre il massimo – pur avendo sempre meno da offrire. Le persone rimangono imprigionate all’interno di etichette e generi che hanno come legge suprema una indebita coerenza.

E proprio la parola coerenza è fondamentale in questo discorso. Ricordate il significato di “perfezione” come ciò ”…che risulti pienamente conforme alle esigenze della propria natura”? Non è forse coerenza questo essere pienamente conforme? Capirete che allora, nella società, per ricercare la perfezione si cercherà di essere pienamente conformi ad una categoria.

Il sistema di categorie è prima di tutto fondato sulla base della condizione sociale e culturale, ma, a un livello più profondo, è radicato sulla base dell’estetica e della morale. La categoria è come una maschera che la società ci obbliga a indossare per non essere considerati strani e fuori dal normale.

In modo perlopiù spontaneo saremo obbligati dalle circostanze a far parte della categoria che più sentiamo vicina, in base alle nostre possibilità e ambizioni. Le vittime di questa costrizione sono in maggioranza i giovani, che ancora si devono guadagnare il loro futuro, il loro posto nella società.

Secondo i dati ISTAT, nell’anno 2020 più di quattrocento persone fra i 15 e i 34 anni si sono tolte la vita in Italia. Sono sempre più frequenti le notizie di giovani studenti suicidi, e la motivazione è quasi sempre la stessa: il fallimento. Ma, anche senza arrivare a simili conseguenze, possiamo ben dire il disagio è generalizzato: i giovani provano una costante e angosciosa paura dinanzi al futuro. Che cosa sarà della loro scelta universitaria? Che cosa sarà del loro lavoro?

Il fallimento è una mancanza di successo, ma soprattutto una mancanza di coerenza di un individuo rispetto a ciò che si ritiene la normalità. Il fallimento più doloroso ci sembra tale quando non siamo conformi alle caratteristiche della maggioranza di persone nella società, oppure quando la realtà non è conforme alle aspettative. E, purtroppo, standard sempre più esigenti rendono il fallimento una dolorosa abitudine.

La malattia siamo noi

L’umanità sta inseguendo un modello di società basato su un cinismo individualista. La scuola e il lavoro, istituzioni primarie della società, sono controllate dalla competizione piuttosto che dalla ricerca di sé stessi e dalla conoscenza. Come può esserci spazio, in un mondo del genere, per i sentimenti veri, costantemente emarginati perché irrazionali, in qualche modo superflui e irriducibili ad aride cifre e semplificazioni?

Ma allora, se l’uomo ricerca ossessivamente questa perfezione che fatica a trovare dentro di sé, dove può trovarla? In tutto ciò che è artificiale. In ciò che, sì, proviene dall’umano, ma è solo ed esclusivamente calcolo, anestetizzato e privo di eccessi, insomma conforme alle sue esigenze: essenziale, compiuto e – secondo questa logicaperfetto.

Il cerchio si è chiuso, direi. Una domanda, però, mi sorge spontanea. Se la tecnologia intesa in questi termini è perfetta, compiuta, essenziale, e quindi non necessita di altro che di sé stessa, cosa ci fa ancora sulla Terra l’imperfetto essere umano, che pure l’ha creata?

Perfezione
Una ricostruzione di Little Boy, la prima bomba atomica utilizzata in guerra. Immagine da Wikimedia.

Forse, riprendendo Svevo, l’umanità ha infine trovato il “potente ordigno” in grado di debellare la ”malattia”. E quel “potente ordigno” non è altro che la perfezione stessa.

Riccardo Gardi

(Immagine di copertina da Ancient Rome Russia)

* Oggi il termine natura porta con sé più ambiguità che punti fermi. Chi ha detto che la natura di Gino debba essere quella di un bruto e non – poniamo – di un avvocato o un astronauta? Il problema non è ozioso, perché stabilire chi siamo è indispensabile per capire qual è la perfezione a cui dobbiamo aspirare.


Ossessionati dalla Perfezione è un articolo di Parole Chiave, una rubrica a cura di Francesco Faccioli.


Per approfondire:

  • La celebrazione del brutto, ai tempi di Instagram, un articolo di Maddalena Petrini (9 maggio 2022);
  • Psiche, Elena e Narciso – Bellezza e dannazione nel mito classico, un articolo di Giulia De Filippis (28 novembre 2021).
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