La scorsa settimana due importanti figure dello spettacolo, Ambra Angiolini e Laura Chiatti, hanno rilasciato delle dichiarazioni che, in pochi secondi, sono state in grado di banalizzare e annullare istanze per cui il femminismo si batte da tempo. Le due affermazioni, pur nella loro diversità, hanno molto in comune: sostengono l’idea che esista un “femminile” codificato.
Riprendetevi le vocali…
In occasione del Concertone organizzato a Roma per la Festa dei Lavoratori, l’attrice Ambra Angiolini ha tenuto sul palco di piazza San Giovanni un discorso in cui ha rivendicato il diritto a un lavoro dignitoso.
Contro un mercato del lavoro e un complesso valoriale che costringono ad essere supereroi performanti, pena il precariato, è necessario pretendere che sia rispettato quel “diritto, dimenticato tra le righe della Costituzione, di poter essere ordinari, anche in una società che ci impone di essere straordinari ed efficienti sempre” (Ambra Angiolini).
Nella seconda parte del suo intervento, Angiolini ha incalzato sulla disparità lavorativa tra uomini e donne, denunciando il divario retributivo di genere che nel nostro Paese si attesta al 20%. In Italia, a parità di mansione e di titolo, una donna percepisce i quattro quinti dello stipendio del suo collega uomo. La conduttrice ha poi concluso il monologo lanciando una provocazione – “riprendetevi le vocali e metteteci in condizione di lavorare” (Ambra Angiolini) – polemizzando con la pretesa femminista di declinare i mestieri al femminile.
Uccidere l’eros
Il 30 aprile, ospite a Domenica In con il marito Marco Bocci, l’attrice Laura Chiatti, alla domanda di Mara Venier su come fossero ripartite le mansioni domestiche all’interno della coppia, ha risposto che per lei vedere un uomo che svolge le faccende domestiche è intollerabile e “uccide l’eros”. Questo mentre Bocci tentava di mostrare la propria buona volontà raccontando di voler effettivamente partecipare alla gestione della casa ma di ricevere dei veri e propri divieti.
Le due affermazioni sono molto diverse e diversa è l’intenzione di chi le ha pronunciate.
Angiolini ha voluto tenere – e rispettabilmente ha continuato a rivendicarlo, a fronte delle polemiche – un discorso femminista che mettesse in luce un problema strutturale del mercato del lavoro italiano; Chiatti invece ha esplicitamente dichiarato di “essere all’antica rispetto ai ruoli”, asserendo che le mansioni più pratiche spettano alla donna.
Tuttavia, le due prese di posizione, su temi anche differenti, hanno qualcosa in comune, ed è proprio questo qualcosa che le rende problematiche.
La politica del linguaggio: perché il femminile fa tanto arrabbiare?
Ambra Angiolini ha toccato una questione molto spinosa, capace di infiammare gli animi e alimentare discussioni asprissime, perché riguarda tutti e tutte: il linguaggio. Le polemiche accese sulla declinazione al femminile delle professioni negli anni sono state innumerevoli, e quando un tema fa discutere e divide, significa che è importante.
Le argomentazioni più frequenti lamentano la cacofonia di parole come “ingegnera”, “avvocata”, “medica”, “ministra”, e si appellano alle regole della grammatica, perché si è sempre fatto così. La verità è che la grammatica italiana prevede le desinenze femminili e richiede che queste siano utilizzate, indipendentemente dal suono che la parola produce, qualora si parli di donne.
Ora, Angiolini non ha contestato l’utilizzo della declinazione femminile dei sostantivi che esprimono professioni, pretendendo di dare al maschile – che non è neutro, ma maschile – un potenziale di inclusività.
Tuttavia, con il “tenetevi le vocali” ha sminuito il potere del linguaggio, relegandolo a una dimensione di formalità: ne consegue, nel ragionamento, che sarebbe preferibile ottenere la parità salariale e, in cambio, accettare che continui ad essere utilizzato il maschile; dunque, che il femminismo deve ridefinire le sue priorità.
È chiaro che, fra le due possibilità, si tenderebbe a preferire una giusta retribuzione all’essere chiamate con le parole che rappresentano la nostra identità.
Pensare, però, che le due istanze siano alternative, indipendenti e inconciliabili non tiene conto della complessità, né degli esseri umani, capaci – almeno teoricamente – di muoversi verso una pluralità di obiettivi, né della nostra società, laddove la disparità salariale è il portato di una specifica concezione della divisione dei ruoli che produce una divisione sessuale del lavoro di cui il linguaggio è motore e spia.
Lavori da uomo, lavori da donna
Il linguaggio, nella filosofia occidentale, è sempre stato considerato lo strumento mediante il quale descrivere la realtà: se il linguaggio rispecchia la società, esso rappresenta i rapporti di potere sui quali essa è strutturata.
Il motivo per cui alcune professioni sono, per consuetudine, declinate al maschile e “suonano male” se declinate al femminile è che, quando i termini sono comparsi nella lingua, tali mestieri erano svolti quasi esclusivamente da uomini.
Oggi le donne hanno la possibilità, almeno teorica, di intraprendere la carriera che preferiscono; quindi, per non perdere l’aderenza alla realtà, il linguaggio richiede di essere modificato e il femminile è una necessità di correttezza linguistica.
Tuttavia, la lingua non ha solo un potere descrittivo, ma ha una performatività, come insegna uno dei capolavori della filosofia del linguaggio del secolo scorso, How Do Things with Words di John Austin.
Foucault sosteneva che le relazioni di potere, per essere cogenti, hanno bisogno di essere prodotte e riprodotte: proprio il linguaggio è questo strumento di riproduzione nella misura in cui esprime un certo modello sociale e determinati rapporti di potere, che, attraverso le parole, sono continuamente riconfermati e si rafforzano.
Non utilizzare le forme femminili dei sostantivi che indicano le professioni significa riprodurre quel modello di potere secondo il quale esistono lavori da uomo e lavori da donna.
Strumento di potere
La disparità insita nel linguaggio è immediata se si considera che il femminile è spontaneamente utilizzato per professioni ritenute dalla pubblica opinione più umili, come la maestra, l’infermiera, la contadina, la cassiera, ma suscita critiche quando richiede di essere applicato a categorie di più alto livello, come l’ingegnere, l’avvocato, il magistrato, il direttore, il sindaco, il ministro.
La donna che, ricoprendo uno di questi ultimi ruoli, decide di utilizzare il maschile – l’attuale Presidente del Consiglio ne è un esempio – lo fa per ragioni politiche e perché avverte che, nella nostra comunità di parlanti, il maschile conferisce una maggiore autorevolezza, credibilità, competenza, valore: il femminile, in questa percezione, svilisce l’importanza dell’incarico e le capacità di chi lo ricopre.
Il linguaggio è parte del problema, è concausa del gender pay gap perché suffraga l’idea che alcuni mestieri debbano essere svolti da uomini e che le donne che non rispettano questa divisione sessuale del lavoro, occupando uno spazio indebito, devono essere meno retribuite.
Come ha sostenuto la filosofa Judith Butler in Parole che provocano (Raffaello Cortina Editore, 2010), parlare – e scegliere di utilizzare alcune parole piuttosto che altre – è un atto politico.
Un lavoro da donna… e se lo fa l’uomo?
Laura Chiatti, con la sua affermazione, ha avallato la secolare divisione dei ruoli che vede l’uomo impegnato nel lavoro fuori della casa e la donna che si premura di curare la dimensione domestica.
Dichiarare che “l’uomo che fa le pulizie abbassa l’eros” chiama in causa una specifica idea della caratterizzazione sessuale: se ne deduce che la cura della casa è un attributo identificante della femminilità che, per contro, svaluta la mascolinità.
Questa tesi è problematica su due fronti. In primo luogo, ritenere che la cura della casa – spesso legata alla famiglia, anche se non in questo contesto – sia compito della donna significa convalidare una situazione di disparità: sia che la donna sia situata nello spazio privato della casa e considerata estranea nella sfera pubblica del lavoro, sia che abbia un lavoro esterno e quello di cura sia considerato un suo naturale compito, si tratta di una penalizzazione.
Nel primo caso non si riconosce il diritto delle donne a trovare realizzazione e indipendenza nel lavoro, nel secondo le donne sono gravate della “doppia presenza”, nel pubblico e nel privato, concetto coniato dalla sociologa Laura Balbo negli anni Settanta.
Inoltre, sostenere che l’uomo che si occupa di pulire, cucinare e rifare il letto perde in termini di virilità, è meno uomo, meno maschio, in definitiva meno attraente, significa essenzializzare mascolinità e femminilità.
Le donne si caratterizzano per una naturale predisposizione alla cura, della casa e degli affetti, gli uomini devono essere intraprendenti, assertivi, attivi al di fuori dell’ambito privato. Diversamente, le donne non sono brave signorine, mogli o madri, e gli uomini sono effeminati.
Per questo motivo, quell’affermazione ha delle conseguenze ben più pericolose del semplice “essere all’antica”; e il fatto che Simone Pillon e Mario Adinolfi abbiano prontamente espresso la loro approvazione non lascia spazio ad altre riflessioni.
La disparità di genere passa per stereotipi
La svalutazione del potere del linguaggio da parte di Ambra Angiolini e la considerazione di Laura Chiatti sui lavori domestici come compito della donna all’interno della coppia convergono sul terreno degli stereotipi di genere su cui si costruisce il nostro modello di società.
Il genere femminile è sottorappresentato nel linguaggio perché lo è nella realtà dei mestieri considerati storicamente da uomo: d’altra parte perpetrare l’utilizzo del maschile significa rifiutarsi di riconoscere che anche le donne sono qualificate per svolgere qualsiasi professione. Questa svalutazione sistematica del lavoro femminile, in ultima analisi, ha come esito la disparità di retribuzione.
L’idea che esista un maschile forte che si afferma nel lavoro e un femminile naturalmente propenso alla cura per consentire al primo di espletare la sua finalità antropologica è “antica”, ma non abbastanza: in un contesto nel quale è necessario che entrambi i componenti della coppia abbiano un impiego, le donne spesso svolgono di fatto un doppio lavoro – o almeno ci si aspetta che lo facciano – di cui uno non retribuito in quanto considerato del tutto naturale.
La disparità di genere riposa beata su questioni concrete, e cosa c’è di più concreto del lavoro e delle parole?
Eleonora Pocognoli
(In copertina Documerica da Unsplash)
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