
I lettori più attenti avranno già sentito parlare di Sad Hot Girl Books, un’etichetta di marketing che include romanzi caratterizzati da protagoniste femminili in precarie condizioni emotive e relazionali. Sono ragazze in cerca di un posto nel mondo che non si riconoscono negli ideali sociali più diffusi e che sviluppano una sorta di apatia nei confronti della realtà.
Donne tristi ma cool
Classici esempi di questo tipo di romanzi sono Il mio anno di riposo e oblio (Feltrinelli, 2019) di Ottessa Moshfegh e i primi romanzi di Sally Rooney: Persone Normali (Einaudi, 2020) e Parlarne tra amici (Einaudi, 2019).
Da una parte c’è Marienne, cresciuta nella ricchezza ma tormentata dagli abusi subiti, travolta dalla relazione amorosa con il prestante e popolare Connell. Dall’altra abbiamo Frances, fredda, intelligente e profondamente infelice, e dotata di un fascino di cui si innamorerà perdutamente un uomo già sposato, Nick.


Entrambe rappresenterebbero quella che la giornalista Rebecca Liu descrive come la tipica ragazza “carina, bianca, cisgender, abbastanza torturata da essere interessante ma non troppo da essere ripugnante” (traduzione di Elisabetta Moro).
Di sicuro non ha senso imputare a Sally Rooney una qualche colpa. Tuttavia, non si può neanche ignorare il modo pericoloso in cui attualmente questa tendenza letteraria è strumentalizzata nel mondo dei social network. Tanto da alimentare l’estetica della sad girl.
Secondo Zoe Alderton, autrice di The Aesthetics of Self-Harm (Routledge, 2018), la ragazza triste, come fenomeno mediatico e pop, è “una giovane donna che non si vergogna della sua vita emotiva e che senza paura esprime il suo dolore affinché gli altri lo vedano”. A questo punto, sorge spontanea la domanda: perché siamo così affascinati da tutto ciò che ci sembra “tragicamente bello”?
L’era di Tumblr
Tocca partire da Tumblr, quando, tra il 2010 e il 2014, era comune imbattersi in foto di adolescenti sofferenti. Le magliette sbiadite e le calze a rete, sotto citazioni a tema dolore e suicidio, con GIF in bianco e nero e screenshot di Lisa Simpson sdraiata a testa in giù sul letto.
L’incessante produzione e diffusione di questi post era opera soprattutto di ragazze che condividevano la propria tristezza. Il loro stile si riconosceva per l’interesse verso l’indie pop, da Lana Del Rey a Marina and the Diamonds.
Da Dr. Martens, jeans attillati, Converse nere e sporche, gonne scozzesi e motivi floreali. Le ragazze di Tumblr affrontavano le loro diagnosi, le conversazioni con professionisti medici, i sintomi dei loro disturbi psichici. Il senso di smarrimento, la frustrazione e la sfiducia in parenti e amici, incapaci di comprenderle fino in fondo.
Spesso ansia e depressione non erano riconosciute nella loro gravità. Come veri problemi da curare e affrontare seriamente. Dominava invece l’idea di una sofferenza da riformulare con sarcasmo, come testimoniano frasi tipo “fare una cosa a tre con ansia e depressione”.
Accadeva così che le creator di questi post, compiacendosi dei feed-back positivi, finissero per cedere e cullarsi proprio in quella sofferenza che aveva donato loro visibilità. Si può dire che, con Tumblr, si sia arrivati a una degenerazione di “non negare le tue emozioni, anche quelle più negative”.
Perché è stato omesso un passo fondamentale: il momento in cui tocca affrontare queste emozioni negative.
I post di Tumblr, invece, trasmettevano la concezione di una sofferenza ostentata e “tragicamente bella” in cui è possibile crogiolarsi. Anche a costo di alienarsi dalla realtà esterna. In questo modo, è stata persa di vista la vera causa sociale

E alla normalizzazione si è sostituita una vera e propria romanticizzazione dei disturbi mentali.
L’arte della depressione
Così, non solo si è “normali” quando si soffre di una malattia mentale, ma si è persino affascinanti, creativi e più profondi. In alcuni casi, sembra proprio passare l’idea che la depressione possa avvolgerci di un alone di mistero che ci fa apparire più oscuri e, allo stesso tempo, più attraenti, facendoci rientrare nella classica definizione di “belli e dannati”.
Se anche con il mascara sbavato e le lacrime sul viso rimani dannatamente seducente e continui ad aderire in modo ineccepibile agli standard di bellezza, allora sì che il tuo fascino è davvero autentico.
Per molti, inoltre, la depressione stimola la produzione di arte, quella vera. Che paragone è possibile stabilire tra un’arte puramente commerciale e un’arte “seria” e “meravigliosamente tragica” che può essere solo il frutto di una mente tormentata?
Pensiamoci, quanto può rivelarsi controproducente dare per scontata una correlazione immediata tra bellezza, arte e afflizione? Del resto, non è ccerto una novità del nostro periodo. Basti fare un salto nel tempo e risalire all’antica Grecia, quando follia e arte erano considerate legate e avevano origine nel “divino”. Una creazione artistica poteva essere solo frutto della follia che le Muse infondevano nell’uomo.
A tal proposito, nel dialogo Fedro di Platone, Socrate afferma:
La follia viene da dio, mentre il buonsenso è meramente umano. Se un uomo arriva alla porta della poesia senza essere stato toccato dalla follia delle muse, credendo che solo la tecnica lo renderà un buon poeta, lui e le sue composizioni sane non raggiungono mai la perfezione, ma sono completamente eclissate dalle esibizioni del pazzo.
Platone, Fedro.
Anche i poeti romantici del XVIII e del XIX secolo ritenevano che il vero artista dovesse avere una “follia affascinate e produttiva” e che quindi la realizzazione di un’opera straordinaria potesse derivare solo dalle passioni più tormentose del suo creatore.

La poesia “sentimentale” del romanticismo era dominata dal soggettivismo e dal simbolismo irrazionale. L’artista poteva dare vita a creazioni uniche ed eccezionali proprio perché era in grado di trascendere il razionale e di ricorrere alla forza eversiva del sentimento. La follia era considerata l’essenza stessa del genio artistico.
La morte di una bella donna
Anche l’archetipo della donna idealizzata con una drammatica sorte non ha fatto di certo le sue prime comparse nel XXI secolo, ma, anzi, ha contrassegnato per secoli una letteratura occidentale dominata dal punto di vista maschile. Dovremmo meravigliarcene?
Assolutamente no se se considera il fatto che allora come oggi le emozioni sono genderizzate. La tristezza, in quanto abbatte e toglie ogni capacità di reazione, è considerata un’emozione tipicamente femminile, così come la rabbia è ritenuta un tratto prettamente maschile.
Per esempio, l’arte e la letteratura di età vittoriana erano contrassegnate in modo particolare dal leitmotiv della donna morta.
Edgar Allan Poe è celebre per i suoi personaggi femminili tanto affascinanti quanto dannati, che danno il nome a tre racconti gotici: Ligeia (1838), Berenice e Morella (pubblicati nel 1835).
Nel suo saggio The Philosophy of Composition (1846), l’autore scrive: “La morte di una bella donna è l’argomento più poetico del mondo”.
Come dimenticare poi un indiscusso esempio letterario di epoca vittoriana come Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Nel romanzo Lord Henry si esprime in questo modo sul suicidio dell’attrice Sybil, morta per amore di Dorian:
Stiamo a guardare noi stessi e la meraviglia dello spettacolo basta ad entusiasmarci. In questo caso, che cosa è veramente successo? Una persona si è uccisa per amor tuo. Vorrei aver provato una simile esperienza; mi avrebbe reso innamorato dell’amore per tutto il resto dei miei giorni.
Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray.
La scena romanticizza la morte “tragicamente bella” di Sybil ed esprime senza riserva il desiderio che altre donne commettano lo stesso atto per lui.

Perché soffriamo?
La convinzione che esista un forte nesso tra terrore, dolore e fascino non è nuova, ma oggi è cresciuta a dismisura, tanto che gli psicoanalisti Miguel Benasayag e Gérard Schmit hanno definito il nostro tempo “epoca delle passioni tristi”.
Nel saggio L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli, 2005), Schmit e Benasayag si sono interrogati sulle cause del malessere psicologico riscontrato da sempre più persone, soprattutto giovani. La conclusione è che il problema sia interindividuale, risieda cioè nel nostro inconscio collettivo, in un’ideologia dominante che si fonda su due termini chiave: minaccia ed emergenza.
Mai come durante l’adolescenza, in cui tutto è bianco o nero, e in un periodo storico come questo, in cui c’è tanto bisogno di conformarsi così come di distinguersi, il dolore pare un abito da indossare a proprio piacimento per differenziarsi dagli altri.
In quanto giovani vogliamo mettere i panni degli antieroi, soprattutto quando non ci riconosciamo nei valori sociali condivisi e quando il conflitto con gli altri, dai compagni di classe ai genitori, ci fa sentire perennemente inadeguati e poco apprezzati.
Desideriamo un nostro posto nel mondo, ma a volte la nostra identità è ancora troppo fumosa per capire cosa effettivamente faccia per noi; ed è proprio questa incertezza che spesso ci porta a trascurare esigenze magari già comparse, ma non ancora riconosciute come tali.
Così ci conformiamo, ci annulliamo dietro al parere altrui, elemosiniamo affetto e conferme su conferme, anche quelle che possiamo individuare solo in noi stessi.
Oppure ci chiudiamo a riccio, ci isoliamo, ci crogioliamo in una sofferenza che conferisca alla nostra realtà un significato. Lo stato d’animo negativo ci ricorda, anche di fronte a un profondo senso di vuoto, tra uno stato di sconforto e l’altro, che è ancora possibile riconoscere una ragione alla nostra esistenza finché percepiamo qualcosa (anche se doloroso).
Di sicuro questa visione del mondo tanto romanticizzata del “noi, autentici nel nostro dolore, contro loro, schiavi di una società malata” può prendere derive davvero pericolose.

Il dolore come trend
La nostra società oscilla tra un trend e l’altro. Un conto è normalizzare le emozioni negative, accettarle e affrontarle, un altro è trasformale in accessori di una nuova estetica da social network.
Perciò, molti hanno comparato questo tipo di romanticizzazione a quella che nell’Ottocento aveva dato un’aura di fascino ad una malattia terribile come la tubercolosi.
La tubercolosi era allora una patologia poco conosciuta, e questo mistero aiutò a creare l’immagine dell’artista autentico e forte nel suo dolore, nonostante la malattia.
Un’estetica di questo tipo ci fa perdere di vista la realtà delle cose. La malattia mentale è perdita di un lavoro, corpi non lavati, paura, assunzione di farmaci dai molteplici effetti collaterali, isolamento. Spesso anche impossibilità di essere compresi da familiari e amici. Invece, il mondo edulcorato di film, libri e musica intrattiene, spesso fa sognare o credere in un lieto fine.
La malattia mentale è già circondata di troppo mistero, di interrogativi che scaturiscono dalla nostra ancora attuale incapacità di conoscere tutto quello che c’è da sapere sul cervello umano.
Quanto può essere controproducente colmare questi vuoti di risposte con convinzioni arbitrarie prese da film, romanzi e musica. Che spesso, abbelliscono eccessivamente la realtà?
Si è detto che la colpa di tutto questo non è di Sally Rooney. La responsabile è piuttosto di una società nutrita dai trend più vari, dove in molti casi non c’è più spazio per un’arte libera e autentica, ma solo per un’arte simulata e replicata secondo i falsi bisogni e i gusti estetici dei più, che si limita a esprimere ciò che la gente vuole sentirsi dire.
O, meglio, è strumentalizzata affinché sembri esprimere ciò che la gente vuole sentirsi dire. Così alla realtà si sostituisce l’iperrealtà, una forma ultra-simbolica del mondo.
Così, il solo fatto che i più romanticizzino la malattia sarà sufficiente a farci credere in questa visione delle cose. Non importa più cosa sia reale e morale, ma cosa sia più affascinante.

Giulia De Filippis
(In copertina Sad Hot Girl, di Gijs Coolen da Unsplash)