Il progetto di aprire una Casa de Cultura in un contesto sociale come quello di Anenecuilco (Morelos – Messico) per ricostruire un senso di comunità andato perduto è molto ambizioso. Nonostante i momenti di difficoltà, però, Brianda Franco Salazar con tenacia e intraprendenza non si è mai data per vinta. Anzi, è proprio in quei momenti che ha scoperto di poter contare sull’appoggio delle persone che aveva accanto che le hanno dato la forza per non arrendersi.
Greta Murgia: Quando il vostro progetto è diventato finalmente realtà?
Brianda Franco Salazar: La costruzione della Casa de Cultura è iniziata nel 2012 ed è terminata nel 2015. Voglio essere sincera: avrei voluto partecipare solo come volontaria, organizzando le attività come avevamo sempre fatto, tutti insieme.
Il momento dell’inaugurazione, sulle prime, è stato una doccia fredda. Ero venuta a sapere indirettamente che si sarebbe tenuta di lì a pochi giorni, e mi sono rattristata perché nessuno mi aveva chiamato.
Sai, queste cose succedono spesso: capita che un progetto venga avviato partendo da un’idea della comunità, che finisce però per esserne esclusa una volta che il progetto si realizza.
In quel periodo ero negli Stati Uniti dove vive mia sorella, che aveva appena avuto un figlio. Lei ha inseguito il sogno americano. Da questo punto di vista siamo molto diverse: io ho sempre voluto costruire un percorso nel mio Paese, cercando di andare avanti nonostante le difficoltà economiche.
Appena scesa dall’aereo di ritorno per il Messico ho ricevuto una chiamata – credo da un’autorità locale – che mi informava dell’inaugurazione: volevano che io ci fossi perché ero stata una parte importante del progetto.
E così siamo arrivati all’apertura. Quel giorno, lo dico con il cuore, è stato indimenticabile: per l’occasione si era presenta moltissima gente, e l’edificio era ciò che avevamo sempre sognato. Ti devo mandare delle foto!
G.M.: Magari, grazie!
B.F.S.: Fin dall’inizio è stato chiaro che avremmo dovuto assumere del personale per collaborare con me: si trattava di una superficie di quasi 600 metri quadrati, dislocata su due piani. Tutti erano molto emozionati perché la Casa de Cultura avrebbe creato moltissime opportunità lavorative per l’intera comunità di Anenecuilco.
All’inaugurazione erano presenti il deputato federale, Victor de Geral, il presidente municipale, Pimentel, e alcune autorità locali tra cui il commissario ejidal, Gregorio Cortez, e l’aiutante municipale Jose Luis Ruiz. Tutti concordavano sul fatto che la casa sarebbe rimasta dell’eijdo, e che io avrei assunto l’incarico di direttrice.
Ho molta stima per il presidente municipale dell’epoca, Juan Manuel Tablas Pimentel, che devo ringraziare per averci sempre ascoltato ed essersi impegnato affinché la Casa de Cultura rimanesse di competenza dell’eijdo.
Io avevo già 31 anni, non avevo un lavoro stabile, perché l’impresa (il Servizio Comunicazione di Impresa, ndr) mi contattava in base ai progetti da realizzare, e dovevo mantenere due figlie.
Quando il presidente mi ha dato le chiavi sono rimasta senza parole: condurre piccole attività culturali non è come amministrare un edificio. Nondimeno, fin dal primo istante mi sono sentita la custode, orgogliosa, di questo spazio.
G.M.: Cosa significa per te essere responsabile di un progetto così ambizioso?
B.F.S.: Ormai sono direttrice a titolo gratuito da sette anni. Dico sempre che ho due impieghi: quello che mi permette di mantenere la mia famiglia, e quello spirituale che mi fa sentire viva.
Si può pensare che questo sia un progetto fantastico capace di attirare persone da ogni parte, ma purtroppo non è così facile: il mondo è preoccupato da esigenze concrete come pagare le bollette, comprare il cibo, occuparsi dei figli – sopravvivere, insomma.
Ho avuto molte esperienze legate al tema della sicurezza. Il mio Paese si sta trasformando in un luogo totalmente diverso: prima non avvenivano sparatorie o guerriglie, che ora invece sono piuttosto frequenti. Credo che la causa sia una frattura nella comunità: qualcosa si è spezzato, e non ci si conosce più a vicenda.
Quando ero piccola io potevo uscire, andare anche a tre isolati di distanza da casa e subito venivo riconosciuta, magari dagli anziani seduti davanti alle porte delle case. Mia madre, anche senza cellulare, sapeva immediatamente che mi ero allontanata troppo.
Ora le persone credono che per essere sicuri sia necessario rimanere chiusi in casa, come uccellini in gabbia. Io penso invece che la sicurezza debba essere nelle strade, nella comunità, nei paesi. Noi dobbiamo riappropriarci degli spazi pubblici.
Tutto quello che faccio non sarebbe o stesso senza l’appoggio di mio marito. Questo è il mio terzo matrimonio: in passato ho deciso di separarmi ben due volte, perché i miei primi mariti erano uomini tradizionalisti, convinti che dovessi rimanere a casa ad occuparmi delle mie figlie e che stessi perdendo tempo nella Casa de Cultura.
Ora, finalmente, mi sento supportata. Non avevo mai avuto prima l’opportunità di condividere questa stessa passione: la storia, la cultura, gli eventi. Lui è più giovane di me e abbiamo un bambino di due anni. Scherziamo sempre sul fatto che ci siamo trovati più tardi perché lui è nato sette anni dopo di me.
Lui è con me sempre, qualunque cosa accada: ci siamo conosciuti proprio perché ha cominciato a interessarsi alla Casa de Cultura come volontario, e poi ci siamo innamorati.
G.M.: Ci sono stati momenti di particolare difficoltà alla Casa de Cultura?
B.F.S.: Ti racconterò un aneddoto orribile. Nel 2017 in Messico c’è stato un fortissimo terremoto. Io lavoravo già da due anni nella Casa de Cultura e mi occupavo di trovare fondi e sponsor per pagare le bollette, anche se a volte capitava che dovessi pagarle di tasca mia.
Quell’anno mi sono sentita completamente sola: avevo le mie due bambine ed ero rimasta senza impiego nell’impresa in cui lavoravo, dunque per sbarcare il lunario svolgevo pratiche elettroniche di vario tipo. In quel momento la nostra situazione economica era molto precaria, mantenere la Casa de Cultura era difficile ed io ero disperata.
È stato un periodo talmente brutto che a volte penso di essere stata io la causa del terremoto. Io mi rivolgo sempre direttamente a Dio: in quei giorni gli ho detto che ero arrabbiata, che mi sentivo sola perché nessuno veniva ad aiutarmi.
Gli ho detto che non era giusto, che mi sentivo male; ed ecco che, durante la settimana, la terra ha tremato.
In quel momento ero con la mia figlia più piccola, Esperanza: la stavo cambiando per accompagnarla all’asilo. Mi ricordo che l’ho abbracciata per rassicurarla, dicendole di chiudere gli occhi. Poi, con molta difficoltà, mentre il pavimento ondeggiava come fosse acqua, sono arrivata dall’altra parte della stanza, sotto l’uscio della porta. L’arco dell’atrio si era curvato fino a terra.
Devo ammettere che io mi sentivo quasi serena all’idea di morire: ero tranquilla con la mia coscienza, sapevo di aver servito bene Dio. Più in generale, penso di essere una brava persona e sono soddisfatta di quello che sono riuscita a fare nella mia vita.
Quando tutto è finito, sono corsa subito alla Casa de Cultura, portando mia figlia con me. Avevamo ancora pochi mobili: un paio di tavoli, qualche sedia, una scrivania, un quadro che mi aveva regalato un mio amico (si chiama Fernando Silva, è presidente dell’associazione “Arte Plastica Contemporanea” dello stato di Morelos, e anche di una casa editrice). L’edificio era completamente distrutto, e quindi ho deciso di rimanere lì: io e mia figlia abbiamo dormito su due materassi che avevo preso, mentre mia figlia maggiore è rimasta con la nonna.
Mentre ero lì, il Colegio de Contadores Públicos de México (un’organizzazione senza scopo di lucro affiliata all’Istituto Messicano dei Commercialisti ndr) mi ha chiamato proponendosi di inviare dieci materassi. Mi hanno detto però che li avrebbero consegnati solo a me, l’unica persona affidabile, perché li potessi distribuire a chi avesse subìto gli effetti del sisma.
Io ho risposto che era difficile perché non avevo una macchina, ma non sono riuscita a far cambiare loro idea. E lo stesso è successo con altre associazioni: tutte hanno posto come condizione che gestissi io il materiale, altrimenti non avrebbero inviato nulla.
(A questo punto, Brianda Sanches si commuove)
In quel momento ho capito che Dio mi stava rispondendo, perché gli avevo detto che mi sentivo sola. Un sacco di gente arrivava alla Casa de Cultura e in poco tempo si sono riempiti tutti gli spazi: uno di sole medicine, uno di soli vestiti, uno di viveri, poi anche scarpe, utensili, tende.
Ho iniziato a fare un elenco delle persone che avevano bisogno di aiuto, facendo foto delle condizioni delle loro case e inviando tutta la documentazione ai donatori perché temevo potessero pensare che mi stessi tenendo qualcosa: d’altra parte, io non avevo un lavoro e nemmeno i soldi per comprare vestiti per le mie figlie.
G.M.: Deve essere stato un periodo molto duro…
B.F.S.: L’emergenza post-sismica è durata circa 6 mesi. Non sono stati mesi facili anche perché io, nel frattempo, ero alle prese con un problema di affluenza alle attività culturali: riuscivo a ottenere materiale per un progetto da 200 bambini, ma ne arrivavano a malapena 30.
La mancanza di ragazzi mi faceva soffrire molto perché ho sempre creduto nell’importanza educativa del gioco: è solo così che i bambini possono maturare ed essere liberi di sviluppare la propria individualità.
[Fine seconda parte]
Greta Murgia
(Intervista a Brianda Franco Salazar realizzata in spagnolo da Greta Murgia, trascrizione e traduzione di Beatrice Russo ed Emilia Todaro, editing di Eleonora Pocognoli; un ringraziamento particolare a Maria Grazia Di Somma; in copertina e nel testo immagini di Brianda Franco Salazar)
Per approfondire, leggi anche la prima parte dell’intervista a Brianda Franco Salazar; gli articoli della serie Il Mio Messico, a cura di Greta Murgia; e la recensione del romanzo Il sale della terra di Jeanine Cummins, a cura di Diego Bottoni. Sulla Casa de Cultura di Brianda Franco Salazar si consiglia questo video: