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Cos’è la Casa de Cultura? – Brianda Franco Salazar si racconta (1)

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Pronipote di Emiliano Zapata, eroe della rivoluzione messicana all’inizio del XX secolo, Brianda Franco Salazar ha dedicato la vita alla realizzazione del suo sogno. A 20 anni ha fondato la Casa de cultura coronel Francisco Franco Salazar, un’organizzazione con sede a Anenecuilco. L’obiettivo è avvicinare alla cultura le persone che non si sentono parte della propria comunità, in un Paese, il Messico, dove la mancanza di istruzione, la povertà e la corruzione troppo spesso prevalgono.


Greta Murgia: Come nacque il progetto della Casa de Cultura?

Brianda Franco Salazar: L’idea della Casa della Cultura è nata 18 anni fa, e ci ha messo del tempo a diventare realtà; oggi è un punto di incontro per tutte le persone appassionate di storia e interessate alle gesta di personaggi celebri.

All’epoca avevo 20 anni e studiavo all’università. Il paese in cui vivo si chiama Anenecuilco ed è situato nello Stato di Morelos (Messico, ndr): è un luogo molto speciale dal punto di vista storico, ha dato i natali al generale Emiliano Zapata Salazar.

Emiliano e tutto il suo esercito si sono distinti per essere gente del popolo, contadini, uomini onesti, degni di onore che hanno sempre dedicato la loro vita per apportare un cambiamento. Morì nel 1919, e, nonostante siano passati più di 100 anni, oggi si parla ancora di lui. 

Da piccola ascoltavo ciò che dicevano i nonni, gli zii, i cugini e le persone anziane e volevo a tutti i costi conoscere Anenecuilco. Mi chiedevo spesso perché mai le persone decidessero di recarsi a visitare un paese “brutto” dove non c’era nulla, col tempo iniziai a domandarmi cosa ci fosse di tanto importante.

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Arco all’entrata del Municipio di Ayala venendo dal Municipio di Cuatla: foto di Anenecuilco, da Flickr

G.M.: Di solito gli adolescenti tendono a non ascoltare i propri nonni…

B.F.S.: C’è un aneddoto che voglio raccontarti anche se mi vergogno un po’. Quando avevo 16 anni volevo studiare relazioni internazionali, una volta terminate le scuole superiori.

Provengo da una famiglia di donne, è praticamente un matriarcato. Mia nonna ha avuto solo figlie femmine, e lo stesso mia mamma; quelle dell’ultima generazione sfortunatamente sono diventate madri single e perciò hanno sempre dovuto provvedere alla famiglia.

Ai miei occhi, mia mamma è sempre sembrata una figura molto forte, una gran lavoratrice. Mi diceva sempre “devi studiare”: era un’idea che mi aveva messo in testa. 

La mia è una famiglia contadina: quando mia nonna morì, nel 2007, mia mamma (grazie a Dio è ancora qui con me) ha continuato a lavorare i campi, alternando il lavoro, alla semina, così per tutto l’anno. 

La nonna aveva insegnato anche a noi questo stile di vita, e io sono cresciuta seguendola quando si recava in campagna a lavorare. Conservo dei ricordi bellissimi della mia infanzia. 

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Campo seminato, foto di Anenecuilco, da Flickr

Mia madre ha amato me e le mie sorelle sopra ogni altra cosa; ora che anche io sono mamma mi rendo conto che, se non hai denaro sufficiente, ti senti male soprattutto quando i tuoi figli si ammalano; mi chiedo come facesse lei che era sola e poteva contare solo l’appoggio della nonna. 

Mi ha anche confessato che in alcune occasioni non aveva neppure i soldi per comprarci le medicine. Quando si ammalava una di noi, automaticamente si ammalava anche l’altra, e il problema raddoppiava. Per non avvertire il senso di fame, spesso, beveva moltissima acqua.

Non ho mai vissuto nel lusso, e nonostante ciò non mi è mai mancato nulla. Mia mamma ha sempre cercato di utilizzare il poco denaro a disposizione affinché noi avessimo una vita migliore della sua.

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Municipio di Anenecuilco, foto di Anenecuilco, da Flickr

Quando avevo 16 anni volevo studiare relazioni internazionali, e l’insegnante mi assegnò come compito quello di realizzare un’intervista coerente con il lavoro che desideravo fare. 

Dissi che sarei voluta diventare ambasciatrice in un Paese straniero, perché quando qualcuno non è mai uscito dal proprio Paese (il Messico, ndr) crede che tutti gli altri siano migliori del proprio. Mia mamma riuscì a ottenere un’intervista presso l’ambasciata dell’Angola.

G.M.: E come è stata questa intervista?

B.F.S.: Io, come potrai immaginare, immaginavo già di recarmi presso l’ambasciata degli Stati Uniti. Quando arrivammo nei pressi della sede dell’ambasciata dell’Angola, pensai “Questa è una casa, non è un’ambasciata”. 

Mi avevano accompagnato due compagne di scuola. L’ambasciatore ci chiese da dove venivamo: le altre due ragazze erano di Cuautla (Morelos), conosciuta principalmente per la battaglia combattuta durante la guerra per l’indipendenza e, non appena riferirono da dove provenivano, l’ambasciatore immediatamente esclamò: “Ah chiaro! Cuautla Morelos! Città eroica e storica”.

Io dentro di me pensavo: “E io cosa gli dico? Che sono di un paesino piccolino?”. Quando toccò a me io risposi: “Sono Brianda e vivo vicino a Cuautla”.

E lui ribatté: “No, no, no, dimmi esattamente di dove sei, perché se vuoi essere un’ambasciatrice di un Paese devi sapere tutta la storia del luogo in cui vai. Non devi conoscere solo le sue tradizioni, la sua lingua, ma devi conoscere tutto”.

Quando io dissi che venivo da Anenecuilco mi guardò con un’espressione di disapprovazione e mi chiese: “Si trova nello Stato di Morelos?”. Io gli risposi di sì e lui mi disse: “Come ti viene in mente di pensare che io non conosca l’importanza che ha Anenecuilco?”. Ed io: “Perché, che importanza ha?”.

“Dove vivo io abbiamo un busto di Emiliano, festeggiamo il suo compleanno ogni 8 agosto e abbiamo letto il piano di Ayala (documento politico scritto da Zapata in risposta al tradimento di Madero, uno dei leader della lotta contro il dittatore Diaz, ndr)”. 

Io mi feci piccola piccola e provai tantissima vergogna. Mia madre iniziò a raccontare che la nostra famiglia discende, per linea materna, da Emiliano Zapata Salazar, e solo allora mi resi conto della mia ignoranza, non conoscevo le origini della mia famiglia e il luogo dove vivevo. 

Murales di Emiliano Zapata Salazar presso la Casa Museo Emiliano Zapata, foto di Anenecuilco, da Flickr

Da quel giorno decisi di cambiare, andai dalla nonna e le chiesi del materiale per conoscere la nostra storia. Iniziai così a leggere tutta la bibliografia (di Emiliano Zapata ndr), quella stessa che mia nonna aveva sempre voluto che leggessi.

G.M.: E poi cosa è successo?

B.F.S.: Quattro anni dopo questo episodio, iniziai a frequentare l’università dello stato di Morelos a Cuernavaca. È è una grande città, con tanti teatri, cinema, mostre d’arte, presentazioni di libri ed opere teatrali.

Nel mio paese, invece, le occasioni di divertimento sono poche: la Jaripeo (la corsa dei tori, ndr); i chinelos (dei ballerini in costume tradizionale popolare, utilizzati soprattutto nel periodo del carnevale, che prendono in giro i manierismi europei dal periodo coloniale fino alla fine del XIX secolo, ndr), festa di famiglia che si svolge una volta all’anno; e il calcio. In tutte queste occasioni, però, le persone tendono a bere molto, diventando certe volte anche insistenti e aggressive. 

A 20 anni decisi di iniziare ad organizzare delle piccole attività culturali con un gruppo di amici; e io e mia sorella gemella iniziammo a frequentare laboratori di pittura e di scultura, ovviamente molto amatoriali. 

Cominciammo anche ad organizzare ogni anno quella che chiamavamo la “Settimana della cultura zapatista”, sempre ad agosto, quando si celebra la ricorrenza del compleanno di Emiliano. Ci venne così l’idea di trovare degli spazi in cui poter svolgere queste attività, piuttosto che in strada o in piazza, come avevamo fatto fino ad allora, dove tutto era complicato e a volte anche pericoloso.

Quando nacque mia figlia, Belèn, iniziai a pensare: “Abbiamo bisogno di spazi dove i bambini possano recarsi per realizzare delle attività in maniera sicura, dove possano arricchire il loro intelletto in ambito artistico”.

G.M.: Che ruolo ha l’arte nella tua vita?

Brianda Franco Salazar: L’arte mi ha sempre appassionata. In un certo senso ho sempre avuto una vena artistica, ma non ho mai sviluppato nessun talento. Mi emoziona molto ammirare i dipinti.

Credo che sia un modo per ricordarci che abbiamo dei sentimenti.

Un’opera d’arte, infatti, può farti suscitare diverse emozioni, può farti arrabbiare, rattristare o suscitare dei ricordi.

casa della cultura
Dipinti esposti nella Casa de Cultura fondata da Brianda Franco Salazar.

In una delle prime mostre d’arte che allestimmo con un ragazzo del paese, Jorges De Vazquez, i quadri esposti raffiguravano momenti di quotidianità nella comunità rurale dove vivevano i suoi nonni.

Mi ricordo che all’inizio non venne nessuno. Io andavo in giro, di casa in casa, per invitare la gente, finché una signora non mi disse: “Figliola, io non ho studiato, ho finito la scuola primaria a fatica. Che vadano a vederla gli altri, quelli che sono colti e che hanno studiato all’università.” 

La convinsi comunque a venire alla mostra, mentre osservava i dipinti si fermò davanti a uno di questi e le uscì una lacrima. Preoccupata, le chiesi: “Perché piange?”. “Per un ricordo bello, mia nonna che si sedeva al mio fianco mentre dava da mangiare alle galline, e la bambina raffigurata nel quadro sembro io, ho come l’impressione di rivedere me stessa in questo dipinto”. 

Le dissi che questa è la magia dell’arte. Non c’entra nulla quanto tu abbia studiato, o quanti libri tu abbia letto. Si tratta di quello che ti fa sentire e di quello che ti fa ricordare. La signora promise di tornare ogni giorno a vedere la mostra, e così fece. 

G.M.: E questo era solo l’inizio.

B.F.S.: Sì, la casa della cultura è nata nel 2004. Iniziammo a cercare un edificio: mia mamma era un’ejidataria (una persona che fa parte di un ejido, forma tipicamente messicana di gestione comunitaria delle terre, che non appartengono al singolo capofamiglia detto ejidatario, ma al villaggio di cui fa parte e di cui sono in uso comune, ndr) e io, con i miei compagni, ebbi l’idea di chiedere agli altri ejidatarios di donare un terreno di uso comune per costruire una casa comunitaria

Nel 2008 abbiamo ottenuto il permesso di utilizzare un terreno dietro il mercato del paese; cosa che ci consentiva anche di avere un bagno a disposizione. Al tempo c’era solo un piccolo locale, da molto tempo inutilizzato, chiamato “Casa UAEM Francisco Franco Salazar”.

La UAEM è l’Università autonoma dello stato di Morelos, l’idea originaria probabilmente era quella di realizzare un piccolo ufficio per gli studenti che frequentavano UAEM dove avrebbero potuto svolgere un servizio sociale; un progetto che non fu mai realizzato per mancanza di continuità politica

G.M.: Avete fatto tutto da soli?

Brianda Franco Salazar: Chiesi aiuto a mia zia, che di lavoro fa l’architetto e, anche se scettica, decise di supportare la mia idea. Grazie a lei conobbi un suo amico, Ezequiel Montesino, il quale ebbe fiducia nel nostro progetto e realizzò il piano architettonico. Sarebbero stati necessari 4 milioni e mezzo di pesos per costruire la Casa de Cultura.

Casa Museo Emiliano Zapata, foto di Anenecuilco, da Flickr

Dal 2004 al 2008 e poi dal 2008 al 2012 abbiamo raccolto i preventivi; io andavo a presentare il nostro progetto a tutte le autorità politiche, anche se questo significava chiedere continui permessi al lavoro, nonostante fossi una mamma single e il mio stipendio fosse molto basso.

Per andare a Città del Messico – considerata una città molto pericolosa soprattutto da chi viveva in una realtà provinciale come la mia – imparai a prendere la metro, partivo molto presto alla mattina, mi perdevo spesso, e ridevo di me stessa. Non avevo neppure i soldi per mangiare, ma grazie a Dio le persone che incontravo mi davano sempre un tacos, un panino o dell’acqua. 

Nel 2012 venne eletto deputato federale un uomo del mio municipio e io conoscevo molto bene suo figlio. Gli parlai del nostro progetto e chiesi di poter incontrare suo padre, il quale ne fu subito entusiasta e mi disse di tornare la sera del sabato seguente. Non c’erano mezzi di trasporto e andammo a piedi, portando con noi tutto il materiale fornitoci dagli architetti, oltre ai modelli e ai prototipi.      

All’epoca lavoravo presso un’azienda, il Servizio Comunicazione di Impresa, che si occupava dei progetti per i municipi. Ero una dattilografa di libri antichi: dovevo leggerli, modernizzare il lessico, controllare che tutto fosse corretto e alla fine digitalizzarli.

Leggevo libri sull’indipendenza scritti da persone che avevano vissuto 50, 80 anni prima. Poi editavo le immagini perché all’università avevo studiato informatica e, grazie a una borsa di studio, avevo avuto la possibilità di frequentare un Master in commercio digitale al TEC (Tecnológico de Monterrey, ndr) di Monterrey, una delle migliori istituzioni a livello nazionale.

L’azienda mi ha aiutato molto a crescere e a realizzare il progetto della Casa de Cultura in un periodo molto difficile per me, in cui lavoravo, studiavo e mi occupavo della mia bambina.

G.M.: Che ruolo ha avuto la tua famiglia in tutto questo?

B.F.S.: Il supporto della mia famiglia è stato fondamentale. L’impegno politico è sempre stato molto forte e sentito. Il mio bisnonno, Francisco Franco Salazar, aveva a cuore i problemi del suo popolo e pagò questa sua dedizione con la vita: fu ucciso insieme ai due figli.

Mia nonna ha avuto una vita difficile, ma credo che proprio questo l’abbia resa più forte, una profonda sostenitrice della giustizia. Posso dire che mi abbia insegnato che cosa è il senso della comunità. Lei diceva che se le persone appartenevano al popolo bisognava prendersi cura di loro, e metteva a disposizione degli altri tutto ciò che aveva. 

Funerale del Colonnello Francisco Franco Salazar, foto di Anenecuilco, da Flickr

A 18 anni io e la mia sorella iniziammo il servizio militare entrando nel programma INEA (Instituto de la Educación básica para Adultos), che aiuta le persone anziane a terminare gli studi, al fine di ottenere un diploma di istruzione primaria o secondaria.

Mia nonna era molto orgogliosa di noi perché eravamo fra le prime donne ad aver aderito al servizio militare. Era un modo di servire la comunità, e così anche lei decise di riprendere gli studi.

È sempre stata una donna molto forte, e io ho imparato molto da lei. Per questo fu un onore per me avere il suo permesso per intitolare la Casa Comunitaria al mio bisnonno (Francisco Franco Salazar, ndr).

G.M.: Deve essere stato molto faticoso costruire tutto da zero…

B.F.S.: Quando esponemmo le nostre idee al deputato federale, lui rimase tutto il tempo in silenzio, finché alla fine disse: “Vengono qui per chiedermi di asfaltare una strada, sistemare qualcosa per una scuola, però una casa comunitaria? È insolito, mi riempie di felicità il fatto che siate così giovani, però ho una cattiva notizia: abbiamo appena appena stabilito come impiegare i fondi e quest’anno sono già state costruite molte biblioteche”.

Quando gli feci notare che avevamo già le planimetrie e i bilanci, mi promise che avrebbe cercato il modo di aiutarci. Il lunedì successivo mi chiamò e mi comunicò che aveva ottenuto un finanziamento da 3.5 milioni di pesos come base.

Io non riuscivo a crederci e rimasi in ansia per tutta la settimana, finché non fu ufficializzato con la pubblicazione nel diario della Federazione. Quel venerdì stampai la pagina del diario che conteneva l’approvazione del nostro finanziamento e la regalai a tutti, soprattutto a coloro che non avevano creduto nel nostro progetto.

Fino a quel momento ero stata molto insicura. Negli otto anni precedenti tutti mi avevano detto che il mio progetto era impossibile, troppo complicato, perfino irrealizzabile. Ma qualcosa nella mia testa mi diceva che c’era una possibilità.

Mia mamma e mia nonna mi avevano insegnato che non ci si deve arrendere. La gente non crede di poter cambiare la propria comunità, è convinta di non poter sognare, spesso va avanti, sopravvive, ma non vive veramente. 

Quel giorno sentii che avevo anche l’appoggio di Dio, mi sembrava incredibile la fortuna che avevo avuto, che tutto si fosse aggiustato, mi sembrava di vivere un sogno.

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Brianda Franco Salazar.

Ora restava una sola cosa da fare, trovare un modo per fare in modo che gli ejidatarios donassero davvero il terreno. Convocammo una riunione con l’ejido, invitammo il presidente municipale che si stava per insediare. Dovetti parlare di fronte a gente molto più anziana e competente di me.

Ho sempre avuto timore di parlare in pubblico e anche quel giorno non mi sentivo all’altezza. Tuttavia, ho pensato che avrei dovuto parlare con il cuore, solo in questo modo mi avrebbero capita. E così accadde.

Molte persone furono entusiaste dell’idea di avere una casa della cultura. Promettemmo al presidente che il progetto sarebbe rimasto nell’ambito dell’ejido, perché molto spesso capitava che i terreni ad uso comune ceduti dall’ejido venivano estromessi, e che quindi l’ejido diventasse sempre più piccolo.

Io non volevo che accadesse ciò, per me gli ejidatarios non solo difendono la nostra sovranità alimentare, ma si impegnano anche per la difesa ambientale, curano le terre da seminare e assicurando l’approvvigionamento idrico. 

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Resti della Tienda de Raya, il magazzino all’interno delle haciendas dove gli operai potevano acquistare prodotti loro necessari: foto di Anenecuilco, da Flickr

Molte persone furono entusiaste dell’idea di avere una casa della cultura. Promettemmo al presidente che il progetto sarebbe rimasto nell’ambito dell’ejido, perché molto spesso capitava che i terreni ad uso comune ceduti dall’ejido venivano estromessi, e che quindi l’ejido diventasse sempre più piccolo.

Io non volevo che accadesse ciò, per me gli ejidatarios non solo difendono la nostra sovranità alimentare, ma si impegnano anche per la difesa ambientale, curano le terre da seminare e assicurando l’approvvigionamento idrico. 

G.M.: Il tema ambientale è determinante, immagino.

B.F.S.: Sì, ci tengo molto. Per me i primi ambientalisti furono gli zapatisti perché si battevano contro i proprietari delle grandi tenute che avevano usurpato le terre comuni per ampliare sempre più la coltivazione della canna da zucchero. La combustione, derivata dalla pratica tradizionale di bruciare i campi per facilitare l’accesso dei tagliatori agli steli di canna privati delle foglie morte causava, però, moltissimo inquinamento.

Anche mia madre e mia nonna si sono battute per l’ambiente, talvolta risultando scomode ad alcuni politici. Io sono grata che la mia famiglia abbia sempre avuto un ruolo attivo in politica, ma oggi preferisco presentarmi come Brianda, non Brianda Franco Salazar, spesso per evitare che si creino problemi.

[Fine prima parte]

Greta Murgia

(Intervista a Brianda Franco Salazar realizzata in spagnolo da Greta Murgia, trascrizione e traduzione di Beatrice Russo ed Emilia Todaro, editing di Eleonora Pocognoli; un ringraziamento particolare a Maria Grazia Di Somma; in copertina e nel testo immagini di Brianda Franco Salazar)


Per approfondire, leggi gli articoli della serie Il Mio Messico, a cura di Greta Murgia, e la recensione del romanzo Il sale della terra di Jeanine Cummins, a cura di Diego Bottoni. Sulla Casa de Cultura di Brianda Franco Salazar si consiglia questo video:

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