Selezionato nella dozzina finalista del Premio Strega 2023, “Dove non mi hai portata” (Einaudi, 2022) è un’opera intima in cui Maria Grazia Calandrone scava indietro nel tempo alla ricerca delle sue origini. Lo scopo è riportare alla luce le vicende vissute dalla madre Lucia che, insieme al compagno, abbandonò Maria Grazia ancora in fasce alle porte del parco di Villa Borghese a Roma, poco prima di suicidarsi gettandosi nel Tevere.
Dove non mi hai portata è un libro unico che non riesce ad inquadrarsi in un genere letterario preciso.
A tratti biografico e a tratti sospeso tra prosa e poesia, con quest’opera l’autrice ci conduce su un terreno scomodo, pieno di interrogativi difficili da dipanare.
Maria Grazia non ha memoria diretta della sua madre biologica e utilizza la scrittura per ricostruire un possibile ricordo della donna che l’ha messa al mondo.
Con grande coraggio si avventura nella tragedia del suicidio, nella speranza di dare un senso ai tormenti che hanno condotto la giovane madre ad abbandonarsi dolcemente alla morte.
La terra d’origine
Lucia Galante nasce a Palata, piccolo paese dell’entroterra molisano, nel 1937, poco prima del triste inizio della Seconda Guerra Mondiale. Viene alla luce, come moltissimi altri suoi coetanei, in una povera famiglia di contadini fortemente legati alla tradizione.
Nella prima parte dell’opera l’autrice, come sottolineato più volte nel testo, attinge a tutte le fonti possibili nel tentativo di documentare in modo dettagliato gli anni della giovinezza della madre.
Lasciando spazio anche all’immaginazione, nelle pagine iniziali di Dove non mi hai portata si viene proiettati in un mondo ormai dimenticato. A Palata infatti, neanche l’irruenza della guerra riesce ad alterare lo stato di idillio campestre e fuori dal tempo che pervade le strade del Paese.
Lucia è una bambina molto allegra che passa ore a dilettarsi in mezzo ai campi, tra animali e natura incontaminata. Tuttavia, la vita di questa innocente ragazzina resterà per sempre segnata dal giogo di un ambiente tanto puro quanto impregnato di una cultura bigotta e retrograda. Giunta alla maggiore età, Lucia vorrebbe fidanzarsi con Tonino con cui da anni intrattiene un’amicizia fatta di sguardi e saluti da lontano.
Purtroppo però la famiglia della giovane non acconsente al fidanzamento a causa del fatto che Tonino è ancora più povero di loro. Lucia si vede dunque costretta a sposare Luigi, detto “centolire“; nonostante sia da tutti considerato come lo stolto del paese, la sua dote è migliore di quella di Tonino e quindi è considerato un buon partito.
La convivenza con Luigi si rivelerà un vero e proprio incubo. Il marito oltre che a non “consumare” il matrimonio, inizia ben presto a picchiare Lucia e a causa della sua inettitudine allontana sempre di più da sé la moglie.
E lei, in mezzo, vestita di nero mentre zappa la terra. È battuta dal vento. Lo sguardo è sovraccarico e minerale, quello di un sasso, di una bestia da soma.
Una donna libera
Dall’opera della Calandrone emerge con forza ed esuberanza il profilo psicologico di Lucia, dipinta come una donna indipendente e libera. Lucia non accetta il suo stato di sottomessa dal marito e non esita quando le si presenta l’occasione della vita. Infatti, in paese, giunge Giuseppe Di Pietro, avvenente imprenditore edile che, per motivi di lavoro inizia a frequentare spesso la casa di Lucia.
Tra loro, nonostante l’uomo sia di una ventina d’anni più anziano, nasce ben presto una passione clandestina. La giovane Lucia ha una sola possibilità; improvvisamente decide di fuggire insieme a Giuseppe con l’obiettivo di rifarsi definitivamente una vita.
Proprio in questo sta tutta la determinazione e la modernità di una donna che non si arrende ad un destino segnato. La legge sul divorzio verrà infatti approvata solo nel 1970.
La scelta di Lucia di scappare clandestinamente è quindi una tappa obbligatoria per poter almeno tentare di essere felice. Il suo gesto è un vero e proprio atto rivoluzionario per gli usi e i costumi del suo piccolo paese rurale.
I due cercano fortuna a Milano, la capitale del boom economico italiano degli anni sessanta. Lucia è portatrice di una speranza ancestrale, una speranza di una donna che sta per diventare madre e che è proiettata nel futuro.
La sua esperienza trasuda coraggio con cui affronta gli sguardi e i pregiudizi di una società che non è ancora pronta ad accogliere donne come lei.
Forse qualcuno li ricorda ancora. Quella madre bruna, col compagno che sembra suo padre e una neonata in braccio, fermi per sempre nel fluoro di un tramonto industriale.
Un’indagine personale
L’autrice, più volte in Dove non mi hai portata, fa riferimento alle numerose ricerche fatte per reperire sempre più informazioni sulla madre e sulla sua storia. Se nella prima parte la componente “romanzesca” è molto presente, specie nelle scene di vita vissute dalla piccola Lucia, nella seconda parte si procede con un ritmo più serrato e attento alla ricostruzione sempre più dettagliata dei fatti.
Nel romanzo si insegue man mano una vera e propria inchiesta con cui rendere giustizia alla terribile vicenda che ha portato al suo abbandono e al suicidio dei suoi genitori. Scavando sempre più a fondo emerge a poco a poco un puzzle sempre più chiaro.
Lucia e Giuseppe non hanno agito d’impulso ma hanno provato in tutti i modi a salvarsi per evitare l’irreparabile. Addirittura Lucia, per non creare problemi legali alla piccola Maria Grazia, ha anche deciso di far risultare agli atti che Luigi sia il padre legittimo. Per la bambina infatti, viste le normative dell’epoca, sarebbe stato un grosso problema essere figlia di un adulterio.
Giuseppe, però, non riesce a trovare un lavoro che possa stabilizzare economicamente la situazione. I due non vedono altra soluzione che quella di abbandonare la figlia. Sono consapevoli che non hanno alcuna possibilità di darle un futuro felice. Il dolore li consuma nel profondo, ma agiscono lo stesso con fermezza. L’abbandono avviene il 24 giugno del 1965 alle porte del parco di Villa Borghese, nel centro di Roma.
Maria Grazia ha ormai otto mesi; ha raggiunto un’età in cui il bambino riesce già a staccarsi dalla madre senza subire il trauma psicologico dell’allontanamento forzato. Lucia ha pensato a tutto; sa benissimo che la storia della piccola bambina ritrovata a Villa Borghese avrà un’eco mediatico importante. La speranza è che qualcuno, come poi realmente accadrà, possa adottare questa bambina innocente, vittima di un destino crudele.
La scelta di morire
Leggendo Dove non mi hai portata si resta profondamente colpiti dalla ricostruzione che l’autrice fa della lucidità con cui la madre abbia compiuto delle scelte a dir poco difficili.
Lucia è perfettamente consapevole di ciò che le capita in ogni momento della sua vita. Sa benissimo che scappando di casa si macchierà del reato di adulterio e sa che il gesto di abbandonare la figlia sarà una scommessa contro l’ignoto. Nonostante ciò non perde mai la calma, agisce con precisione e risolutezza.
L’autrice, nel ricostruire i fatti e nello scoprire a poco a poco i motivi che hanno portato al suo abbandono in fasce, riabilita la memoria della madre. Lucia non è una scellerata fuggita di casa solo per soddisfare i suoi desideri. La giovane donna ha solo inseguito il suo diritto naturale di essere felice e di volersi costruire una famiglia con l’uomo che amava.
Nessuno può neanche immaginare il dolore da lei provato nel momento in cui si è vista costretta ad abbandonare Maria Grazia. Nonostante ciò ha avuto il coraggio di scegliere di lasciare la figlia alla compassione degli altri, sapendo perfettamente di poter sbagliare.
La bambina trovata a Villa Borghese si chiama Greco Maria Grazia, Nata a Milano il giorno 15 ottobre 1965 [sic]. L’ho abbandonata in Roma. Perché il mio amico non aveva possibilità finanziarie di sostenerla e mio marito cioè suo padre diceva che non era sua. Trovandomi in condizioni disperate, Non ho scelto altro che la strada di lasciare mia figlia alla compassione di tutti, ed io con il mio amico pagheremo ciò che abbiamo fatto, o, indovinato, o sbagliato.
Galante Lucia, in Greco.
Queste sono le testuali parole lasciate scritte sul biglietto accanto al corpicino di Maria Grazia al momento del suo abbandono. Da queste poche righe trapela la disarmante determinazione di Lucia. Non ha altra possibilità se vuole credere in un futuro migliore per la figlia.
In quest’ottica il suicidio è una tappa obbligata di questa scelta. In questo modo è come se la donna si affidasse ad un sistema ancestrale di giustizia cosmica. Lucia rinuncia alla vita nella tragica speranza che il suo sacrificio possa in qualche modo compensare il dolore futuro causato alla figlia.
Perché leggere Dove non mi hai portata
Dove non mi hai portata è un magnifico esempio di come, con la letteratura, si possano riportare in vita fatti e persone. L’autrice si avvale della scrittura per dare una fisicità al ricordo inconscio della madre. Ha bisogno di toccarla per colmare il sentimento di perdita e separazione che è insito nell’atto stesso della nascita.
Con questo libro, Maria Grazia Calandrone riesce spiritualmente a ricongiungersi alla madre scomparsa. Come Lucia ha dato alla luce la piccola Maria Grazia, ora l’autrice, tramite la lirica delle sue parole, dà vita alla madre scomparsa grazie al lungo ed intimo processo di gestazione che è insito nella scrittura.
Quest’opera, così densa di emozioni, riesce ad entrare dentro di noi come un dolce veleno in grado di corrodere lentamente ogni nostra resistenza alla commozione. Leggendo queste righe si scopre il vero volto di un amore incondizionato che va oltre i limiti del tempo e dello spazio. Dove non mi hai portata ci insegna cosa vuol dire perdonare. Troppe volte ci si ferma all’apparenza e con facilità si giudicano le scelte degli altri.
Raramente però, si cerca di comprendere i sentimenti che animano certi comportamenti apparentemente folli o incomprensibili. In questo libro è racchiusa invece l’incredibile forza del perdono con cui possiamo imparare a sondare le azioni degli altri.
Se Maria Grazia non avesse mai perdonato la madre per l’accaduto, probabilmente non avrebbe mai capito che in realtà tutte le sue scelte sono state generate da un amore cieco e terribilmente umano.
Diego Bottoni
(In copertina Egon Schiele, Tote Mutter, 1910, dettaglio)
Questo articolo fa parte della rassegna di Giovani Reporter in attesa del Premio Strega 2023.