Trattare la linguistica non è sempre innocuo come può sembrare. Questa scienza parla di noi, di quel che siamo e di come ragioniamo; siamo quindi portati a credere di poterne parlare liberamente, senza troppa cura, certe volte anche senza le giuste conoscenze.
Uno dei collanti più efficaci per un gruppo di individui è avere una lingua comune; cosa che molto spesso ne condiziona l’identità. Ognuno di noi viene plasmato dalle lingue con cui è in grado di esprimersi, ed esse rappresentano il nostro mezzo primario per entrare in contatto con gli altri e stringere relazioni.
Non deve stupire, dunque, che la materia linguistica sia da secoli al centro dell’attenzione politica, con esiti assai diversi; a volte con intenzioni nobili, molto spesso con obiettivi distruttivi. Nessun organismo statale si è negato la possibilità di intervenire in materia linguistica, facendone uno strumento di propaganda, di controllo o di discriminazione.
Vediamo ora quattro recenti casi in cui linguistica e politica in modi diversi sono entrate in collisione, con risultati alquanto prevedibili.
1. La lingua Made in Italy
In questi giorni ha fatto scalpore il disegno di legge di FdI per la tutela della lingua nazionale, a scapito dei forestierismi, in particolare di quelli made in England. È una proposta che non si regge in piedi, puntualmente bocciata dall’Accademia della Crusca in quanto ridicola.
Il fatto, poi, che i giornali ne abbiano parlato con titoli clickbait di certo non aiuta. Si è posto l’accento sulle drammatiche ripercussioni che una legge del genere avrebbe sulla vita quotidiana.
Multe salatissime (fino a 100.000 euro) pronte ad abbattersi su chiunque sarebbe stato sorpreso ad ordinare un sandwich, a giocare a tennis o a basket, oppure ad assistere ad un meeting per un po’ di sano team-building. Nulla di vero, ovviamente.
Il fascicolo esiste già dal 2018 e a leggerla ci si accorge subito della superficialità con cui vengono trattati temi delicati che meriterebbero ben altra cura.
La lingua italiana rappresenta l’identità della nostra Nazione, il nostro elemento unificante e il nostro patrimonio immateriale più antico che deve essere opportunamente tutelato e valorizzato.
Frase d’esordio del disegno di legge.
Così esordisce il disegno di legge presentato il 23 dicembre da un gruppo di deputati membri di Fratelli d’Italia. Quattro anni prima il senatore Iannone (FdI) aveva fatto lo stesso, esibendo in Senato un testo rimasto pressoché invariato.
Lo scopo è limitare l’uso di termini stranieri da parte di enti pubblici, poiché altrimenti alcuni cittadini si troverebbero in difficoltà, non avendo dimestichezza con parole ed espressioni moderne che sono spesso inglesismi. Si punta quindi, in teoria, a rendere più accessibili le comunicazioni pubbliche con i cittadini.
Tuttavia, il testo, scritto in questa forma, farebbe venire più di qualche perplessità persino a uno studente alle prime armi con un manuale di storia della lingua italiana
Innanzitutto, definire l’età dell’italiano è una missione impossibile in quanto non si tratta di un organismo biologico. Ecco che l’espressione “patrimonio immateriale più antico” pare subito imprecisa. Se si considera la realtà italiana nella sua preziosa diversità linguistica, si fa fatica a prendere sul serio questa frase. Qualcuno dica a deputati e senatori che la nostra nazione è abitata da decine di lingue più o meno simili tra loro, ma anche di origini completamente differenti.
Con ciò non voglio dire che il panorama linguistico italiano non vada monitorato e studiato, oppure che non ci sia la necessità di un impegno costante per valorizzare la cultura del nostro Paese e il suo principale veicolo di trasmissione. L’italiano, tuttavia, non rischia di essere soppiantato dall’inglese o da altre lingue. Si tratta pur sempre di una lingua di grande tradizione, stabile abbastanza da potersi evolvere liberamente senza ansie o complessi di inferiorità da parte dei nostri politici.
Rimango invece allibito dall’incompetenza dilagante in materia linguistica che sfocia inevitabilmente in proposte inefficaci quando non dannose.
La lingua italiana negli ultimi decenni ha perso gran parte del suo fascino. Lo dimostrano notizie come quella della chiusura dell’ultima scuola in lingua italiana in Eritrea, dopo 119 anni di attività. Anche nelle poche ex colonie un tempo italiane, la nostra lingua interessa di meno, se non per nulla.
Un altro caso esplicativo arriva dall’Albania, un Paese in cui qualche decennio prima l’italiano aveva status di lingua colta, lingua di libertà, mentre oggi non è che un vago ricordo, qualche pronuncia storpiata. Si sono sostituiti altri protagonisti, maggiormente in grado di stimolare interesse e di offrire opportunità.
Le questioni intorno a cui si sta discutendo mi sembrano perciò superficiali, minuzie su cui si cerca di intervenire per nascondere l’incapacità di agire in modo più complesso ed efficiente. Sono ancora molti, ad esempio, gli studenti che faticano a scrivere in italiano, cadendo in errori grammaticali, di punteggiatura o di sintassi.
Se poi ci spingiamo ad osservare i dati relativi all’analfabetismo funzionale, la situazione si rivela drammatica. In Europa siamo secondi solo alla Turchia (indagine Piaac-Ocse del 2019), ma c’è ben poco da esser orgogliosi. Con questo termine si indica l’incapacità di comprendere un testo, pur sapendolo leggere.
Nel nostro Paese ben il 27,7% della popolazione tra i 15 e i 64 anni rientra nella categoria. Una realtà allarmante, ben più grave di qualche termine straniero assorbito nel linguaggio quotidiano. Non sono dunque i forestierismi a rendere incomprensibile un testo, ma delle lacune strutturali che spesso nascondono anche realtà sociali difficili.
Un sistema scolastico aggiornato, un modo nuovo di intendere le lezioni di italiano ed una maggiore attenzione ai bisogni dello studente, sarebbero senza dubbio strumenti più opportuni per migliorare la qualità del nostro italiano.
2. Alto-Adige Südtirol: una scuola che divide
Rimanendo in Italia ma spostandoci verso i confini, si scopre un’altra polemica linguistica che si è riaccesa nelle ultime settimane. Qui la questione si fa un po’ più spinosa. Siamo, infatti, in Alto – Adige Südtirol, provincia in cui ciclicamente riaffiorano attriti e incomprensioni.
Per chi non lo sapesse, nella zona sono presenti, per ogni grado, istituti in lingua tedesca e in lingua italiana. È un sistema che fa indubbiamente discutere e che è ritenuto da molti divisivo e inadeguato.
A buttare benzina sul fuoco ci ha pensato l’assessora comunale Johanna Ramoser (Südtiroler Volkspartei), la quale ha fatto presente una situazione per lei inaccettabile. Nelle scuole elementari di lingua tedesca ci sarebbero troppi studenti di lingua italiana o altra, e ciò ostacolerebbe la didattica. Le maestre, afferma l’assessora, si troverebbero costrette a parlare in italiano per farsi capire.
Molti genitori si sono detti preoccupati nel vedere i propri figli condividere i banchi di scuola con alunni appartenenti ad altri gruppi linguistici, poiché questo li allontanerebbe dall’apprendere il tedesco.
È doveroso dire che nella provincia risiedono molte comunità straniere provenienti da tutto il mondo che si trovano a dover scegliere per i propri figli un’istruzione in una o nell’altra lingua. La situazione linguistica è quindi in continuo mutamento e un sistema vecchio, che nei decenni scorsi poteva anche funzionare, adesso mostra le molte crepe.
Sarebbe inoltre inesatto affermare che la comunità tedesca parli quotidianamente il tedesco standard. Esso viene insegnato nelle scuole, ma a fatica entra nei contesti informali, dove si preferisce il dialetto locale.
Per arginare il fenomeno è stato proposto un test di lingua per accertare un livello sufficiente di tedesco. Una soluzione poco convincente e che di certo lascia perplessi. Da una parte, si limiterebbe l’accesso all’istruzione a dei bambini che hanno diritto ad apprendere quante più lingue possibili; dall’altra, non è affatto certo che gli stessi bambini di lingua tedesca siano in grado di affrontare un eventuale test che provi le loro conoscenze linguistiche.
Ciò è del tutto normale. Il primo compito di una scuola elementare è guidare verso l’apprendimento, senza fare nessuna selezione che sfocerebbe nella discriminazione.
In una provincia bilingue, dove per svolgere qualsiasi impiego pubblico viene richiesta la conoscenza di entrambe le lingue, pare assurdo limitare le nuove generazioni con leggi frutto di tempi ormai remoti.
Seguendo il principio della Ramoser si dovrebbero istituire scuole per ogni ceppo linguistico presente sul territorio. Una scuola rumena quindi, accanto ad una di lingua araba, magari di fronte ad una per i parlanti urdu e dietro ad una di lingua albanese o ucraina.
Ci sarebbe da ridere, se non fosse che chi dovrebbe salvaguardare una situazione tanto complessa, si riduce a soluzioni improvvisate, come in questo caso.
Per approfondire: La SVP: “Troppi italiani nelle scuole tedesche, sì al test d’ingresso”.
3. Nessuna lingua ufficiale
Se finora abbiamo detto quanto la lingua possa essere uno strumento politico, è altrettanto vero che alcuni Stati non dispongono di una lingua ufficiale, se non solo de facto. Sarà noto a molti il caso degli Stati Uniti, dove l’inglese è lingua nazionale, la maggiormente diffusa, ma non quella ufficiale. Sorprende molto di più scoprire che anche nel Regno Unito e in Australia la situazione è la medesima.
Si può sospettare che si tratti di una questione culturale, legata anche al modo di intendere la legislazione. Il Regno Unito, infatti, è tuttora privo di una costituzione scritta, preferendo optare per una maggiore flessibilità in materia di governo. Non pare esserci mai stato, dunque, il bisogno di dichiarare in maniera formale l’appartenenza ad un codice linguistico particolare.
Le prime proposte per ufficializzare la lingua negli USA risalgono già alla seconda metà del ‘700, senza però tradursi in qualcosa di concreto. Un motivo culturale, certo, ma forse, almeno in parte, di tipo politico-sociale.
Per i colonizzatori europei non vi era alcuna lingua indigena in grado di competere, per prestigio e raffinatezza, a quella inglese. Le varie lingue australiane o amerinde, per quanto affascinanti per i linguisti di oggi, non rappresentavano affatto una minaccia. Rimanendo nel Nuovo Continente si possono citare tra questi anche Messico, Argentina e Uruguay, dove all’inglese si sostituisce allo stesso modo lo spagnolo.
Alla lista dei Paesi senza una lingua officiale si aggiunge anche il Giappone. È noto che esso sia uno Stato dalla forte identità nazionale, poco abituato al contatto con culture diverse e dove gli stranieri sono ancora malvisti. La geografia ci spiega in parte il perché.
Il mare ha rappresentato per secoli una barriera invalicabile. Anche sotto l’aspetto politico, il Giappone ha saputo fare da protagonista nello scacchiere prima asiatico e poi mondiale. Una botte di ferro in sostanza, solida nella sua identità e nella propria lingua madre a tal punto da non sentire la necessità di dichiararlo su carta.
Per concludere, sembra lecito domandarsi se una legge rigida in tal senso sia davvero necessaria o se non sia meglio seguire questi esempi, affidandosi alle abitudini della popolazione.
4. Lingue, nazionalismi e complessi di inferiorità
Nei casi più estremi lingua e propaganda politica si sono intersecate a tal punto da divenire imprescindibili per la sopravvivenza stessa dello Stato. Si pensi, ad esempio, alle repubbliche sorte dalle ceneri della Jugoslavia. I drammatici eventi che segnarono l’ultimo decennio del Novecento hanno avuto ripercussioni tuttora percettibili.
La lingua ufficiale dell’ex Stato comunista non esiste più. Con i nuovi confini hanno prevalso sentimenti divisivi, differenziando il serbocroato in serbo, croato e bosniaco. Questi si possono considerare dialetti di una stessa lingua, ma guai a farlo presente.
La situazione balcanica è, però, ben più complessa. Con il crollo dei regimi comunisti (ma in parte anche prima), è esplosa la mania di protagonismo e con essa anche l’approccio pseudo-linguistico.
Ogni Paese sembra voler dichiarare la propria lingua come la più prestigiosa, la più antica e autoctona, giustificando quindi una Grande Idea (Μεγάλη Ιδέα), una Grande Serbia o un’Albania etnica. Orde di pseudo-linguisti si sono impegnati negli ultimi anni a trovare teorie sempre più bizzarre.
Viene chiamata in causa la storia antica, di cui questi ciarlatani dimostrano una conoscenza minima, confusa e ovviamente non imparziale. Alcune teorie dichiarano dunque i croati come discendenti degli Illiri, altre li sostituiscono con gli albanesi.
A queste si aggiungono quelle filo-greche che, forti del prestigio storico della lingua ellenica, assimilano sotto la propria identità tutti i popoli limitrofi. Ogni stato moderno costruisce un proprio mito delle origini con lo scopo di erigersi a protagonista principale.
Nonostante ci sia una sottile base di verità storica, le fonti e le travagliate vicende storiche non ci permettono di sbilanciarci in un verso o nell’altro. Una moltitudine di forze contrarie pare impegnata ad annullare quelle peculiarità non solo linguistiche che rendono la penisola un mosaico di culture, com’è è sempre stata.
Tutto sembra basarsi su etimologie fantasiose, fondate su semplici assonanze casuali che legano le lingue moderne a quelle antiche. Purtroppo, della lingua illirica, e in generale di questo popolo, abbiamo poche notizie certe. Questa lacuna fa sì che storici, giornalisti o linguisti di dubbia formazione si sentano il diritto di pronunciarsi senza troppa apprensione.
Le democrazie sorte dopo il crollo del muro di Berlino si sono dimostrare fragili; e questa fragilità si nota anche in campo linguistico. Un regime autoritario, se da una parte limita la libertà di parola, dall’altra fa in modo che il materiale scientifico prodotto fosse della massima qualità, curato in ogni dettaglio. Non deve stupire, dunque, che manuali e ricerche di linguistica (e non solo) pubblicati in quel periodo risultino ben più affidabili rispetto a tanti recenti.
Un libero mercato ha permesso, dietro pagamento, la diffusione incontrollata di saggi che spesso e volentieri si rivelano carta straccia. Il fenomeno si presenta anche in altri Paesi ex sovietici, nel tentativo di nobilitarsi e di superare una sorta di complesso di inferiorità che provano di fronte a culture e lingue ben più solide.
L’elenco potrebbe continuare con decine di esempi che però finirebbero per annoiare. Credo che quanto detto possa bastare per dare l’idea di quanto il nostro linguaggio sia sensibile e a tratti fragile. I campanelli d’allarme suonano, sta a noi riconoscere i pericoli e affidarci agli studiosi, senza troppe manie di protagonismo.
Lo si è visto pochi anni fa, quando l’opinione pubblica ha spesso messo in ombra i pareri dei medici, alimentando caos e sospetti. Ciò che a prima vista può sembrare a portata di tutti molte volte nasconde insidie e rischi che richiedono una riflessione attenta. È facile aizzare le folle con discorsi semplificati, lo è meno rimediare agli effetti.
Jon Mucogllava
(In copertina: immagine di Willi Heidelbach da Pixabay)
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