Sono di questi giorni le due notizie, singolarmente contemporanee, del progetto del governo di istituire il “Liceo del Made in Italy” e della proposta di legge targata FdI di multare con un’ammenda compresa tra 5.000 e 100.000 euro l’utilizzo nella pubblica amministrazione di termini ed espressioni inglesi in luogo di equivalenti italiane.
Entrambe le iniziative – formalmente anche in contraddizione – si inseriscono all’interno di una visione politica del tutto coerente che si esprime nella valorizzazione ipertrofica del Paese come nazione, elemento ricorrente nel lessico politico fin dall’insediamento del governo attuale.
Ora, il punto cruciale non è debilitare e condannare il patriottismo, quell’amore politico di cui scriveva Anderson, il motore di coesione e di legittimazione della comunità immaginata che è la nazione; si tratta, piuttosto, di analizzare il valore politico di cui esso si carica nel momento in cui è mobilitato all’interno della strategia di governo.
Istituti vs Licei: una corsa al ribasso?
La presidente – o meglio, Il presidente, perché è giusto che Meloni, come ogni individuo, possa esprimersi con il genere con cui si identifica – del Consiglio Giorgia Meloni ha accennato all’intenzione del governo di creare un Liceo del Made in Italy in occasione del Vinitaly di Verona.
In un discorso che si rivolge, esplicitamente e più volte, ai giovani, Meloni sottolinea l’importanza del settore agroalimentare e vinicolo non solo nell’economia italiana, ma soprattutto nella definizione della nostra identità culturale, ed esalta l’istituto agrario come “vero liceo”, capace più dei licei propriamenti detti di offrire sbocchi professionali.
Questo discorso ha più di un che di problematico. La presidente del Consiglio ha fatto una giusta osservazione: certamente gli istituti tecnici e professionali come tali – si perdonerà il pleonasmo – sono più professionalizzanti dei licei, e spesso sono erroneamente sottovalutati e considerati un percorso formativo di qualità inferiore rispetto a quello liceale.
Tuttavia, bisogna riconoscere che questo pregiudizio nei confronti degli istituti dà luogo a una situazione fattuale in cui l’accesso alle scuole superiori è socialmente differenziato, e interrogarsi sulle lacune strutturali che ne sono la causa.
Questo sarebbe il compito della politica, che però evidentemente Meloni non comprende: la proposta per valorizzare ulteriormente i “giovani” che decidono di intraprendere un percorso di studi nel settore agroalimentare consiste nel creare un “Liceo” del Made in Italy in cui si faccia “un’operazione per mostrare il legame tra la nostra cultura e la nostra identità e quello che si studia, per esempio, in un istituto agrario”.
La presidente non si accorge di riprodurre così questa differenziazione tra istituti e licei nel momento stesso in cui solo all’interno di un percorso liceale si dà la possibilità di riflettere in termini di cultura.
Il Liceo del Made in Italy: una scuola per la nazione
L’insistenza sull’agricoltura come attività economica che forgia l’identità italiana ha poi un significato politico. Si tratta di un’affermazione innegabile, in quanto il cibo caratterizza la nostra storia e la nostra quotidianità, plasma l’immagine che all’estero si ha del nostro Paese; investire in un determinato settore economico piuttosto che in un altro, però, è una scelta politica, del tutto legittima ma anche orientata.
Il settore agricolo – nel quale, peraltro, lo sfruttamento del lavoro è più elevato che altrove – in Italia si presta meglio di ogni altro, per ragioni storiche e culturali, a mobilitare l’idea della nazione.
Questa è un’idea molto cara alla parte politica al governo ed è la stessa che anima il concetto del “Made in Italy”, un’espressione marcatamente connotante che non a caso dall’ottobre 2022 denomina anche un ministero, il precedente Ministero dello Sviluppo economico (contemporaneamente il Ministero dell’Agricoltura è stato ridefinito Ministero della sovranità alimentare).
In questo momento storico l’impronta sovranista del primo partito in Italia si è molto attenuata in favore di una posizione filo-atlantista resa necessaria e opportuna dalla guerra in Ucraina.
Non bisogna dimenticare, però, che il paradigma retorico della nazione appartiene all’identità di Fratelli d’Italia e ha giocato per questo un ruolo decisivo nell’ultima campagna elettorale, quindi non può essere abbandonato in modo facile e indolore – politicamente parlando.
Laddove il discorso nazionale ad oggi non può essere mobilitato in termini di sovranità, occorrono nuove strategie di mobilitazione e di compensazione – ripeto, legittime nella dinamica politica – nei confronti dell’elettorato.
SOS linguistico: la salvaguardia dell’italiano
È in questo contesto che si inserisce anche l’iniziativa, con il deputato Fabio Rampelli come primo firmatario, di istituire l’obbligo di utilizzo esclusivo della lingua italiana nelle comunicazioni pubbliche, nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle università pubbliche.
L’obiettivo, si dichiara, è quello di difendere e promuovere la lingua italiana, nonché garantire il “diritto alla comprensione di quegli anziani e giovanissimi che hanno dovuto interrompere presto gli studi” e non conoscono l’inglese.
L’incremento negli ultimi anni dei termini inglesi entrati nell’uso italiano è un dato certo, così come il fatto che la lingua italiana ha una varietà semantica vastissima ed è ricca di sfumature: laddove esistono espressioni di uso corrente in lingua italiana appare preferirle ad alternative inglesi. Tuttavia, è evidente che non è questo il tema discusso.
Introdurre delle sanzioni implica la presenza di un pericolo da contrastare. Se è vero che il vocabolario conosciuto e utilizzato correntemente è sempre più ridotto, bisogna anche considerare che in Italia l’utilizzo di termini inglesi non è paragonabile a quello degli altri Paesi europei.
Inoltre, spesso gli stessi impiegati della pubblica amministrazione non ne hanno una conoscenza fluente. Risulta, quindi, difficile ritenere che la lingua italiana rischi di impoverirsi a causa della diffusione dell’inglese, al punto da impedire ad alcuni gruppi sociali l’accesso ai beni e ai servizi pubblici.
Anche in questo caso si tratta di un dispositivo ideologico, cui è legittimo ricorrere ma che è meno legittimo mascherare dietro la difesa di un “diritto alla comprensione” o dietro obiettivi di salvaguardia nazionale.
Non è un paese per giovani: l’emergenza generazionale
Come si posizionano i giovani e le giovani in questo quadro?
Meloni ha posto enfasi sulle agevolazioni che il governo si impegna a garantire agli under 36 nell’ambito del settore agricolo; il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, Lollobrigida, dallo stesso palco del Vinitaly ha tuonato “i giovani vadano a lavorare nei campi, invece di stare sul divano con il reddito di cittadinanza”.
Dalla combinazione di queste affermazioni emerge una pericolosa miopia: il governo, come ha scritto il direttore di Fanpage Francesco Cancellato, non solo ha dato prova di odiare i giovani attaccando il loro modo di essere e i loro bisogni, ma non comprende come la questione generazionale in Italia sia un tema cruciale non solo per l’economia ma per la salute della nostra democrazia.
I dati Eurostat dimostrano che in Italia una media del 12,5% dei giovani tra i 18 e i 24 anni ha precocemente abbandonato gli studi, fermandosi alla licenza media; inoltre, le regioni italiane hanno il tasso più alto di NEET, giovani che non studiano né lavorano, in Europa, con punte del 39% nelle regioni del sud ma ovunque con tassi al di sopra della media europea, attestata al 15%.
Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è attestato al 23,7%. Ogni anno, una percentuale compresa tra il 5 e l’8% dei laureati decide di trasferirsi all’estero, sia per migliori opportunità lavorative, sia per una contribuzione superiore in media del 41,8% a quella che riceverebbero in Italia per la stessa posizione, sia per una maggiore stabilità lavorativa.
Sono dati drammatici che richiedono risposte più complesse di un discorso volto a incentivare l’impiego dei giovani nel settore agroalimentare ai fini di collegare “tradizione e innovazione” in nome della “continuità nazionale”.
Né è sufficiente la cultura della “sana competizione” che il nuovo Ministero dell’istruzione e del Merito – appunto – vuole promuovere: secondo Alessandro Cattaneo, deputato di Forza Italia, il sistema scolastico attuale è troppo attento alle fragilità dei ragazzi e non offre gli strumenti adeguati per affrontare la competizione ineludibile nel mondo reale, “illudendo che tutti possono fare tutto, quando è chiaro che non è così”.
Si tratta di una posizione piuttosto surreale in un contesto in cui gli ideali della performatività e del successo rendono l’esperienza scolastica e universitaria un’enorme fonte di disagio, con un incremento significativo dei suicidi fra gli studenti.
Ne ha parlato il professor Ravelli, secondo cui “la scuola è un momento magico sottratto agli impegni performativi, al dover fare, alla prestazione, in cui lo studente può costruire la propria personalità”; l’insegnamento deve “preparare la personalità dei cittadini del futuro, non profili professionali misurati sullo stato presente del mercato del lavoro, per altro su un’immagine obsoleta”. Ma in questo Paese “l’ascensore sociale fa solo sprofondare”.
Una (non) politica a senso unico
Il Made in Italy e la tutela della lingua italiana non serviranno a risollevare il Paese, né la “nazione” che tanto si propongono di difendere e valorizzare. Dopo i primi mesi di governo, è evidente che manca una visione politica, e manca contezza della realtà materiale, sociale ed economica, cui questa visione politica dovrebbe dare risposte.
A farne le spese sono le generazioni più giovani, che quotidianamente si attivano per mobilitare le proprie istanze e si scontrano con una classe politica sorda e miope, che rifiuta il dialogo e il confronto (emblematica la risposta della ministra Roccella ai sindaci che vogliono continuare a registrare i figli di coppie omogenitoriali, “non c’è alcun confronto da fare”); quei giovani e quelle giovani che vorrebbero costruire in Italia il proprio futuro e mettere davvero le proprie capacità al servizio del Paese, ma che, oltre a rimanere inascoltati, si sentono accusare di essere svogliati.
Il tema non è il colore politico del governo, il tema è la distanza tra Paese reale e Paese legale, tra società civile e classe dirigente, che, portato all’esasperazione, non solo impatta sulla qualità della vita dei singoli ma deteriora la salute democratica del Paese.
Eleonora Pocognoli
(In copertina immagine di L’Espresso)