La rete metropolitana di Milano sta diventando un palcoscenico in cui si susseguono scene all’insegna di violenza e microcriminalità. Le protagoniste sono giovani donne di origini rom dedite ai borseggi, nella metro di Milano. I loro volti viaggiano sui canali social oggi come non mai.
Rabbia esasperata
Quello dei borseggi in metro a Milano è un problema di cui la città meneghina è ben consapevole da tempo. Nonostante ciò, i provvedimenti adottati fino ad ora si sono dimostrati inefficaci, alimentando la rabbia dei comuni cittadini. L’accesso alle linee della metropolitana per alcuni sembra essere libero, con la complicità di chi dovrebbe sorvegliare.
Il business dei furti prosegue indisturbato assicurando profitti per migliaia di euro ogni giorno, come dichiarato dalle stesse borseggiatrici. La risposta per far fronte alla situazione esasperata è stata del tutto prevedibile: la giustizia privata.
Social come Instagram, TikTok e Telegram diffondono ogni giorno video che testimoniano una situazione esasperata: borseggiatrici colte in flagrante e bloccate dalle loro vittime nel tentativo di riavere gli oggetti rubati, riempite di insulti e aggredite. In questo contesto si è infiltrato anche il discorso politico.
“Dagli al ladrone”
Scorrendo tra i commenti ai video pubblicati dalla pagina Instagram @milanobelladadio (vetrina della quotidianità milanese tra luci e ombre) è evidente l’appoggio degli utenti verso questi ragazzi.
La missione di chi gestisce la pagina è rendere riconoscibili i soggetti da evitare. Queste azioni hanno portato a dei risultati che, se da una parte non pongono fine ad un problema complesso, permettono ai cittadini di proteggersi al meglio delle loro possibilità.
Alcune stazioni sono tappezzate di foto che ritraggono i volti delle criminali e i passeggeri vengono avvisati della loro presenza mediante megafoni. Si tratta tuttavia di strumenti improvvisati nelle mani di chi non ha l’autorità per intervenire..
Trattandosi quasi sempre di donne giovani e fragili, in quanto apparentemente incinte, il dibattito ha accolto anche voci contrarie ad azioni di questo genere.
Più o meno deboli
Non dobbiamo mai promuovere la giustizia privata. Chi raccoglie delle prove di reato le deve consegnare alle autorità.
Monica Romano, consigliera comune Milano
Le parole della consigliera PD, ospite del programma “L’aria che tira”, hanno fatto discutere dando vita un dibattito che si fa sempre più vivo. Il rischio, secondo Romano, è creare dei bersagli facili senza prove concrete di reato. Per la politica si tratta di una forma di violenza ingiustificata.
In linea di principio si tratta di un concetto sacrosanto, ma i principî abitano spesso e volentieri il mondo dell’utopia. Del resto, è indubbio che si tratti di atti criminali in piena regola, testimoniati da filmati, immagini e dichiarazioni delle protagoniste stesse.
Di certo un clima da far west non è auspicabile, ma in molti casi sono le stesse autorità ad avere le mani legate. Le forze dell’ordine sono, infatti, incapaci di arginare una volta per tutte il problema, e di questo le borseggiatrici sono ben consapevoli. Pare il caso di dire, con una punta di amarezza, che in questo caso la legge non tutela i più deboli.
Farsi beffa della legge
È molto difficile rimanere impassibili di fronte alle borseggiatrici che ostentano mazzette di ogni taglio, gioielli e quant’altro. Tutto avviene sui social, dove anche loro dunque si mostrano senza ritegno, fiere del loro operato. Quelle che la Romano percepisce come potenziali vittime sono le prime a non ritenersi tali.
Ed ecco che un discorso teoricamente valido si scontra con la realtà quotidiana. La legge prevede delle pene ben precise per il reato di furto, ma in questo caso specifico l’articolo 624 del codice penale non è del tutto applicabile.
Bisogna tenere a mente che si tratta di soggetti particolari. Il prototipo delle borseggiatrici è ben definito: giovani madri con prole numerosa e condizioni sociali non ottimali. Questo rappresenta per loro la carta vincente.
Il loophole legislativo
Il loophole che rende inapplicabili o quasi le pene previste è insito nella natura della legislazione italiana.
L’articolo 275 del codice di procedura penale afferma infatti che “non può essere disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti di una donna incinta o madre con figli di età non superiore ai 6 anni”. L’esecuzione di una pena è inoltre differita in due casi: se quest’ultima deve avere luogo nei confronti di una donna incinta o della madre di un infante di età inferiore a un anno (art. 146 c.p.).
A onor del vero, bisogna dire che ogni tanto gli arresti avvengono, ma è difficile constatare quanto peso abbiano nella lotta ad un sistema molto più organizzato di quel che sembra.
Se da una parte la legge italiana si pone il dovere di tutelare i più deboli, in questo caso specifico è difficile credere che i soggetti fragili siano queste giovani madri. Si tratta di persone che sì, vivono spesso in condizioni di disagio, ma è altrettanto innegabile il giro di affari che sono capaci di alimentare.
Una questione complessa
Quale sia la soluzione migliore ad un problema come quello dei borseggi è difficile da dire. In questo caso si fa riferimento ad un sistema culturale che fa spesso (non sempre) del furto una fonte di guadagno, se non l’unica.
I meccanismi che regolano la microcriminalità sono spesso oscuri, inseriti in un tessuto criminale ben più ampio.
I mezzi a disposizione consentono ai cittadini solo di riconoscere il problema senza poterlo affrontare in modo decisivo. È impensabile che questa possa essere responsabilità di singoli individui. La politica, come spesso siamo abituati a constatare, non pare intenzionata ad intervenire in modo troppo serio.
Che miracolo, acchiappare una zingara che ha rubato! Credo che sia la prima volta che succede.
Gente in Aspromonte, La zingara, di Corrado Alvaro
Jon Mucogllava
(In copertina Engin Akyurt da Pixabay)