Cinema

“Grazie ragazzi” – L’attesa di un futuro che non arriva


Uscito nelle sale nel gennaio del 2023 e diretto da Riccardo Milani insieme a Michele Astori, il film italiano Grazie ragazzi è il remake di Un Triomphe, film francese di Emmanuel Courcol con Kad Merad e David Ayala, a sua volta ispirato al documentario I prigionieri di Beckett dell’attore svedese Jan Jönson sulla sua esperienza in un carcere di massima sicurezza.


Seduta sulla poltroncina di un piccolo cinema locale, reduce da una nottata fuori e dunque pronta ad addormentarmi sulla spalla di mio fratello, ho affrontato la visione di Grazie ragazzi senza un’idea della trama, degli attori e di chi fosse il regista.

Tabula rasa, dicono, oppure becera ignoranza: in qualunque modo decidiate di vederla, di sicuro non avevo pregiudizi e dunque ho analizzato il film come un prodotto a se stante.

La trama

Antonio Albanese interpreta Antonio Cerami, attore di teatro che per vivere doppia film pornografici e non calca le tavole del palcoscenico da anni. Riceve una chiamata da un suo vecchio amico con cui recitava e che ora è il regista di punta di un teatro di Roma, ovvero Michele (Fabrizio Bentivoglio), il quale gli propone di realizzare un corso di teatro di sei ore con i detenuti di un carcere per far interpretare loro delle favole.

Trascorrendo il tempo con Aziz (Giacomo Ferrara), forse il più toccante di tutti, Mignolo (Giorgio Montanini), Damiano (Andrea Lattanzi), Radu (Bogdan Ioardachioiu), Christian (Gerhard Coloneci) prima e con Diego (Vinicio Marchioni) poi, nella mente di Antonio comincia a prendere forma la consapevolezza di una relazione sorprendente: quella tra i detenuti, apparentemente svogliati e demotivati, sempre in attesa nella vita monotona e rigidamente scandita del carcere, e il capolavoro teatrale di Beckett Aspettando Godot.

Superate le reticenze della direttrice del carcere Laura (Sonia Bergamasco), ad Antonio viene permesso di preparare lo spettacolo, che tra molte difficoltà, come il comportamento dei detenuti stessi e la diffidenza delle guardie carcerarie, viene messo in scena ed acclamato fin da subito.

ALLERTA SPOILER: i carcerati, i “ragazzi” come li chiama Antonio, prima del loro ultimo e più grande spettacolo al teatro Argentina di Roma, scappano con un vero coup de théâtre.

Antonio si ritrova solo sul palco e improvvisa un monologo sulla sua esperienza, sul rapporto costruito con i suoi allievi e sul senso del loro aspettare, sulla loro profonda comprensione, senza sacralizzazione, dell’opera del drammaturgo irlandese.

Realismo inconsistente

Il film cerca dall’inizio di adottare un taglio realistico per rispettare il documentario di ispirazione originale, e per far vivere fino in fondo allo spettatore la realtà raccontata. Ponendo questo come intento, trovo che il finale sia assolutamente fuori tono.

Infatti, è improbabile che siano poste solo due guardie carcerarie a sorvegliare cinque detenuti che già si erano dimostrati “difficili”, e che la polizia riesca a ritrovarli subito dopo la loro evasione. Tuttavia ciò che a mio parere ha rovinato la cifra quasi documentaristica del film è stato il monologo finale di Antonio.

Antonio, personaggio che inizialmente rassegnato, e che ritrova il suo amore per il teatro in una veste nuova, si riscopre sognatore un po’ folle. Non è impensabile il monologo in sé, la riflessione a caldo dopo il panico e lo scoramento.

Di certo, però, è impensabile che sia perfettamente costruito e ordinato. Ed è impensabile anche la standing-ovation da parte di un pubblico che dieci minuti prima è venuto a sapere dell’evasione di cinque criminali e da parte della direttrice che nella realtà sarebbe stata sicuramente licenziata in tronco.

Questo monologo mi ha ricordato certi finali di film americani, forse kitsch ma di certo meglio riusciti delle versioni nostrane. Specialmente in un film ispirato a un documentario, e per il quale il regista ha dovuto quindi inventarsi ben poco, avrei apprezzato una maggiore cura nei dettagli.

La stessa cura nei dettagli è mancata nell’approfondire i personaggi dei carcerati – un peccato, vista la bravura degli attori, specialmente di Giacomo Ferrara -, nella scrittura, nell’esecuzione di alcune battute da parte di Sonia Bergamasco e anche, inaspettatamente, di Albanese, che seppur bravo è risultato a mio parere eccessivamente impostato in un ruolo che avrebbe richiesto più spontaneità ed entusiasmo.

Antitesi in attesa

È innegabile la presenza di spunti di riflessione, anche ben sviluppati. L’attesa di un appiglio al mondo esterno che, in questo caso, si presenta sotto forma di testo teatrale, e la discrepanza tra la finzione-realtà dell’opera messa in scena, la dura realtà del carcere, opprimente e doppia.

Assurdo – è proprio il caso di dirlo – il continuo alternarsi di diversi sistemi di misura: il plauso fuori, la confisca di orsacchiotti e mazzi di fiori dentro, il contatto inebriante con il sole, l’aria e le persone care fuori, e gli stanzini delle visite, brevi, dentro.

Fuori e dentro, dentro e fuori: continuamente sballottati fra due realtà antitetiche, i ragazzi si ribellano in modo scomposto. Lo spettatore prova empatia per loro, comprende la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di più grande di loro, e si mette anche le mani nei capelli quando fanno sciocchezze.

Chi guarda compartecipa della doppiezza di un mondo che si rivela ipocrita sotto la maschera, che si nasconde dietro la cultura e le belle opportunità, per il quale però sente di non poter fare nulla, perchè purtroppo oggi carcere vuol dire anche perdita di piccoli pezzi che ci rendono ciò che siamo.

Mi viene da chiedermi, non avendo visto l’originale, se queste riflessioni sorgano per merito della scrittura del regista o se il film italiano sia solo, in questo, un buono “specchio” del documentario di Jan Jönson.

Sipario

Proprio perché il materiale era così buono, è stato un dispiacere per me vederlo sprecato con errori banali. Risulta l’ennesima ipocrisia del film, ma questa volta nella vita vera. Antonio ripete più volte a Mignolo, Damiano, Aziz, Radu e Diego l’importanza e la bellezza di ciò che stanno facendo.

Li spinge a dare di più, spronandoli e credendo in loro come forse nessuno mai aveva fatto. Insiste sui dettagli della loro interpretazione, dettagli sui quali nel film invece non ci si è soffermati.

Ciò svilisce alquanto i temi trattati, che non sono solo interessanti: sono veri. Per i reali protagonisti di questa vicenda, i carcerati conosciuti da Jönson, quelli che per noi sono spunti da accarezzare pigramente in una mezzora di chiacchera, più o meno informata, sono la vita, cruda e spietata e a volte stranamente bella, forse, con cui si scontrano ogni giorno.

Emilia Todaro

(In copertina Grazie ragazzi di Claudio Iannone da mymovies.it)


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