In Turchia e in Siria il terremoto ha scosso il suolo alla frontiera tra i due Paesi, riducendo in macerie città non preparate alla catastrofe e seppellendo migliaia di persone. Lo Stato dovrebbe garantire stabilità e sicurezza entro i propri confini ma in questi Paesi arriva tardi, non è in grado o non c’è proprio.
Il terremoto
Nella notte tra il 5 e il 6 febbraio si sono verificate una serie di devastanti scosse sismiche nel Vicino Oriente, in Turchia e Siria. Due scosse di magnitudo 7.8 e 7.5 hanno avuto epicentro nel sud-est della Turchia a pochi chilometri dalla Siria, rispettivamente nei pressi di Gaziantep e Kahramanmaraş.
Un terzo terremoto ha poi colpito la stessa area, e sono seguite numerose scosse di assestamento di pari magnitudo solo due settimane dopo, il 20 febbraio.
La catastrofe ha provocato la morte di almeno 51.000 persone, di cui 44.374 in Turchia e 6.700 in Siria, anche se il bilancio è destinato ad aumentare poiché molti altri sono sepolti sotto le macerie.
Si tratta di una tragedia umanitaria, alla quale entrambi i Paesi non sono stati in grado di dare una risposta efficace per motivi diversi.
In Turchia, uno sviluppo edilizio incontrollato ha portato all’inosservanza delle norme antisismiche, mentre l’inefficacia dei servizi emergenziali ha messo a repentaglio la vita di molte persone. In Siria, un failed state, la mancanza di un potere unitario ha impedito di rispondere efficacemente all’emergenza.
Un Paese devastato dall’uomo e dalle calamità naturali
La Siria è prostrata da una guerra civile che dura da ormai 11 anni. Dopo il terremoto si contano circa 6 milioni di sfollati, anche se è complicato quantificarli poiché molti lo erano già a causa del conflitto.
Formalmente, il regime di Assad mantiene il potere con il pugno di ferro, ma in realtà i cosiddetti “gruppi ribelli” hanno il controllo di molte zone in Siria.,
La scena politica è complessa: si consideri che nemmeno i gruppi ribelli costituiscono un fronte unitario, ma sono a loro volta divisi in fazioni moderate, come l’Esercito Siriano Libero, estremiste, tra cui ISIS, forze curde.
Lo Stato ha il compito di garantire stabilità politica e servizi alla popolazione che vive all’interno dei suoi confini: in situazioni emergenziali, come nel caso di terremoto, il governo dovrebbe essere in grado di dare una risposta unitaria a sostegno del suo popolo.
Uno Stato che non c’è
All’interno di un failed State come la Siria, invece, ogni gruppo pensa a sé, e lo Stato non c’è. La zona del Paese maggiormente colpita dal terremoto, infatti, non è sotto il controllo del regime, ma in mano ai ribelli, per questo la risposta del Governo di Assad ha tardato ad arrivare.
A portare maggiore aiuto alla popolazione locale sono stati i Caschi Bianchi, un’organizzazione di protezione umanitaria nata nel periodo della guerra che si sostituisce allo Stato negli aiuti dei civili.
La situazione interna è ulteriormente complicata dal fatto che un’importante rotta per il petrolio attraversa la Siria per legare la penisola arabica all’Europa, che pone il paese in balìa di diverse forze politiche o economiche. Per questo, molte potenze internazionali sono interessate a ingerirsi sostenendo il regime di Assad, come Russia e Iran, o i ribelli, nel caso di Stati Uniti, Francia e Regno Unito.
Gli Stati Uniti, nel 2019, hanno emanato il Caesar Act, un provvedimento che riconosceva le violazioni di diritti umani del regime di Assad e imponeva importanti sanzioni economiche al Paese. Tuttavia, queste misure hanno aggravato la situazione, in quanto hanno colpito non solo il regime, ma anche le altre fazioni politiche.
Gli Stati Uniti hanno quindi sospeso parzialmente le sanzioni per un periodo di 180 giorni, al fine di non indebolire ulteriormente le capacità di ripresa della Siria di fronte all’emergenza.
La tragedia umanitaria a pochi mesi dalle elezioni
Anche la Turchia è stata colta impreparata dal terremoto, che, a soli tre mesi dalle elezioni, sta ponendo il governo al centro di molte critiche, dovute non solo alla mancanza di tempestività nell’intervento, ma anche all’insufficiente prevenzione a questo tipo di catastrofi naturali.
Erdoğan ha dichiarato lo stato di emergenza trimestrale e ha stanziato 4,6 miliardi di euro per aiuti umanitari, ma lo ha fatto solo il giorno seguente al terremoto, il 7 febbraio.
Nelle prime ore, la popolazione locale ha vissuto una condizione di abbandono nelle città ridotte in macerie. Inoltre, il presidente ha condannato le polemiche in quanto fonte di “caos sociale”; l’8 febbraio, Twitter era casualmente bloccato e due giornalisti sono finiti sotto inchiesta per aver espresso le loro opinioni sulla negligenza del governo.
La popolazione turca lamenta scarsa prevenzione di disastri naturali. Infatti, nel 1999 un altro evento sismico spinse ad introdurre la “earthquake tax”, una tassa che avrebbe dovuto portare nelle casse dello Stato circa 4,3 miliardi di euro da investire in sviluppo, sicurezza e servizi emergenziali, in caso di futuri terremoti.
Purtroppo, ad oggi non è chiaro se e come questi fondi siano stati spesi.
Il ruolo di Erdoğan
Erdoğan vinse le elezioni nel 2003 promettendo di rafforzare strutturalmente gli edifici e attenersi a norme edilizie stringenti.
Con molto ritardo, nel 2018 la legislazione antisismica turca si è adeguata agli standard moderni, ma negli ultimi vent’anni la Turchia è stata protagonista di un grande sviluppo edilizio, motore dell’economia del Paese, avvenuto in maniera incontrollata.
Per questo, nonostante la legislazione antisismica sia oggi adeguata, gran parte delle costruzioni del Paese non è a norma; il che spiega il crollo anche delle più moderne.
La mancata regolamentazione edilizia, oltre alla grave crisi economica che affligge il paese (con un tasso di inflazione pari al 55%), ha reso Erdoğan molto impopolare: non resta che attendere le elezioni di maggio (a meno che non ci siano dei rinvii a causa dell’emergenza), per scoprire se i consensi caleranno al punto di far perdere la poltrona al capo di Stato che da quasi un ventennio governa la Turchia.
Luce Maria Pagnoni
(Immagine di copertina da Secondo Tempo)
Per approfondire il tema, leggi anche l’articolo Cristo si è fermato in Turchia, di Sara Nizza.